Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 gennaio 2023, n. 2219

Tributi - Avvisi di accertamento - IRAP, IRES e IVA - Ricavi non contabilizzati - Uso congiunto dei metodi di accertamento analitico e induttivo - Dichiarazioni del terzo raccolte nell’ambito delle indagini amministrative e inserite, anche per riassunto, nel p.v.c. - Accoglimento

 

Fatti di causa

 

1. Sulla base dei rilievi emersi a seguito di una verifica generale eseguita dalla Guardia di Finanza di Messina nei confronti di G.C. s.r.l. per gli anni di imposta compresi fra il 2005 e il 2008, l’Agenzia delle entrate notificò alla predetta società quattro avvisi di accertamento, con i quali riprendeva a tassazione a fini Irap, Ires e Iva, oltre ad irrogare sanzioni, i maggiori redditi accertati a suo carico.

L’accertamento di questi ultimi, in particolare, traeva fondamento:

- per l’anno 2005, da ricavi non contabilizzati dalla società per complessivi € 128.000,00, pari alla quota del corrispettivo per l’acquisto di un terreno edificabile da compensare con quello dei lavori di ristrutturazione edile realizzati dalla società nella proprietà dei venditori, in relazione al quale non era stata rilasciata fattura;

- per gli anni seguenti, da ricavi non contabilizzati per ingenti importi (€ 4.057.412,41 nel 2006, € 2.755.001,14 nel 2007 ed € 2.770.629,65 nel 2008) nel contesto di un’articolata operazione immobiliare, ove erano emerse differenze fra i prezzi indicati nei preliminari di vendita e quelli di cui ai successivi contratti definitivi, notevolmente inferiori e difformi anche dal loro valore venale, e si era desunta la sussistenza di pagamenti separati attraverso dichiarazioni testimoniali e l’esame della movimentazione bancaria dell’amministratore unico della società.

2. Gli avvisi furono impugnati dalla società innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Messina con separati ricorsi, tutti respinti.

Gli appelli avverso le sentenze di rigetto, proposti dalla società contribuente innanzi alla Commissione tributaria regionale della Sicilia- sezione staccata di Messina, furono da quest’ultima riuniti e decisi in senso favorevole alla società.

La C.T.R. rilevò in premessa che le sentenze di primo grado risultavano carenti sotto il profilo della motivazione, fondandosi tutte sulle medesime argomentazioni che non rendevano conto della necessaria disamina dei fatti, peraltro fra loro ben diversi a seconda delle annualità oggetto di accertamento.

Ancora, osservò che le sentenze impugnate muovevano dall’erroneo assunto secondo il quale la società contribuente aveva portato in detrazione costi e spese non deducibili, quando invece gli atti impositivi non recavano alcuna menzione di tale condotta; e che, inoltre, le stesse avevano omesso di tener conto delle allegazioni e prove offerte dalla società, ed in particolare da una perizia giurata che offriva dati contabili analitici relativi all’operazione immobiliare, erroneamente ritenuta tardiva.

Circa il merito della pretesa erariale, poi, i giudici d’appello rilevarono che l’utilizzo congiunto di autonomi procedimenti di ricostruzione dei ricavi – analitico ed induttivo – aveva prodotto una moltiplicazione della base imponibile, con l’effetto di ravvisare un’evasione fiscale invece insussistente; e ritennero che siffatto uso congiunto costituisse una palese violazione degli artt. 7 e 10 della l. 22 luglio 2000, n. 212 (ndr artt. 7 e 10 della l. 27 luglio 2000, n. 212), comportando una violazione dei principi di informazione e collaborazione e del diritto alla difesa del contribuente.

Più specificamente, poi, ritennero di confutare l’assunto della sproporzione fra prezzo d’acquisto indicato in preliminare e corrispettivo indicato nel definitivo, che giustificarono con il notevole lasso di tempo intercorso fra le rispettive conclusioni.

