Prassi - FONDAZIONE STUDI CDL - Approfondimento 06 agosto 2020

L'Aspettativa non retribuita quale soluzione della crisi?

 

Sempre più diffusamente viene affrontato il problema della gestione del rapporto di lavoro a fronte delle conseguenze della crisi pandemica, con particolare attenzione alle esigenze attuali, che presentano ancora una significativa riduzione dell'attività lavorativa, cui si accompagna non di rado l'esaurimento della possibilità di ricorso alle misure di sostegno al reddito, come gli ammortizzatori sociali, sia emergenziali che ordinari.

Situazione di certo non agevolata dalle iniezioni di rigidità introdotte dal governo, con il blocco incondizionato dei licenziamenti per ragioni economiche e l'altrettanto rigorosa proroga, automatica, dei contratti a tempo determinato, per periodi uguali a quelli in cui si è verificata la sospensione dell'attività lavorativa, compresa addirittura l'ipotesi della fruizione delle ferie, come da una recente interpretazione dal Ministero del Lavoro attraverso una FAQ pubblicata sul proprio sito istituzionale.

Una delle soluzioni che viene sempre più spesso suggerita, è quella della collocazione dei lavoratori in aspettativa non retribuita, assegnando tale facoltà alla determinazione discrezionale, ed unilaterale, del datore di lavoro. Si tratta di una indicazione che suscita più di una perplessità - come più volte evidenziato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro - e pertanto, anche considerando quanto sempre più spesso tale opzione viene propinata con questa malintesa accezione, appaiono necessarie alcune ulteriori brevi riflessioni.

Il problema della gestione del rapporto di lavoro, perdurando ragioni di riduzione dell'attività lavorativa e in assenza di strumenti alternativi di sostegno al reddito, è tipico di tutti i contratti di durata e riguarda la fase esecutiva di ogni rapporto negoziale che implichi relazioni di natura sinallagmatica. Nel nostro caso la prestazione lavorativa, nello specifico, il perdurare della sua offerta, dalla quale scaturisce l'obbligazione retributiva.

La peculiarità del diritto del lavoro, ed in particolare l'assetto della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, impongono però di attingere a soluzioni diverse da quelle adottate per la genericità dei contratti di diritto.

Nello specifico delle esigenze in gioco, è poco probabile poter fare riferimento al concetto della impossibilità sopravvenuta (elemento invece rilevante quando la sospensione dell'attività lavorativa era conseguenza diretta di un provvedimento amministrativo, o la riduzione poteva essere determinata dalla impossibilità di rendere la prestazione per i divieti di circolazione imposti quale presidio sanitario di controllo della pandemia), considerato che le ragioni della contrazione dell'attività produttiva non possono ascriversi ad un elemento eccezionale, imprevedibile ed individuato, ma piuttosto alle circostanze diffuse che determinano il contesto economico generale.

La speciale natura della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, perciò, richiede il ricorso a soluzioni diverse, specifiche, conseguenti alla circostanza che vi è una obbligazione offerta (la prestazione di lavoro), senza che ve ne sia l'esigenza (riduzione dell'attività produttiva), stallo dal quale comunque permarrebbe, salvo appunto soluzioni diverse, l'obbligazione retributiva, speculare nell'ambito del sinallagma.

Una delle soluzioni che in maniera piuttosto ricorrente viene offerta è dunque quella della "collocazione" in aspettativa non retribuita dei lavoratori subordinati la cui prestazione è in esubero rispetto alle esigenze aziendali, onde ovviare all'obbligo retributivo, altrimenti comunque incombente sulla parte datoriale.

Come premesso, questa soluzione non può essere considerata soddisfacente, perché muove da un presupposto che non può ritenersi corretto, anzi, si manifesta come ontologicamente rivoluzionario rispetto alla collocazione del permesso o dell'aspettativa nell'ambito della gestione del rapporto di lavoro subordinato.

Come noto infatti, la possibilità di astensione dalla prestazione lavorativa, rappresenta un beneficio, riconosciuto dalla legge e dalla contrattazione collettiva ricorrendo specifiche circostanze predeterminate, che i lavoratori possono richiedere esercitando tale diritto nei limiti della individuazione operata dalla legge o dal contratto collettivo applicato. Risulta perciò fuorviante - rectius, erroneo - affermare che l'aspettativa o il permesso possano rappresentare soluzioni alla necessità di sospendere il sinallagma del rapporto di lavoro, per effetto della collocazione da parte del datore di lavoro. Ciò perché, correttamente, si tratta di una iniziativa che la legge  prima, e la contrattazione collettiva per la sua attuazione concreta poi, rilasciano esclusivamente in capo al lavoratore.

Al datore di lavoro può essere riconosciuta, al più, la possibilità di tentare una sorta di moral suasion, nei confronti del proprio dipendente, con la consapevolezza però che senza la sua accondiscendenza (rispetto alla quale però non si evidenziano le ragioni di una sua convenienza), non potrà aversi alcuna collocazione unilaterale.

Pure percorribile in senso lato appare un accordo sindacale, che in un quadro regolatorio più ampio delle dinamiche delle relazioni aziendali, possa contemplare, fra l'altro, una soluzione che contempli il ricorso alla utilizzazione di questo strumento.

Ciò con la consapevolezza, da ribadire con la necessaria univocità, della natura propria di aspettativa, permessi et similia, che appartengono al patrimonio di disponibilità del lavoratore subordinato e che possono essere da questi esercitati, senza la possibilità di individuare una pari prerogativa in capo al datore di lavoro o, comunque, una coercibilità da parte sua, nemmeno quando in senso lato giustificata dalle esigenze di riduzione e/o sospensione di fatto dell'attività produttiva, senza la possibilità di ricorrere agli ammortizzatori sociali.