Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 05 aprile 2022, n. 18085

Reati tributari - Dichiarazione fraudolenta mediante uso di documenti per operazioni inesistenti - Indebita compensazione di crediti ritenuti inesistenti - Doppia imputazione - Continuazione in violazione - Determinazione della condanna

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con la sentenza 6 luglio 2020 la Corte d'Appello di Palermo, in parziale riforma di quella del 2 dicembre 2016 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Marsala:

- ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di M. A. L. perché estinti per prescrizione i reati ex artt. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, di cui ai capi 1, 3 e 7 in relazione alle condotte riportate alle lettere a) e b) di ciascuno di essi; 10- quater d.lgs. n. 74 del 2000, di cui ai capi 2 e 4 in relazione alle condotte commesse fino all'anno di imposta 2010; 76 d.lgs. n.445 del 2000 (capi 34 e 36); art. 640-bis cod. pen. (capi 35 e 37);

- ha assolto M. A. L. per il reato ex art. 316-bis cod. pen. (capo 44) perché il fatto non sussiste;

- ha rideterminato la pena in 2 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione per i reati ex artt. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, di cui ai capi 1, lett. c), d), e), f); 3), lett. c), d), e), f); 5; 7, lett. c), d), e); 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000, di cui ai capi 2 e 4 in relazione alle condotte commesse dopo l'anno di imposta 2010, e 6; 56, art. 640-bis cod. pen (capi 40 e 42) e confermato nel resto la sentenza di primo grado.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato.

2.1. Con il primo motivo si deduce ex art. 606, lett. b), cod. proc. pen. l'erronea applicazione dell'art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000, limitatamente alle condotte non dichiarate prescritte. L'imputato è stato condannato, in relazione a tre diverse società, per più reati ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, per l'indicazione nelle dichiarazioni relative a diversi anni di imposta di elementi passivi fittizi, mediante l'uso di fatture per operazioni inesistenti; con riguardo ai crediti fiscali derivanti dall'utilizzo di dette fatture, utilizzati in compensazione, l'imputato è stato condannato anche il delitto ex art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000.

Secondo i giudici di merito, i crediti oggetto di compensazione ex art. 17 d.lgs. n.241 del 1997 sono quelli derivanti dall'uso delle fatture per operazioni inesistenti su cui si fonda l'imputazione ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000. La Corte territoriale, disattendendo le censure difensive, avrebbe erroneamente ritenuto il fatto concretizzare sia il delitto ex art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 che il reato ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, in virtù di una differenza strutturale tra le due fattispecie e di un'attinenza a due diversi momenti dell'iter di adempimento delle obbligazioni tributarie.

Tali conclusioni sarebbero errate: la disamina degli elementi costitutivi dei due reati renderebbe inapplicabile, al caso de quo, l'art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000, la cui operatività presuppone che i crediti adoperati per la compensazione siano non spettanti o inesistenti. I crediti portati in compensazione dall'imputato sarebbero ricollegati direttamente ed esclusivamente all'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, già oggetto di contestazione per la fattispecie di frode fiscale; pertanto, non si tratterebbe né di crediti non spettanti né inesistenti, atteso che le compensazioni non hanno riguardato crediti difettanti di un presupposto costitutivo o completamente avulsi dalla situazione fiscale del contribuente, bensì crediti fondati sulle fatture passive registrate in contabilità e i cui costi in esse incorporate sono stati conseguentemente indicati in sede dichiarativa ad abbattimento degli imponibili.

Non dovrebbe essere appL. la fattispecie di cui all'art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 che presupporrebbe operazioni prive di qualsiasi presupposto costitutivo, bensì, trattandosi di crediti che rispondono alla nozione di fittizietà, sarebbe sufficiente la contestazione ex art. 2 d.lgs. 74/2000.

Sarebbe pacifico che non può esservi una coesistenza tra la responsabilità per il delitto ex art. 10-quater e quella per la fattispecie di frode fiscale di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, stante il rapporto di specialità intercorrente tra le due norme, in virtù del quale nel caso in cui il risparmio di imposta avvenga mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti nonché mediante l'indicazione in dichiarazione dei corrispondenti elementi fittizi, non potrebbe che venire in rilievo la più grave fattispecie di cui all'art. 2, non residuando più spazio per la fattispecie di cui all'art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000.