Ancora, quanto all’esame della movimentazione bancaria dell’amministratore unico, ritennero che – trattandosi di conto riferibile ad un soggetto “terzo” rispetto alla società - l’Amministrazione avrebbe dovuto dar prova della pertinenza del conto all’ente contribuente, poichè, in mancanza, a tali movimentazioni non poteva essere riconosciuto il valore indiziario invece attribuito loro con la pretesa erariale, e che tale prova non era stata fornita, essendo peraltro emerso che il titolare del conto all’epoca era anche amministratore unico di una diversa società.

Quanto, poi, alle dichiarazioni testimoniali valorizzate in seno agli atti impositivi, osservarono che, provenendo da soggetti terzi (gli acquirenti finali degli immobili), le stesse non potevano essere utilizzate con valore di piena prova dal giudice tributario, legittimato, al più, ad attribuirvi mero valore indiziario.

Infine, ritennero di non condividere l’assunto dei primi giudici, conforme all’ipotesi che fondava gli atti impositivi, secondo cui i contratti conclusi dalla società nel caso di specie, e qualificati come vendite con riserva di superficie ed appalti, dissimulassero in realtà dei contratti di permuta di cosa presente (terreno) con cosa futura (immobile da realizzare e successivamente trasferire a terzi), così da qualificare ai fini fiscali gli immobili realizzati come cessioni; in tal senso, evidenziarono la piena autonomia causale del negozio misto di vendita e appalto, socialmente tipico in quanto frequentemente applicato nella prassi negoziale relativa agli immobili, ed al contempo l’insussistenza di conguagli in denaro a fronte delle prospettate cessioni.

Ritennero, in ogni caso, che anche la qualificazione dei contratti operata dall’Ufficio non consentisse di accludere ai ricavi della contribuente il valore di mercato degli immobili, in quanto nello stesso non era ricompresa la quota di corrispettivo attribuibile al terreno, che per espressa clausola contrattuale era rimasto di proprietà dell’alienante.

3. Avverso tale decisione l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi, illustrati da successiva memoria. Resiste la società intimata, medio tempore dichiarata fallita, con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo di ricorso denunzia violazione degli artt. 39, comma primo, lett. d), e comma secondo, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1970, n. 600 (ndr artt. 39, comma primo, lett. d), e comma secondo, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), 54 e 55 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

L’Agenzia delle entrate critica la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto illegittimo l’uso congiunto dei metodi di accertamento analitico e induttivo, desumendone, quali conseguenze, la moltiplicazione della materia imponibile e la violazione degli artt. 7 e 10 della l. n. 212/2000.

La ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, una volta qualificato un accertamento come “induttivo”, l’Amministrazione può comunque tener conto, anche solo parzialmente, dei dati contabili o della documentazione reperita presso il contribuente, al fine di pervenire alla ricostruzione del reddito, laddove – come verificatosi nella specie – l’esame delle scritture contabili riveli non già la loro inattendibilità, ma la sussistenza di incompletezze, inesattezze o infedeltà, tali da consentire il legittimo ricorso al metodo analitico-induttivo di cui all’art. 39, comma primo, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973 in tema di imposte dirette, o dall’art. 55 del d.P.R. n. 633/1972 in tema di Iva.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la violazione degli artt. 32 e 39 del d.P.R. n. 600/1973, 51 e 54 del d.P.R. n. 633/1972 e 2729 cod. civ.

La doglianza ha ad oggetto la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto infondati i rilievi concernenti i maggiori ricavi di cui al triennio 2006-2008, ritenendo sprovvisti del carattere di gravità, precisione e concordanza gli elementi indiziari posti a monte della pretesa erariale.

La ricorrente rinnova la critica alla sentenza d’appello in punto alla ritenuta «moltiplicazione della materia imponibile», evidenziando che le verifiche bancarie hanno fatto compiutamente emergere l’inattendibilità dei ricavi emergenti dall’esame degli atti notarili di compravendita e richiamando il compendio probatorio riportato dai p.v.c. donde gli atti impositivi hanno tratto origine.

Deduce, inoltre, l’erroneità della statuizione nella parte in cui ha sostenuto che l’Ufficio avrebbe dovuto dar prova sia della riferibilità dei conti dell’amministratore unico all’attività d’impresa della contribuente, sia della sussistenza di elementi idonei a suffragare i dati ipotizzati sulla base delle movimentazioni.

