Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 14 agosto 2017, n. 20103

Rapporto di apprendistato - Trasformazione - Rapporto di lavoro a tempo indeterminato - Formazione - Durata - Recesso

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Palermo in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città ha dichiarato che il rapporto di apprendistato intercorso tra S.M. e la E. s.r.l. (già E. s.r.l.), in liquidazione e concordato preventivo, si era trasformato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato con inquadramento del lavoratore nella terza categoria del c.c.n.I. industria metalmeccanica privata. Inoltre ha accertato l'illegittimità del recesso intimato al lavoratore con nota del 8.7.2006 comunicata il successivo 10.7.2006 e lo ha annullato condannando la società appellata al risarcimento del danno liquidato in misura pari alle retribuzioni maturate e non erogate dal 10.7.2006 all'8.11.2013 con rivalutazione ed interessi legali oltre che al versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi spettanti per il periodo in considerazione. Ha poi respinto le altre domande avanzate dal Madonia.

2. La Corte territoriale, per quanto qui ancora interessa, nel premettere che a norma dell'art. 2 comma 2 del c.c.n.I. 7.5.2003 dell'Industria metalmeccanica ed installazione impianti è previsto che per il conseguimento del primo livello di professionalità da parte di apprendisti in possesso del diploma di qualifica o di un attestato professionale, inerente la professionalità da acquisire, la durata di 30 mesi è ridotta a 24 mesi mentre per il secondo livello la durata è ridotta da 4 anni a 36 mesi, ha poi accertato che il M. era in possesso del diploma di qualifica professionale di operatore elettrico e del diploma di Istruzione professionale di tecnico delle industrie elettriche e che, quindi, la clausola contrattuale che prevedeva la durata di 36 mesi del contratto di apprendistato era invalida. Per l'effetto, nel verificare che il rapporto si era protratto per più di 24 mesi, ha concluso che lo stesso si era consolidato in un rapporto a tempo indeterminato. Quanto al recesso, comunicato al ricorrente il 10.7.2006 a causa della cessazione del periodo di apprendistato e di una contrazione dell'attività, la Corte lo ha qualificato come licenziamento e lo ha ritenuto illegittimo a causa della genericità della formula utilizzata dalla quale non era possibile stabilire le cause della denunciata contrazione, l'ambito di riferimento (alcuni settori o l'intera società), l'esistenza di possibilità di ricollocare altrimenti il lavoratore. La definitiva cessazione dell'attività aziendale in data 8.11.2013 ne ha poi precluso la reintegrazione e, dunque, la società è stata condannata al solo risarcimento del danno nei termini di cui all'art. 18 della legge n. 300 del 1970, con esclusione dell' aliunde perceptum, stante la mancata allegazione di fatti da cui dedurre il conseguimento di un'altra occupazione.

3. Per la cassazione della sentenza ricorre la società E. s.r.l. in liquidazione e concordato preventivo che articola due motivi cui resiste con controricorso S.M..

 

Ragioni della decisione

 

4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile e degli artt. 1339, 1419 e 2118 cod. civ.; dell'art. 7 della legge 19 gennaio 1955 n. 25; dell'art. 16 comma 6 della legge 24 giugno 1997 n. 196; dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 nel testo vigente ratione temporis; dell'art. 1 e 10 del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368 e ss.mm.; dell'art. 32 commi 5 e 7 della legge 4 novembre 2010 n. 183; dell'art. 1 comma 13 della legge 28 giugno 2012 n. 92; dell'art. 111 della Costituzione e degli artt. 112, 132 n. 4, 346 e 436 cod. proc. civ.. Inoltre ai sensi dell'art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ. è denunciata la nullità della sentenza per la violazione degli artt. 112, 132 n. 4, 346 e 436 cod. proc. civ..