Diversamente da quanto sostenuto dalla Corte territoriale, tra le figure delittuose, entrambe finalizzate a preservare i medesimi beni giuridici dell'interesse statale alla riscossione dei tributi e della trasparenza fiscale del contribuente, sussisterebbe una progressione di illiceità idonea a legittimare un fenomeno di consunzione, con applicazione esclusiva della fattispecie più grave. La prevalenza del delitto di frode fiscale si legherebbe anche al fatto che una dichiarazione fiscale corredata dell'indicazione di costi fittizi ingloba già di per sé una lesione dell'aspettativa erariale alla corretta riscossione dei tributi, indipendentemente da quando si materializza l'incasso del vantaggio tributario illecito. La Corte territoriale, sebbene prenda in considerazione tale circostanza, non giungerebbe alle conclusioni corrette, operando un parallelismo non rilevante, poiché verrebbero in rilievo susseguenti dichiarazioni fiscali, ciascuna avente la propria autonomia e la propria rilevanza penale.

Sarebbe privo di fondamento anche l'argomento attraverso il quale la Corte territoriale ha cercato di disattendere il rilievo difensivo sulla mancata contestazione di alcuna ipotesi di compensazione indebita da parte dell'Agenzia delle Entrate. Sul punto la Corte ometterebbe di considerare che l'Agenzia, al netto dell'aspetto attinente al recupero delle imposte evase, ben avrebbe potuto irrogare le sue autonome sanzioni, laddove avesse ravvisato gli estremi di una compensazione con crediti inesistenti. La mancata irrogazione delle sanzioni non potrebbe che significare che l'Agenzia delle Entrate abbia considerato l'illecito insussistente o comunque assorbito nell'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.

2.2. Con il secondo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e di illogicità della motivazione sulla ritenuta responsabilità penale, rilevante ai solo effetti civili, stante la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile V. S. F., per i delitti di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art.  -bis cod. pen. di cui ai capi 35 e  37. Con l'appello si sostenne l'insussistenza della truffa ex art. 640-bis cod. pen. ed in particolare dell'elemento soggettivo della fattispecie; D. s.r.l. e R. G. s.r.l. avrebbero oggettivamente realizzato i progetti finanziati con contributi pubblici (il c.d. D. B. Hotel per la società D. s.r.l. ed il c.d. B. B. per la R. G. s.r.I.), sostenendo effettivamente i costi ad essi connessi. Tale circostanza emergerebbe dalle dichiarazioni dell'Amministratore Giudiziario dottor F., il cui contenuto è riassunto nel ricorso, e dalle dichiarazioni dell'imputato.

Nell'appello si evidenziò che la sentenza di primo grado sarebbe stata errata quanto all'induzione in errore del personale della Banca concessionaria M. s.p.a., mentre il ricorrente avrebbe effettivamente sopportato i costi, anche in misura superiore a quanto dichiarato; non sussisterebbe l'elemento soggettivo del dolo di truffa.

Sul punto la Corte territoriale non avrebbe reso una motivazione adeguata, avendo ritenuto di smentire le dichiarazioni dell'Amministratore Giudiziario, pur essendosi quest'ultimo espresso in maniera specifica per ogni intervento ed evidenziato un'integrale corrispondenza tra le immobilizzazioni materiali delle società ed i saldi di bilancio inglobanti i costi di cui alle fatture per operazioni inesistenti. Sarebbe, altresì, non condivisibile l'assunto della Corte territoriale per cui il danno arrecato alla P.A. sarebbe collegato all'esborso di somme non spese, atteso che l'effettiva realizzazione delle opere interessate da pubblici finanziamenti sarebbe stata accertata dai collaudatori incaricati dall'Assessorato al Turismo della Regione Sicilia e dai periti nominati dall'Amministratore Giudiziario.

Il riferimento giurisprudenziale (Sez. 6 del 13/11/2003 n.938) citato dalla Corte di appello sarebbe errato, essendo basato sull'inesistenza dei corrispondenti investimenti, che nella specie sussisterebbero.

