Demansionamento: prova del legittimo esercizio dei poteri del datore

Quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali (Cassazione, ordinanza 13 gennaio 2021, n. 434).

Nella specie, un lavoratore convenne in giudizio la società datrice di lavoro per ottenere l'accertamento dell'avvenuta violazione dell'art. 2103 cod.civ. e del demansionamento subito configurante, per le modalità con le quali era stato attuato, un comportamento mobbizzante in suo danno finalizzato ad indurlo a risolvere il rapporto di lavoro. Dedusse inoltre di essere stato costretto a godere di ferie e permessi e quindi di essere stato collocato in cassa integrazione guadagni. Pertanto, il ricorrente chiese che, accertato quanto sopra, la medesima società fosse condannata a reintegrarlo nelle mansioni di controller ed a risarcire il danno patrimoniale e non patrimoniale sofferto.
In primo grado, il Tribunale ritenne accertato l'impoverimento della capacità professionale e che questi ne avesse riportato un danno alla sua immagine professionale che ritenne dimostrato in via presuntiva. Accertò che il comportamento datoriale doveva essere considerato mobbizzante e, infine, che il collocamento in cassa integrazione era illegittimo. La Corte di appello territoriale, confermata nel resto la sentenza del Tribunale, ha condannato la società a pagare al dipendente in quesione, a titolo risarcitorio ed in relazione al demansionamento sofferto la somma di € 187.862,50 oltre che la somma di € 36.280,00 a titolo di danno non patrimoniale, con rivalutazione monetaria ed interessi legali. Il giudice di secondo grado, in particolare, ha ritenuto che il datore di lavoro avesse esercitato in maniera non corretta lo ius variandi , assegnando il lavoratore a mansioni dequalificanti rispetto a quelle rivestite nel 2003-2004 ed a quelle riportate nella lettera di assunzione, e perciò fosse incorso nella denunciata violazione dell'art. 2103 cod. civ.
Ha verificato poi che le mansioni affidate al lavoratore non erano affatto equivalenti a quelle concordate all'atto dell'assunzione. Tali non erano neppure quelle di redazione della reportistica gestionale, della quale venne incaricato nell'aprile 2003, trattandosi solo di una delle attività istituzionalmente assegnate sulla base del contratto collettivo al responsabile del controllo di gestione; poi, la Corte di merito ha rilevato, ancora una volta, una non congruenza con le competenze proprie del lavoratore e l'assenza di strumenti di formazione evidenziando che, peraltro, non era stato posto in condizione di svolgere a pieno il suo ruolo che era rimasto contenuto ad alcuni limitati compiti.
La Corte territoriale nel ricostruire le mansioni svolte dal ricorrente nel corso del rapporto ha verificato, con accertamento di fatto aderente alle risultanze dell'istruttoria, che nel corso delle numerose modifiche delle mansioni assegnate al lavoratore, questi, assunto come quadro di settimo livello e con mansioni di responsabile di controllo di gestione, non aveva mai potuto mettere in pratica la sua specifica competenza e si era dovuto confrontare con compiti disparati estranei alla sua professionalità e rispetto ai quali non gli era stata mai offerta una specifica formazione.
In sostanza la Corte di appello, proprio tenendo conto della possibilità che il lavoratore si sia potuto giovare della pluralità di compiti assegnati conseguendone un arricchimento della sua professionalità, ha invece accertato che alle continue modifiche era conseguita invece una dispersione della sua professionalità specifica mai realmente messa a frutto. Un depauperamento delle sue competenze espressione del sostanziale demansionamento attuato in suo danno.
Quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali.
La Corte territoriale riconosce al ricorrente un danno alla professionalità che rientra nell'ambito della domanda formulata in giudizio e lo liquida, come ben può, utilizzando una valutazione equitativa. In tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se, come nella specie, adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno - avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore - e determinarne l'entità, anche in via equitativa, con processo logicogiuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.