4.1. Sostiene la ricorrente che la sentenza applica una disciplina - l'art. 7 della legge 19 gennaio 1955 e ss.mm. - abrogata dall'art. 16 comma 6 della legge n. 24 giugno 1997 n. 196 a sua volta abrogato dall'art. 7 comma 6 del d.lgs. 14 settembre 2011 n. 167. Sottolinea poi di aver dedotto che, ove fosse stata ravvisata la conversione dell'apprendistato in rapporto a tempo indeterminato avrebbe dovuto essere applicato, in analogia con quanto previsto per i contratti a termine disciplinati dalla legge n. 368 del 2001, l'art. 32 commi 5 e 7 della legge 4 novembre 2010 n. 183 trattandosi di ricostituzione del rapporto di lavoro avente in origine un termine illegittimo. Evidenzia che la Corte territoriale ha immotivatamente disatteso la domanda incorrendo nelle violazioni denunciate.

5. La censura è destituita di fondamento.

5.1. Occorre premettere che l'odierno controricorrente è stato assunto con contratto di apprendistato, stipulato in data 12 gennaio 2004 e della durata convenuta di trenta mesi. Ciò posto va precisato che il rapporto tra le parti è disciplinato dall'art. 16 della legge n. 24 giugno 1997 n. 196. Ed infatti, in disparte l'improprio riferimento contenuto nella sentenza all' art. 7 della legge n. 25 del 1955, effettivamente abrogato dalla legge n. 196 del 1997, va tuttavia rilevato che il contenuto di quella disposizione è stato sostanzialmente riprodotto dalla sopravvenuta legge n. 196 del 1997. Il ricordato art. 16 del d.lgs. n. 196 del 1997, pur prevedendo diversamente dal citato art. 7 una durata minima del contratto di diciotto mesi oltre che una massima di quattro anni, rinvia anch'esso alla contrattazione collettiva per la fissazione della durata dei rapporti di apprendistato. Quanto alla disciplina organica dell'apprendistato, introdotta dal d.lgs. 14 settembre 2011 n. 167, questa non si applica evidentemente al contratto oggi in esame. Resta dunque irrilevante nel presente procedimento l'abrogazione, disposta a decorrere dal 25 ottobre 2011 dall'art. 7 comma 6 del citato decreto legislativo, delle disposizioni del d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276. Per completezza di ricostruzione è utile precisare che lo stesso d.lgs. n. 276 del 2003, all'art. 47 comma 3, ha previsto che in attesa della regolamentazione del contratto di apprendistato restasse in vigore la disciplina dell'apprendistato dettata dalla legge n. 25 del 1955 come modificata dalla legge n. 196 del 1997. Ancora, va sottolineato che l'art. 19 della legge n. 25 del 1955, abrogato con l'intera legge solo con l'art. 7 comma 6 del citato d.lgs. n. 167 del 2011, e dunque applicabile al caso in esame, prevede che "qualora al termine del periodo di apprendistato non sia data disdetta a norma dell’art. 2118 del codice civile l'apprendista è mantenuto in servizio con la qualifica conseguita mediante le prove di idoneità ed il periodo di apprendistato è considerato utile ai fini dell'anzianità di servizio del lavoratore."

5.2. Ciò posto va rilevato che l'art. 16 del d. Igs. n. 196 del 1997, al primo comma, con specifico riferimento alla durata dell'apprendistato prevede che, nell'arco di una durata minima di diciotto mesi e massima di quattro anni, "(...) l'apprendistato non può avere una durata superiore a quella stabilita per categorie professionali dai contratti collettivi nazionali di lavoro" e dunque la disciplina generale continua a rinviare alla contrattazione collettiva di categoria per l'individuazione specifica dei termini di durata dell'apprendistato. Correttamente, allora, la Corte territoriale ha fatto riferimento all'art. 2 del c.c.n.I. 7 maggio 2003 per l'Industria metalmeccanica e di Installazione di impianti, ratione temporis applicabile, che per il caso di conseguimento di diploma o attestato inerente la qualifica da acquisire la durata dell'apprendistato, per il conseguimento del primo livello di professionalità, è di ventiquattro mesi e che la mancata disdetta entro tale termine aveva comportato che il rapporto si era "consolidato" a tempo indeterminato. L'art. 19 della legge n. 25 del 1955, che come si è ricordato trova ancora applicazione al caso in esame, prevede infatti che "qualora al termine del periodo di apprendistato non sia data disdetta a norma dell'art. 2118 del codice civile l'apprendista è mantenuto in servizio con la qualifica conseguita mediante le prove di idoneità ed il periodo di apprendistato è considerato utile ai fini dell'anzianità di servizio del lavoratore". Al riguardo questa Corte ha evidenziato che la disdetta del datore di lavoro per recedere al termine del rapporto deve intervenire nel termine e nei modi stabiliti dalle norme collettive, dagli usi o secondo equità, sicché, ad esempio, non è tempestiva se esercitata il giorno prima della conclusione del rapporto di apprendistato, in violazione del termine di preavviso contrattuale, e che, in forza dell'art. 19 della I. n. 25 cit., ne deriva la continuazione del rapporto lavorativo come ordinario rapporto di lavoro subordinato assoggettato alla regola generale in materia di durata, del tempo indeterminato (cfr. Cass. 19/09/2016 n. 18309). Il richiamo contenuto nell'art. 19 citato all'art. 2118 cod.civ. convince allora nel ritenere che il contratto di apprendistato debba essere ricondotto sin dall'origine nello schema negoziale del contratto a tempo indeterminato dal quale è possibile recedere, oltre che per giusta causa o giustificato motivo, nel termine e nei modi stabiliti dalle norme collettive, dagli usi o secondo equità.