2.3. Con il terzo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione quanto alla ritenuta responsabilità penale per i delitti di tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex artt. 56 e art. 640-bis cod. pen. di cui ai capi 40 e 42. Le sentenze di merito avrebbero escluso qualsiasi raggiro con riferimento alle fasi volte all'ottenimento delle delibere di stanziamento dei contributi pubblici e non sarebbe stata ravvisata alcuna criticità con riguardo all'erogazione della prima parte del contributo deliberato. Le conclusioni della Corte territoriale sarebbero errate nella parte in cui ha ravvisato gli estremi del tentativo punibile ex art. 640-bis cod. pen. Nella circostanza che tra le società ed i propri consulenti circolarono dei prospetti riepilogativi in formato excel contenenti un elenco di voci di spesa, tra cui anche l'indicazione di alcune delle fatture per operazioni inesistenti oggetto di contestazione ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000; in particolare, secondo la sentenza impugnata, l'elemento da cui deriverebbe il tentativo punibile si legherebbe al successivo inoltro di tali documenti alla C.R.I.A.S., mostrando così i riferimenti relativi anche alle false fatture.

Tali affermazioni sarebbero illogiche, in quando confonderebbero le comunicazioni relative al monitoraggio periodico ed i riepilogativi di spesa, quasi immedesimandoli, mentre si tratterebbe di aspetti distinti tra loro. Le società R. G. s.r.l. e R. s.r.I., nell'ambito del monitoraggio periodico, non avrebbero tenuto alcun comportamento finalisticamente orientato a dare rilevanza ai riferimenti alle fatture illecite ma si sarebbero limitate a trasmettere alla C.R.I.A.S. delle comunicazioni indicative del valore complessivo dei lavori effettuati, informative di tipo compendiativo e generico. Dette comunicazioni sarebbero, altresì veritiere, essendo stato dimostrato pacificamente che le due società avevano realmente svolto e pagato i lavori per un valore che non sarebbe mai stato messo in dubbio in sede di monitoraggio.

La circostanza che i progetti siano stati realmente eseguiti priverebbe di consistenza l'ipotesi del tentativo punibile di truffa, non essendo stato dimostrato che l'ente regolatore sia stato tratto in inganno circa l'entità dei costi sostenuti, né che l'imputato abbia mirato a conseguire un ingiusto profitto o che l'Amministrazione abbia rischiato di subire un danno, posto che le risorse erogate hanno avuto una destinazione ai progetti finanziati.

Inoltre, l'effettiva realizzazione di attività edificatorie, impiantistiche e di ristrutturazione sarebbe stata confermata dalle sommarie informazioni rese dall'arch. L. e dalle interlocuzioni circa lo stato di avanzamento dei lavori intervenute tra la stessa C.R.I.A.S. e l'Amministratore giudiziario successivamente all'avvio delle indagini e alla sottoposizione a sequestro dei compendi aziendali.

Alla luce di tali elementi l'asserita rilevanza penale attribuita alla condotta di predisposizione della documentazione excel non potrebbe conciliarsi logicamente con la circostanza che tale documentazione elaborata in sede di monitoraggio avesse un contenuto diverso, sostanziandosi nell'indicazione globale del valore economico dei progetti realizzati.

L'evenienza contemplata dalla Corte territoriale non si armonizzerebbe neanche con le procedure di finanziamento connesse al P.O. FESR Sicilia 2007/2013, che prevedono che la cernita delle specifiche fatture di costo operi solo a valle in sede di rendiconto, essendo possibile anche che alcune fatture non vengano considerate e, quindi, non utilizzate dalle società beneficiarie dei progetti di finanziamento.

Alla luce di ciò non sarebbe ravvisabile alcun automatismo rispetto all'utilizzo nell'ambito delle procedure di finanziamento delle fatture oggetto di contestazione ex art. 2 d.lgs. 74/2000, mentre sarebbe ragionevole, secondo il ricorrente, che le società in questione non avrebbero fatto riferimento ai costi inglobati nelle fatture per operazioni inesistenti.

