Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 24 marzo 2017, n. 7685

Lavoro - Contratto a progetto - Risoluzione anticipata - Inadempimenti gravi - Giustificazione del recesso

 

Svolgimento del processo

 

1. Con sentenza n. 841/11 il Tribunale di Bologna, addebitata a inadempimento della S. S.r.l. la risoluzione anticipata del contratto di lavoro a progetto stipulato il 3.2.04 con E.T., condannava la società a pagare al T. la somma di euro 265.000,00 pari al 75% del valore residuo tra quanto di fatto erogatogli e il compenso complessivamente pattuito, oltre al risarcimento del danno biologico (liquidato in euro 53.675,00 per inabilità temporanea e in euro 11.992,50 per invalidità permanente).

2. Con sentenza pubblicata il 27.3.14 la Corte d'appello felsinea, in totale riforma della pronuncia di prime cure, rigettava ogni domanda di E.T., che oggi ricorre per la cassazione della sentenza affidandosi a tre motivi.

3. Resiste con controricorso C.H. S.r.l. in liquidazione, succeduta alla S.H. S.r.l. che, a sua volta, era succeduta alla S.  S.r.l.

4. Le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1.1. Il primo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 115 co. 1° c.p.c. ed omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, per avere la sentenza impugnata negato che il comportamento della società integrasse gli estremi d'un inadempimento di gravità tale da giustificare il recesso anticipato da parte di E.T., nonostante che i fatti da lui denunciati non fossero stati specificamente, precisamente e puntualmente contestati dalla società, tardivamente costituitasi nel giudizio di primo grado.

1.2. Il secondo mezzo deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. ed omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, per non avere la Corte territoriale preso in esame i fatti sui quali il ricorrente aveva fondato la propria ulteriore domanda di risarcimento del danno biologico, trascurando che i fatti che aveva ritenuto non costituire inadempimenti tanto gravi da giustificare l'anticipato recesso di E.T. potevano - nondimeno - essere stati causa del danno biologico lamentato (come accertato dal CTU); tali fatti - prosegue il motivo - consistevano nel comportamento offensivo e disturbante del titolare della S., nelle ambigue condizioni di lavoro, nelle promesse non mantenute e negli obblighi disattesi, insomma in una interazione di fattori personali ed ambientali.

1.3. Il terzo mezzo prospetta violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c., per avere la sentenza impugnata liquidato in favore della società anche le spese di lite del primo grado di giudizio, nonostante che in esso la S. S.r.l. fosse rimasta contumace.

2.1. Il primo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, poiché il ricorso non trascrive né allega la memoria difensiva della società da cui emergerebbe la mancata contestazione dei fatti dedotti dall'attore.

A ciò va aggiunto - per mera completezza espositiva - che l'onere di contestazione riguarda i fatti primari, ossia costitutivi, modificativi, impeditivi od estintivi del diritto azionato (cfr. Cass. n. 4854/14; Cass. n. 22787/13; Cass. n. 5407/13; Cass. n. 6345/12; Cass. S.U. n. 761/02).

Solo a seguito della novella dell'art. 115 co. 10 c.p.c. operata dall'art. 45 legge n. 69/09 questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 12065/14) ha ipotizzato che la nuova formulazione della norma possa consentire, al più, di estendere il principio di non contestazione anche ai fatti secondari, vale a dire a quelli dedotti in funzione probatoria.

Nel caso in esame, dalla sentenza impugnata risulta invece che la costituzione (ancorché tardiva) della S. S.r.l. è avvenuta il 18.10.06, vale a dire sotto l'imperio del previgente testo dell'art. 115 c.p.c., che la giurisprudenza di questa S.C. sopra richiamata ha sempre considerato come espressivo di un principio di non contestazione limitato ai soli fatti primari, mentre i fatti denunciati dal T. a dimostrazione dell'altrui inadempimento erano fatti secondari.

2.2. Il secondo mezzo va disatteso perché, ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, sostanzialmente sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze processuali affinché se ne fornisca un diverso apprezzamento, accertando un inadempimento della società che, invece, i giudici del gravame hanno motivatamente escluso alla luce delle risultanze istruttorie, testimoniali e documentali.

Si tratta di operazione non consentita in sede di legittimità, ancor più ove si consideri il nuovo testo dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. (applicabile, ai sensi del cit. art. 54, co. 3, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla pronuncia in questa sede impugnata): in esso il vizio consiste, come statuito da Cass. S.U. 7.4.14 n. 8053 e dalle successive pronunce conformi, nell'omesso esame d'un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica (e, quindi, non un punto o un profilo giuridico o la maggiore o minore significatività del fatto medesimo o il suo apprezzamento) e non nella diversa ricostruzione dei fatti rilevanti ai fini del decidere o in un difforme apprezzamento di determinati elementi probatori.

Né può dirsi che i giudici d'appello non abbiano esaminato la dedotta violazione dell'art. 2087 c.c.: in realtà la sentenza impugnata ha descritto analiticamente la situazione all'interno dell'azienda, evidenziando che gli episodi narrati dal ricorrente o non avevano trovato riscontro o erano addebitabili ad una situazione breve e transeunte e non addebitabile alla società nel suo complesso perché collegata allo stato psichico del presidente del consiglio di amministrazione, che poco dopo era stato interdetto.

In alte parole, posto che per costante giurisprudenza incombe sul lavoratore danneggiato l'onere di provare la nocività dell'ambiente di lavoro, il danno patito e il nesso causale fra tali due elementi (cfr., per tutte e da ultimo, Cass. n. 2209/16), una volta esclusa a monte la nocività dell'ambiente lavorativo viene per ciò solo automaticamente esclusa ogni pretesa violazione dell'art. 2087 c.c.

2.3. Il terzo mezzo è infondato.

Dalla sentenza impugnata emerge che la S. S.r.l. si costituì tardivamente in giudizio il 18.10.06 (come si è già detto), sicché l'iniziale dichiarazione di contumacia doveva intendersi revocata. In presenza, dunque, di entrambe le parti si è svolta quasi tutta l'istruzione di causa, ad eccezione della CTU medicolegale.

Né incide in alcun modo la successiva dichiarazione di contumacia emessa dal Tribunale il 26.10.10 dopo che il processo, interrotto a seguito della morte del procuratore della società, era stato poi riassunto dall'attore senza che la convenuta rinnovasse il proprio atto di costituzione: in tal caso, infatti, si applica l'insegnamento di Cass. n. 26372/14 secondo cui, in caso di riassunzione del processo interrotto, la parte già costituita che non rinnovi il proprio atto di costituzione, pur dovendo essere dichiarata contumace, conserva il diritto alla liquidazione delle spese fino al momento dell'interruzione.

3.1. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 5.200,00 di cui euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall'art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.