5.4. Da tale ricostruzione consegue che, anche nel vigore della disciplina previgente al decreto legislativo n. 167 del 2011 (che esplicitamente afferma all'art. 1 comma 1 che l’apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato), non sussistono i presupposti per l'applicazione della disciplina dettata dall'art. 32 commi 5 e 7 della legge 4 novembre 2010 n. 183. La richiesta, formulata in via gradata, risulta implicitamente disattesa dal giudice di appello perché, all'evidenza, incompatibile con la qualificazione del rapporto, sin dall'origine, a tempo indeterminato di tal che la sentenza non è incorsa nel denunciato vizio di omessa pronuncia. D'altro canto il contratto a termine si caratterizza per il fatto che non occorre alcuna esplicitazione della volontà di recedere da parte del datore di lavoro poiché il mero decorso del termine ne comporta la risoluzione. Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, infatti, il termine costituisce un elemento essenziale che inerisce alla struttura stessa del contratto come un dato obiettivo predeterminato che esplica i suoi effetti vincolanti nei riguardi di entrambe le parti contraenti tenute ad osservarlo. La fissazione di un termine finale, pertanto, assolve preventivamente, nel rapporto a tempo determinato, alla funzione di manifestare la volontà del datore di lavoro di recedere dal rapporto che si risolve naturalmente con il suo decorso. Nel contratto di apprendistato, invece, perché il rapporto cessi è necessario che il datore di lavoro manifesti la sua volontà di recedere esercitando la facoltà accordatagli dalla legge, come si è già ricordato, nei modi e nei termini stabiliti dalle norme collettive, dagli usi o secondo equità.

6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1362, 1363, 1366, 2112 e 2697 cod. civ.; dell'art. 111 della Costituzione e degli artt. 112, 115, 116, 132 n. 4, 345, 346, 434, 436 e 437 cod. proc. civ.; ai sensi dell'art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ., poi, è denunciata la violazione degli artt. 112, 132 n. 4, 346 e 436 cod. proc. civ.; dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 nel testo vigente ratione temporis; inoltre ci si duole dell'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. e della nullità della sentenza per la violazione degli artt. 112, 132 n. 4, 345, 346, 434, 436 e 437 cod. proc. civ..

6.1. Sostiene la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale, ravvisata l'esistenza di un rapporto a tempo indeterminato, ha poi ritenuto che con la lettera dell'8 luglio 2006 fosse stato irrogato un licenziamento illegittimo e lo ha annullato applicando l'art. 18 della legge n. 300 del 1970. Ad avviso della ricorrente il licenziamento doveva, semmai, essere ricondotto nell'ambito del giustificato motivo oggettivo ed era giustificato dalla contrazione del lavoro per effetto della perdita dell'appalto O.V. s.p.a. e dalla necessità di procedere ad un ridimensionamento del personale nella filiale di Palermo. Sostiene la società che tutte queste circostanze erano risultate confermate nel corso dell'istruttoria e che la Corte di appello le avrebbe trascurate limitandosi a dichiarare generica la formula utilizzata nella lettera di recesso.