La disponibilità di questi fogli riepilogativi excel non sarebbe elemento idoneo a manifestare una volontà univoca verso la consumazione di una truffa e tale conclusione sarebbe corroborata dalla circostanza che i suddetti fogli siano sempre rimasti nel circuito di relazioni tra le società ed i propri professionisti di fiducia, senza mai trovare un riscontro esterno. Sul punto, non sarebbero condivisibili le affermazioni della Corte territoriale secondo cui i professionisti erano comunque destinati ad interfacciarsi anche direttamente con gli enti erogatori, atteso che tali interazioni non vertevano direttamente sugli invii agli enti dei monitoraggi di spesa, che rimanevano esclusivo appannaggio delle società.

Anche dalle sommarie informazioni rese dal dott. G. emergerebbero ulteriori fattori di insussistenza di un tentativo di truffa, non essendo stati incanalati nel monitoraggio i riferimenti a tutte le specifiche fatture.

Allo stesso modo non sarebbe corretto, al fine di dimostrare il tentativo punibile, opporre le vicende oggetto della diversa contestazione per truffa consumata, in quanto il riferimento a separati fatti oggetto di diverso addebito necessiterebbe di un'autonoma dimostrazione.

2.4. Con il quarto motivo si deduce l'erronea applicazione degli artt. 81 cod. pen. e 597, comma 3, cod. proc. pen. Il Giudice dell'udienza preliminare avrebbe errato nella determinazione dell'aumento per la continuazione, perché complessivamente superiore al triplo; il Giudice dell'udienza preliminare sarebbe partito dalla pena base di due anni, ma avrebbe applicato la pena di sei anni e due mesi di reclusione quale aumento per la continuazione in violazione dell'art. 81 cod. pen., con un'illegittima eccedenza di due mesi.

La Corte territoriale, in virtù dell'estinzione di alcuni reati, ha proceduto ad una nuova determinazione della pena complessiva ma avrebbe violato il divieto di reformatio in peius: per i reati non prescritti l'aumento per la continuazione è di un mese superiore a quello, per ciascuno di essi, stabilito dal Giudice dell'udienza preliminare.

Inoltre, la Corte di appello avrebbe reiterato l'errore del Giudice dell'udienza preliminare ed avrebbe offerto una spiegazione insufficiente, avendo ritenuto la censura difensiva assorbita sul rilievo che la pena finale fosse inferiore al triplo della pena base.

2.5. Con il quinto motivo si deduce l'illogicità della motivazione sul diniego dell'operatività, nella massima estensione, della circostanza attenuante ex art. 13- bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000.

L'operatività limitata della circostanza attenuante de quo sarebbe logicamente incompatibile con la circostanza che l'integrale pagamento dei debiti fiscali sarebbe stato materialmente precluso dal sequestro, nell'ambito della procedura per l'applicazione della misura di prevenzione, delle somme necessarie al pagamento; l'imputato non sarebbe stato concretamente messo in condizione di adempiere gli obblighi tributari che avrebbe voluto adempiere, al fine di beneficiare dell'attenuante.

Infatti, la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto della circostanza che tutte le società del gruppo L. avevano aderito agli inviti a definire ex art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n.218 del 1997, ratificando un accordo che prevedeva un cospicuo pagamento e che il Pubblico ministero aveva autorizzato l'utilizzo di risorse sequestrate per effettuare un primo pagamento nei confronti dell'Agenzia delle Entrate.

La Corte di appello, inoltre, non avrebbe considerato l'impedimento costituito dal successivo sequestro di tutti beni riconducibili all'imputato e alle sue società né le plurime istanze di dissequestro presentate nell'interesse dell'imputato al fine di ottenere quantomeno uno svincolo parziale delle somme sequestrate, per estinguere tutti i debiti erariali.

Il diniego di una piena applicazione di tale circostanza attenuante non sarebbe corretto anche tenuto conto dell'art. 50 d.lgs. n.159 del 2011, che prevede, in caso di confisca, l'estinzione di ogni credito erariale per confusione ai sensi dell'art. 1253 cod. civ., essendo le somme già acquisite dallo Stato in via preventiva e non residuando ulteriori aspettative creditorie erariali. L'applicazione del sequestro, teleologicamente orientato alla confisca, avrebbe così già soddisfatto ogni credito fiscale, essendosi lo Stato rivalso nei confronti di tutte i beni dell'imputato; ne dovrebbe conseguire la piena applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000.