3. Il terzo motivo deduce nullità della sentenza in relazione all’art. 7, comma 4, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

La ricorrente censura la sentenza d’appello in punto alla ritenuta illegittimità dell’utilizzo a fini probatori delle dichiarazioni rese da soggetti terzi, delle quali costituisce invece jus receptum la possibilità di vaglio, da parte del giudice tributario, in uno con gli ulteriori elementi di prova.

4. Con il quarto motivo la ricorrente, denunziando violazione degli artt. 32 e 37 del d.P.R. n. 600/1973, ribadisce la piena legittimità dell’utilizzo delle movimentazioni sui conti bancari di pertinenza dell’amministratore unico della società contribuente, dovendosi presumere la riferibilità all’ente delle stesse sulla sola base della carica rivestita dall’interessato.

5. Il quinto mezzo, formulato come denunzia della violazione degli artt. 1362, 1366, 1470, 1472, 1552 e 1555 cod. civ., ha ad oggetto la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto di qualificare l’operazione negoziale dalla quale scaturirono gli accertamenti come vendita con riserva di superficie e appalto.

Secondo la ricorrente, la C.T.R. avrebbe violato gli indicati canoni di ermeneutica contrattuale, omettendo di ricercare la comune intenzione delle parti e di interpretare i contratti secondo buona fede; a tale proposito, la doglianza è corredata da ampi richiami alla giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto di ascrivere al tipo negoziale della permuta di cosa presente con cosa futura «il contratto di vendita di un terreno edificabile con riserva di superficie in corrispondenza di fabbrica che l’acquirente si obblighi a realizzare» (così Cass. n. 14779/2001), laddove l’obbligo di facere assunto dall’acquirente si presenti come meramente strumentale e preparatorio allo scambio reciproco.

6. Con il sesto motivo, la sentenza d’appello è sottoposta a critica in relazione all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., per aver omesso di considerare il fatto che gli acquirenti finali degli immobili risultavano aver versato alla società importi superiori a quelli contabilizzati.

Ad avviso della ricorrente, pertanto, la C.T.R. avrebbe errato nell’arrestarsi al dato della non corrispondenza fra i prezzi d’acquisto indicati nei contratti preliminari e in quelli definitivi, trascurando di tenere in considerazione siffatta, ben più rilevante circostanza.

7. Anche il settimo motivo, infine, denunzia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La ricorrente afferma che la sentenza impugnata ha escluso ogni rilievo probatorio delle movimentazioni di conto corrente dell’amministratore unico della società contribuente sul rilievo del fatto che costui rivestiva, all’epoca, identica qualità anche in seno ad altra società.

Osserva, tuttavia, che in tal senso la decisione avrebbe omesso di considerare che tale circostanza era stata da lei evidenziata mediante un’accurata ricostruzione del ruolo di detta ultima società nella complessiva vicenda; in particolare, il p.v.c. dal quale sono scaturiti gli avvisi di accertamento riportava una dichiarazione testimoniale donde emergeva che la seconda società amministrata metteva le proprie maestranze a disposizione di G.C. nell’ambito dei lavori edili, con la conseguenza che anche le retribuzioni corrisposte ai dipendenti della predetta società andavano ascritte all’attività d’impresa della contribuente.

8. Il primo motivo è fondato.

L’assunto della C.T.R. in base al quale «l’uso congiunto di differenti metodi di accertamento […] costituisce una palese violazione del disposto di cui all’art. 7 della l. 212/2000, che risponde primariamente all’esigenza di rispettare i principi di informazione e collaborazione […] fissati dall’art. 10 della l. 212/2000» non tiene conto del principio, più volte espresso da questa Corte, secondo cui il ricorso al metodo analitico extracontabile è consentito ogni qual volta emerga una parziale inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili, caratterizzate da incompletezza, falsità od inesattezze che, pur non essendo tali da consentire di prescindervi, rende necessario il completamento delle lacune riscontrate (v. fra le altre Cass. n. 22184/2020; Cass. n. 6861/2019).

