Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 24 marzo 2017, n. 7675

Lavoro subordinato - Congedo di maternità - Successiva aspettativa non retribuita per accudire prole - Nuova gravidanza - Richiesta all’Inps dell’indennità di maternità - Intervallo di tempo superiore a sessanta giorni - Sussiste

 

Fatti di causa

 

S.C. chiese all'INPS il pagamento dell'indennità di maternità per astensione obbligatoria anticipata dal lavoro dal 3 giugno al 2 agosto 2004 e dal 6 agosto al 4 settembre 2004. In precedenza, a seguito di un primo parto avvenuto il 31 gennaio 2003, la ricorrente aveva fruito sia di astensione obbligatoria che facoltativa ed aveva pure ottenuto aspettativa contrattuale senza assegni sino al 3 giugno 2004, per accudire il figlio. Durante tale periodo la C. si era trovata nuovamente in stato di gravidanza ed aveva ottenuto dalla Direzione Provinciale del lavoro di Lucca il collocamento in astensione obbligatoria anticipata per ragioni di salute.

L'Inps rifiutò la prestazione e S.C. si rivolse al Tribunale del lavoro di Lucca che accolse la domanda respingendo la difesa dell'INPS fondata sulla circostanza che tra la data di inizio del lavoro senza retribuzione (3.12.2003) ed il momento di inizio del congedo di maternità anticipata (3.6.2004) risultava intercorso un periodo superiore a quello massimo di sessanta giorni previsto dall'art. 24 del d.lgs. n. 151/2001. La Corte d'appello di Firenze, con la sentenza n. 220/2010, respinse l'appello proposto dall'INPS affermando di dover fare applicazione dei principi espressi dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 106 del 1980. La Corte territoriale affermò la necessità di procedere all'interpretazione costituzionalmente orientata della norma citata ritenendo che per tale via si dovesse affermare il principio che le assenze dal lavoro, comunque connesse a precedente gravidanza, non concorressero al calcolo dei sessanta giorni antecedenti l'inizio del periodo di congedo per maternità.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l'INPS fondato su un unico motivo.

Resiste S.C. con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con l'unico motivo di ricorso, l'INPS censura la sentenza della Corte d'appello di Firenze imputandole, ai sensi dell'art. 360 n.3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 24, secondo e terzo comma del d.lgs. n.151/2001. L'interpretazione adottata dalla Corte di merito, ad avviso dell'Istituto, è errata perché in pieno contrasto con la natura derogatoria dell'art. 24 del d.lgs. n. 151/2001 rispetto al principio che la tutela della maternità prescinde dalla presenza di requisiti minimi di contribuzione ed è assicurata sin dall'inizio del rapporto di lavoro e per tutto il suo svolgimento. In deroga a tale principio, in particolare, il citato art. 24 consente che la tutela operi anche in difetto di prestazione lavorativa retribuita per un periodo massimo non superiore a sessanta giorni. Solo nelle ipotesi di cui al terzo comma del citato articolo 24, che contiene trasfuse in sé quanto stabilito da alcune sentenze della Corte Costituzionale, è consentito non tenere conto di taluni periodi nel computo dei sessanta giorni.

In tali periodi non rientra l'assenza dal lavoro senza retribuzione per giustificati motivi di famiglia, come espressamente enunciato proprio dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 106/1980.

2. Il motivo è fondato. La norma invocata dalle parti è l'art. 24, comma 2 del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 secondo cui: "Le lavoratici che si trovino all'inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione ovvero disoccupate sono ammesse al godimento dell' indennità giornaliera di maternità purché tra l'inizio della sospensione, dell'assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni". E' certo tra le parti che la lavoratrice è stata assente per aspettativa contrattuale senza assegni e, dunque, non retribuita dal 3 dicembre 2003 al 3 giugno 2004. La stessa lavoratrice ha, inoltre, iniziato anticipatamente il periodo di congedo di maternità ben oltre il termine di sessanta giorni dopo l'inizio di tale aspettativa e cioè il 3 giugno 2004. Ciò, impedisce l'insorgere del diritto all'indennità a norma della disposizione citata.

3. Questa Corte ha già avuto modo di precisare che, con riguardo all'indennità prevista per le lavoratrici madri nella norma citata, l'espressione "senza retribuzione" deve intendersi nel senso che la lavoratrice non ha diritto alla retribuzione in dipendenza dell'assenza e non già quale mero fatto da cui deriva l'esclusione del beneficio (Cass. 21 agosto 1986 n. 5133). È pertanto necessario che la situazione di mancanza di diritto alla retribuzione in dipendenza dell'assenza, come è avvenuto nel caso di specie, sia stata accertata in maniera definitiva per effetto di un accordo tra le parti del rapporto di lavoro (Cass. 24906/2010).