2.6. I difensori hanno poi depositato le conclusioni scritte anche in replica alle argomentazioni del Procuratore generale.

 

Considerato in diritto

 

1. Il primo motivo, con cui si deduce il vizio di violazione di legge sulla ritenuta  responsabilità del ricorrente per i reati ex art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 di cui ai capi 2 e 4, è infondato; il ricorso opera una lettura del tutto parziale della giurisprudenza formatasi sul reato ex art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000.

1.1. Il fatto oggetto dei capi 2 e 4, incontestato, fondato sugli accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza di Trapani, è che le società dell'imputato hanno maturato, riportando nelle dichiarazioni annuali Iva gli elementi passivi fittizi costituiti dalle fatture per operazioni inesistenti, crediti Iva inesistenti, perché derivanti dalla commissione dei reati ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, delitti non oggetto di impugnazione.

Tali crediti sono stati utilizzati, in tutto o in parte, in compensazione, ex art. 17 d.lgs. n.241 del 1997, negli anni di imposta immediatamente successivi, per il pagamento, mediante F24, dei debiti tributari per Iva gravanti sulle società - già utilizzatrici delle fatture per operazioni inesistenti - risultanti dalle liquidazioni periodiche dell'Iva.

1.2. Da tale ricostruzione del fatto, approfondita nelle pagine 67 e ss. Della sentenza di primo grado, risulta chiaramente che le due condotte ex artt. 2 e 10- quater d.lgs. n. 74 del 2000 sono ontologicamente e cronologicamente distinte tra loro: sono state commesse in tempi diversi e con modalità del tutto diverse.

La condotta ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 è stata commessa avvalendosi delle fatture per le operazioni inesistenti, indicando nelle dichiarazioni Iva gli elementi passivi fittizi.

La condotta ex art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 è stata commessa, l'anno successivo, compensando il credito inesistente Iva creato nel precedente periodo di imposta con il debito Iva maturato nel periodo di imposta successivo; è stata eseguita una compensazione cd. orizzontale.

Non vi è, dunque, alcuna duplicazione dei profili di responsabilità, trattandosi di condotte diverse.

1.3. Il credito Iva che maturi dall'uso di fatture per operazioni inesistenti, adoperate nella dichiarazione Iva, è un credito inesistente perché è del tutto privo di giustificazione e dell'elemento costitutivo del credito.

Per l'esistenza del credito rileva non la circostanza che sia stata redatta la fattura ma solo l'effettività dell'operazione sottostante; il pagamento dell'Iva è collegato all'operazione relativa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi ai sensi del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633.

1.4. Del tutto errato è poi il richiamo a Sez. 3, n. 43627 del 21/06/2018, M., Rv. 274062 - 01, che ha affermato il principio per cui, in tema di reati tributari, ai fini dell'integrazione del delitto di indebita compensazione sono inesistenti i crediti Iva non risultanti dalle dichiarazioni o dalle denunce periodiche di cui all'art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997.

Tale principio è stato affermato, infatti, con riferimento al caso concreto sottoposto alla Corte. La sentenza M. afferma in motivazione che ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997, norma esplicitamente richiamata dall'art. 10-quater del d.lgs. 74/2000, i crediti Iva che possono essere utilizzati per la compensazione sono solo quello risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche: «... sicché correttamente, in base alla deposizione del teste, i crediti portati in compensazione sono stati ritenuti inesistenti, perché non si trattava di crediti iva risultanti dalle dichiarazioni o denunce presentate dal ricorrente....».

Ciò non toglie che anche un credito Iva, risultante dalla dichiarazione, possa essere inesistente, se è inesistente, oggettivamente o soggettivamente, l'operazione indicata in fattura.

1.5. Improprio è il richiamo a Sez. 3, n.55485 del 2018, che attiene al rapporto tra i reati ex art. 2 e 4 d.lgs. n. 74 del 2000.