La mera affermazione, da parte dei giudici d’appello, dell’illegittimità dell’accertamento compiuto, senza alcuna disamina delle circostanze che hanno condotto i verificatori a procedere in tal senso, si pone in contrasto con il principio riportato, e ciò vieppiù ove si consideri che le risultanze della verificazione davano espressamente conto delle infedeltà emerse dalle scritture contabili, nelle quali non erano riportati gli importi dei quali gli acquirenti finali avevano documentato il versamento alla società contribuente.

9. Anche il secondo motivo è fondato.

In disparte quanto già statuito in ordine alla legittimità dell’accertamento, occorre ulteriormente rilevare che dal p.v.c. emerge la circostanza dell’omessa presentazione dell’amministratore unico della società a rendere chiarimenti in ordine alle movimentazioni bancarie disposte sul suo conto; in questo senso, deve necessariamente essere valorizzato il rapporto di contiguità del correntista con l’ente, che rappresenta un elemento indiziario idoneo ad assumere la consistenza di prova presuntiva legale (Cass. n. 7758/2019; Cass. n. 20668/2014).

Per tali ultime ragioni, peraltro, va ritenuta la fondatezza anche del quarto motivo.

10. È fondato anche il terzo motivo di ricorso, seppur correttamente da riqualificare come denunzia di violazione degli artt. 2700 e 2729 cod. civ.; è sufficiente richiamare, al riguardo, il costante orientamento di questa Corte in punto all’utilizzabilità, da parte del giudice tributario come elemento di convincimento, delle dichiarazioni del terzo raccolte nell’ambito delle indagini amministrative e inserite, anche per riassunto, nel p.v.c. poi recepito nell’atto impositivo, sebbene non assunte o verbalizzate in contraddittorio (v. Cass. n. 9316/2020; Cass. n. 6946/2015; Cass. n. 21812/2012).

11. Il quinto motivo, che contesta l’interpretazione dei contratti offerta dall’Amministrazione, non si confronta con l’ulteriore ratio che supporta, sul punto, la decisione impugnata.

Quest’ultima, come riassunto nella parte in fatto, ha infatti affermato che anche la diversa interpretazione adottata dall’Ufficio non consentiva di attribuire agli immobili compravenduti il loro valore venale, non essendo negli stessi compresa la quota di corrispettivo attribuibile al terreno, che per espressa clausola contrattuale era rimasto di proprietà dell’alienante.

La censura, pertanto, non supera il vaglio di ammissibilità.

12. Il sesto motivo è fondato.

Nel disconoscere il presupposto dell’accertamento costituito dalla differenza di valore fra il corrispettivo della vendita riportato nel preliminare e quello effettivamente versato, la C.T.R. ha giustificato il relativo scarto con il lasso di tempo trascorso fra i due contratti; in tal senso, ha omesso di considerare la circostanza, pure emergente dai rilievi riportati in seno al p.v.c., del versamento di somme ulteriori alla società da parte degli acquirenti finali, risultata decisiva, nell’ottica della pretesa impositiva, per la determinazione dei maggiori ricavi.

13. Per ragioni non dissimili è poi fondato il settimo motivo.

La sentenza d’appello ha infatti ritenuto di non attribuire valore agli accertamenti operati sul conto corrente dell’amministratore unico della società, osservando che il predetto, all’epoca, rivestiva analoga qualifica in diverso sodalizio; sul punto, tuttavia, non ha preso in considerazione il fatto, parimenti evidenziato dai verificatori, che le maestranze di tale ultima società erano impegnate nell’attività d’impresa della prima.

14. In conclusione, il ricorso va accolto quanto al primo, secondo, terzo, quarto, sesto e settimo motivo; la sentenza impugnata va conseguentemente cassata con rinvio al giudice a quo, il quale, in diversa composizione, deciderà conformandosi ai principi di diritto indicati in relazione ai primi quattro motivi di ricorso, e tenendo conto dei fatti evidenziati nei restanti motivi accolti, provvedendo altresì sulle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso in relazione al primo, secondo, terzo, quarto, sesto e settimo motivo, dichiarando inammissibile il restante, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia sezione staccata di Messina.