4. Le ipotesi in cui, in deroga a tale disposizione, la mancanza di retribuzione non assume rilievo hanno, peraltro, carattere limitato. Esse sono indicate nell'art. 24 terzo comma, secondo il quale, ai fini del computo dei predetti sessanta giorni, non si tiene conto delle assenze dovute a malattia o ad infortunio sul lavoro, accertate e riconosciute dagli enti gestori delle relative assicurazioni sociali, né del periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità, né del periodo di assenza fruito per accudire minori in affidamento, né del periodo di mancata prestazione lavorativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.

5. Già con riferimento all'art. 17 della legge n. 1204 del 1971, oggi contenuto nell'art. 24 del d.lgs. 151/2001, questa Corte ( Cass. 16675/2003) ha precisato che l'indennità di maternità non risulta subordinata al possesso di una determinata anzianità assicurativa o contributiva, ma alla sussistenza, o quanto meno alla contiguità temporale, di un rapporto di lavoro. L'indennità spetta anche alla lavoratrice disoccupata (o anche a quella sospesa o assente dal lavoro senza retribuzione), purché tra la data di inizio della disoccupazione e la data di inizio del periodo di astensione obbligatoria non siano decorsi più di sessanta giorni; l'indennità spetta anche ove vengano superati i suddetti sessanta giorni, purché l'interessata sia in godimento dell'indennità di disoccupazione (art. 17, secondo comma). Ciò in quanto la tutela previdenziale è intesa a sopperire alla mancanza della prestazione lavorativa conseguente alla astensione obbligatoria e presuppone il pregresso svolgimento di un'attività lavorativa, come fatto palese dal citato art. 17 (oggi art. 24 d.lgs. 151/2001), che determina appunto il tempo che deve intercorrere tra la data di inizio della disoccupazione ed il periodo di astensione obbligatoria, mentre l'indennità non spetta alla gestante che non abbia mai svolto attività lavorativa autonoma o subordinata, oppure che l'abbia svolta in epoca anteriore a quella prefissata dall'art. 17. Per costoro è prevista solo una prestazione di tipo assistenziale, ove siano in possesso di redditi inferiori ad una certa misura, ossia l'assegno di maternità ai sensi dell'art. 66 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, modificato dall'art. 50 della legge 17 maggio 1999, n. 144.

6. La stessa sentenza della Corte costituzionale n. 106/1980, che la Corte d'appello di Firenze invoca per supportare la propria interpretazione ha, peraltro, sempre nel vigore dell'art. 17 della legge n. 1034/1971, disegnato i contorni del diritto della lavoratrice ad ottenere la prestazione di maternità, rispetto alla rilevanza della sospensione del rapporto lavorativo per ragioni familiari e lo fatto affermando il rispetto dei parametri costituzionali richiamati dalla sentenza impugnata da parte delle previsioni di legge ora invocate. In particolare, secondo la Corte Costituzionale, la legge n. 1204 del 1971 contiene, all'art. 17, una precisa ed articolata regolamentazione delle diverse ipotesi di interruzione dell'attività di lavoro anteriormente all'inizio del periodo di astensione obbligatoria, e in relazione alle loro cause variamente disciplina il diritto delle lavoratrici gestanti al godimento della indennità giornaliera di maternità con scelte di natura politico-legislativa, non sindacabili, quindi, nemmeno in riferimento ai principi enunciati negli artt. 31 e 37, comma primo, Cost., la cui concreta attuazione è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario. Nelle ipotesi di assenza volontaria dal lavoro, protratta oltre due mesi, la esclusione dal godimento dell'indennità di maternità non può dirsi ingiustificata, né discriminatoria rispetto al regime fatto nei casi di astensione involontaria, per disoccupazione, sospensione o risoluzione non imputabile dei rapporti di lavoro; mentre per esse non ricorrono le ragioni che suffragano una doverosa eccezione per le assenze facoltative dipendenti da una precedente maternità. Così la Corte Costituzionale ha dichiarato l'infondatezza, in riferimento agli artt. 3, 31 e 37, primo comma, della questione di legittimità costituzionale del citato art. 17, secondo comma, nella parte in cui non esclude dal computo dei sessanta giorni immediatamente antecedenti all'inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, ai fini del godimento dell'indennità giornaliera di maternità, i casi di assenza dal lavoro a titolo di aspettativa, congedo, o permesso senza retribuzione, ove siano giustificati da motivi di famiglia o da altra ragione personale.

7. Il ricorso va, quindi, accolto e la sentenza cassata in quanto non ha fatto corretta interpretazione dell'art. 24 secondo e terzo comma del d.lgs. 151/2001. Non essendo necessari accertamenti ulteriori, ai sensi dell'art. 384 secondo comma, seconda parte, c.p.c., alla pronuncia consegue il rigetto della domanda proposta da S.C..

8. Le spese dei gradi di giudizio di merito e del presente giudizio di legittimità vanno compensate attesa la peculiarità della concreta fattispecie e la presenza di articolata giurisprudenza costituzionale in materia.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rigetta la domanda proposta da S.C.; dichiara compensate le spese di tutti gradi di giudizio.