1.6. Una conferma dell'interpretazione sull'inesistenza del credito si rinviene nell'art. 5 del d.l. n. 146 del 21 ottobre 2021, recante «Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili» (cd. Decreto fiscale 2021), entrato in vigore il 22 ottobre 2021, che nel dettare «disposizioni urgenti in materia fiscale», con i commi da 7 a 12, ha introdotto una speciale causa di non punibilità per il delitto di indebita compensazione cui all'articolo 10-quater del decreto legislativo n. 74 del 2000. In particolare, i commi da 7 a 10 delineano una speciale procedura, in forza della quale i soggetti che, alla data di entrata in vigore del decreto, hanno utilizzato in compensazione il credito d'imposta per investimenti in attività di ricerca e sviluppo (di cui all'articolo 3 del decreto-legge n. 145 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 9 del 2014), maturato a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino al periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2019, possono effettuare il riversamento dell'importo del credito indebitamente utilizzato, senza applicazione di sanzioni e interessi.

La procedura di riversamento spontaneo è riservata ai soggetti che, nei periodi d'imposta indicati, abbiano realmente svolto, sostenendo le relative spese, attività in tutto o in parte non qualificabili come attività di ricerca e sviluppo ammissibili nell'accezione rilevante ai fini del credito d'imposta. La procedura di riversannento spontaneo può essere utilizzata anche dai soggetti che abbiano commesso errori nella quantificazione o nell'individuazione delle spese ammissibili in violazione dei principi di pertinenza e congruità, nonché nella determinazione della media storica di riferimento.

L'accesso alla procedura è, in ogni caso, escluso nei casi in cui il credito d'imposta utilizzato in compensazione sia il risultato di condotte fraudolente, di fattispecie oggettivamente o soggettivamente simulate, di false rappresentazioni della realtà basate sull'utilizzo di documenti falsi o di fatture che documentano operazioni inesistenti, nonché nelle ipotesi in cui manchi la documentazione idonea a dimostrare il sostenimento delle spese ammissibili al credito d'imposta.

Ciò conferma che il reato ex art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 può essere commesso quando il credito di imposta utilizzato in compensazione derivi dall'uso di fatture per operazioni inesistenti.

1.7. Anche la giurisprudenza civilistica, seppure con riferimento alla diversa fattispecie dell'emissione delle fatture per operazioni inesistenti, ha ritenuto che ciò che deriva da tale reato non possa mai essere portato in compensazione. Cfr. Sez. 5, ordinanza n. 6983 del 12/03/2021, Rv. 660776 — 01, per cui, in tema d'IVA, l'art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972 - in base al quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura - va interpretato nel senso che il corrispondente tributo viene ad essere considerato «fuori conto» e la relativa obbligazione, conseguentemente, «isolata» da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate e, per ciò stesso, estraniata dal meccanismo di compensazione tra IVA a valle ed IVA a monte, che presiede alla detrazione d'imposta di cui all'art. 19 d.P.R. cit. (e ciò anche perché l'emissione di fatture per operazioni inesistenti ha sempre costituito condotta penalmente sanzionata come delitto); tale regola prevale su qualsiasi regime speciale o agevolativo, quale quello ex art. 34 del cit. d.P.R. 633 del 1972, in tema di debito d'imposta del produttore agricolo.

1.8. Va, infine, rilevato che la sentenza richiamata dalla difesa, Sez. 3 n.5703 del 2015, ha affermato il principio riportato nel ricorso rispetto alla richiesta del ricorrente di qualificare lo stesso fatto ex art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 anziché in quello ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, mentre nel caso in esame si tratta di condotte distinte ontologicamente e cronologicamente.

1.9. Tali distinte condotte realizzano, tra l'altro, una pluralità d'evasione di imposta e non, come sostenuto nel ricorso, un unico danno all'Erario. L'Iva non corrisposta è, infatti, relativa sia all'anno di imposta relativo alla dichiarazione nella quale sono utilizzate le fatture per le operazioni inesistenti sia quella relativa al successivo anno di imposta, per effetto della compensazione illecita.

1.10. Proprio la sussistenza di una pluralità di condotte impedisce ogni assorbimento o l'applicazione del principio di specialità, per altro dovendo rilevarsi che nell'art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 non vi è alcuna clausola di salvezza.

1.11. Del tutto irrilevante è poi che l'Agenzia delle Entrate non abbia contestato il reato, posto che l'esercizio dell'azione penale spetta al Pubblico ministero e la corretta qualificazione giuridica dei fatti è compito esclusivo dell'autorità giudiziaria e non di quella amministrativa.

2. Con il secondo, il terzo ed il quinto motivo si deduce il vizio di illogicità della  motivazione. Per come articolati, i motivi sono inammissibili ex art. 606, comma 3, cod. proc. pen.

Il vizio denunciabile ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen., è solo quello di manifesta illogicità della motivazione e non di illogicità tout court, come invece prospettato nel ricorso.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza (cfr. Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 - 01, in motivazione), in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che «attaccano» la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, per essere manifesta deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ocull, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze.

Ai sensi dell'art. 581, comma 1, cod. proc. pen., è onere del ricorrente indicare, a pena dell'inammissibilità del ricorso, in quali parti la motivazione della sentenza sia affetta da manifesta illogicità.

3. In ogni caso, il secondo motivo, relativo ai capi 35 e 37 e limitato alla condanna al risarcimento del danno, è manifestamente infondato.

3.1. Con il motivo, più che contestare i vizi di violazione di legge e della motivazione, si propone esclusivamente la lettura alternativa del fatto, affermando poi che la Corte di appello non avrebbe risposto adeguatamente ai motivi di appello, in contrasto con i principi della giurisprudenza prima richiamati.

Per altro, il motivo si confronta solo parzialmente con la motivazione della sentenza impugnata, non prendendo in esame il nucleo essenziale della decisione, riportato a pagina 10, ed è inammissibile anche per il difetto del requisito della specificità estrinseca.

4. Oltre a quanto già osservato sull'articolazione del vizio della motivazione, con il terzo motivo si prende in esame solo una parte della motivazione della sentenza impugnata (la 12) ma non anche quella (pag. 11), in cui la Corte territoriale ha specificato il ruolo del direttore dei lavori e della D.C.. Inoltre, con il motivo si contesta il valore probatorio attribuito dalla Corte territoriale alle comunicazioni periodiche sullo stato di avanzamento dei lavori. Per altro, il ricorrente non contesta che nei riepiloghi siano stati inseriti, quali lavori effettuati, anche le fatture per operazioni inesistenti, come rilevato dalla Corte di appello. Il ricorso prospetta esclusivamente argomenti in fatto e di merito, richiamando le prove testimoniali e documentali, chiamando la Corte ad una valutazione del materiale probatorio inammissibile in sede di legittimità.

5. Il quarto motivo è fondato.

5.1. Se il Giudice dell'udienza preliminare aveva effettivamente superato di 2 mesi di reclusione il triplo ex art. 81 cod. pen., però la Corte di appello non aveva alcun obbligo di ridurre proporzionalmente la pena ma solo quello di rideterminarla nel rispetto degli artt. 81 cod. pen. e 597, comma 4, cod. proc. pen.

5.2. La Corte di appello ha determinato l'aumento per la continuazione in 2 anni e 2 mesi di reclusione, perché la pena base per il più grave reato di cui al capo 1, lett. c, è stata determinata in un anno ed 8 mesi di reclusione e la pena aumentata per la continuazione in 3 anni e 10 mesi di reclusione.

In primo grado, l'aumento per la continuazione è stato determinato in un mese di reclusione per i reati di cui ai capi: 1, lett. d; 1 lett. e; 2 anno d'imposta 2011; 2 anno d'imposta 2013; 3 lett. c; 3 lett. d; 3 lett. e; 4 anno d'imposta 2011; 4 anno d'imposta 2012; 4 anno d'imposta 2013; 5 lett. a; 6 anno d'imposta 2013; 7 lett. c; 7 lett. d; 7 lett. e; per complessivi 15 mesi di reclusione.

Sempre in primo grado l'aumento per la continuazione è stato determinato in 2 mesi di reclusione per i reati di cui ai capi 1 lett. f; 3 lett. f; 5 lett. b; 40; 42, per complessivi 10 mesi.

5.3. Dunque, in primo grado, l'aumento complessivo per i reati, per cui è intervenuta la condanna in appello, ritenuti avvinti dalla continuazione, era di 2 anni ed un mese di reclusione: la Corte di appello ha effettivamente applicato una pena, quale aumento per la continuazione, superiore di un mese rispetto a quanto previsto in primo grado.

5.4. Pertanto, il motivo deve essere accolto e la pena, ai sensi dell'art. 620 cod. proc. pen., così rideterminata: pena base, per il più grave reato di cui al capo 1, lett. c, un anno ed 8 mesi di reclusione; aumentata per la continuazione come prima indicato a 3 anni e 9 mesi di reclusione, ridotta per il rito a 2 anni e 6 mesi di reclusione.

6. Con il quinto motivo si deduce l'illogicità della motivazione sul diniego dell'operatività della circostanza attenuante ex art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, anche agli anni di imposta per i quali il versamento non è stato effettuato a causa, secondo la prospettazione difensiva, del sequestro dei beni dell'imputato e delle società nel procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione dinanzi al Tribunale di Trapani.

Va qui ribadita l'inammissibilità del motivo ex art. 606, comma 3, cod. proc. pen. per le considerazioni già esposte.

6.1. Va, altresì, rilevato che con il ricorso si prospetta in realtà una questione di diritto: se la circostanza attenuante ex art. 13-bis d.lgs. n. 74 del 2000 sia applicabile anche all'imputato che non abbia potuto adempiere agli obblighi con il fisco per avere subito il sequestro di prevenzione dei suoi beni.

Rispetto a tale questione di diritto il ricorrente avrebbe dovuto dedurre il vizio di violazione di legge e non quello della motivazione: non è consentito il motivo di ricorso che deduca vizi di motivazione con riferimento a questioni di diritto.

6.2. Anche a voler superare l'inammissibilità del motivo per le argomentazioni ora esposte, il motivo, che si fonda sulla confusione ex art. 50 d.lgs. 159/2011, è manifestamente infondato.

6.2.1. L'art. 24 del d.lgs. 159/2011 prevede che nei confronti del proposto possa essere disposta o la confisca dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego o dei beni di cui la persona proposta non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.

La confisca dei beni è disposta nei confronti dei soggetti socialmente pericolosi - secondo le categorie previste dalla legge -perché la pericolosità si trasferisce alla res per via della sua illecita acquisizione da parte del soggetto socialmente pericoloso.

La confisca di prevenzione ha la finalità di rimuovere dal circuito economico legale i beni riconducibili, direttamente od indirettamente, a soggetti ritenuti socialmente pericolosi, relativamente ai quali è lecito presumerne l'illecita provenienza. Come hanno affermato le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, Spinelli, Rv. 262603, tale finalità si giustifica non solo per ragioni etiche, ma anche per motivazioni d'ordine economico in quanto l'accumulo di ricchezza, frutto di attività delittuosa, è fenomeno tale da inquinare le ordinarie dinamiche concorrenziali del libero mercato, creando anomale posizioni di dominio e di potentato economico, in pregiudizio delle attività lecite.

La confisca di prevenzione trova il suo fondamento nel compito dell'ordinamento giuridico di rimuovere i beni di provenienza illecita dal circuito dell'economia illegale.

Pertanto, l'estinzione per confusione del credito erariale - perché confiscati i beni del proposto a seguito dell'avvenuta dimostrazione della pericolosità sociale e della provenienza illecita di tali beni - trova fondamento nell'avvenuta sottrazione al proposto dei beni frutto di attività illecita o del loro reimpiego e nell'acquisizione al patrimonio dello Stato.

6.2.2. Ne consegue che la confusione non determina in alcun modo l'applicabilità della circostanza attenuante ex art. 13-bis d.lgs. n. 74 del 2000. Tale circostanza attenuante si fonda, al contrario, sulla condotta positiva dell'imputato che provveda al pagamento dei tributi, delle spese e degli interessi prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado; e ciò non può mai avvenire con beni di provenienza illecita che l'ordinamento giuridico ha rimosso dal circuito dell'economia illegale.

7. Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio, che si ridetermina in anni due e mesi sei di reclusione; nel resto, il ricorso deve essere rigettato.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, che ridetermina in anni due e mesi sei di reclusione.

Rigetta nel resto il ricorso.