Sottolinea che il giustificato motivo oggettivo va verificato in concreto nel corso del giudizio con onere, nella specie assolto, a carico del datore di lavoro e con parallelo onere del lavoratore, che invece era rimasto inadempiente, di allegare l'ambito di una sua possibile ricollocazione. Erroneamente, invece, la Corte territoriale avrebbe fatto riferimento ad elementi estranei al dibattito processuale, quali l'organizzazione produttiva complessiva e l'eventuale proposta al Madonia di trasferimento ad altra sede di lavoro, tutte circostanze mai allegate in giudizio.

7. Anche queste censure sono, per quanto ammissibili, infondate.

7.1. Deve essere qui ribadito che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. Viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.

7.2. Ritiene la Corte che nella specie, pur prospettata essenzialmente una violazione di legge, in realtà la censura per come "formulata impinge nel merito della controversia e pretende, mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa, dal giudice di legittimità una inammissibile rinnovata valutazione dei fatti di causa rispetto a quella elaborata dai giudici del gravame. Ed infatti l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. 16/07/2010 n. 16698, Cass. 18/11/2011 n. 24253, Cass. 16/09/2013 n. 21099, Cass. 11/01/2016 n. 195 e Cass. 05/01/2017 n. 160) non consentita. Orbene la Corte territoriale nel procedere alla qualificazione della comunicazione, intervenuta quando oramai la datrice di lavoro non aveva più la facoltà di disdettare il contratto, come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non solo ne ha dato una interpretazione compatibile con il contenuto dell'atto ma ha poi in concreto esattamente verificato, sulla base delle emergenze istruttorie, che non erano stati offerti dalla datrice di lavoro che ne era onerata elementi di valutazione che potessero dimostrare l'impossibilità di collocare altrimenti il lavoratore nel pur ampio e articolato complesso aziendale.

7.3. Va qui rimarcato come la giurisprudenza di questa Corte sia costante nel ritenere, poi, che "la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ. e, quanto a quest'ultimo, che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito da tale ultima disposizione, non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità", con la conseguenza che "risulta del tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa" (v., fra le altre, Cass. 01/09/2011 n. 17977, Cass. 16/11/2011 n. 27197). Già prima della riformulazione dell'art. 360 primo comma n. 5 cod.proc.civ., di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con mod. in L. 7 agosto 2012, n. 134, non era invocabile in sede di legittimità, un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte. L'intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (applicabile, ratione temporis, alla fattispecie in esame), come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha comportato, poi, una ulteriore sensibile restrizione dell'ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto. Il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità è stato ridotto al minimo costituzionale (Cass. Sez. Un., 07/04/2014, n. 8053) e l'anomalia motivazionale denunciabile attiene all'esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. Ne consegue che l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. (Cass. Sez. Un. 22/09/2014, n. 19881).

7.4. Poiché la corte territoriale ha accertato che, pur tralasciando il fatto che dalla comunicazione del recesso non era dato comprendere se la contrazione dell'attività lavorativa fosse riferita al solo settore in cui prestava servizio il lavoratore ovvero se avesse investito l'intera organizzazione produttiva, in ogni caso che non era stata offerta la prova della impossibilità di ricollocabile il lavoratore in altre posizioni. Così facendo ha correttamente applicato le disposizioni in tema di acquisizione e valutazione delle prove e distribuzione dei relativi oneri e non risulta che siano stati trascurati fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti. Ne consegue che le censure, pur formulate con riguardo a diversi profili alla violazione e falsa applicazione delle disposizioni che regolano l'interpretazione degli atti unilaterali, agli oneri probatori, all'applicazione della disciplina sui licenziamenti oltre che, per alcuni profili, a violazioni di carattere processuale, si sostanziano in realtà nella richiesta di una diversa e più favorevole valutazione del materiale probatorio non consentita al giudice di legittimità. La sentenza non è incorsa neppure nella denunciata violazione della corrispondenza chiesto pronunciato posto che, denunciata l'insussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ed allegata l'ampiezza delle attività aziendali era onere della società dimostrare che non vi erano altre posizioni in cui impiegare il lavoratore (cfr. sugli oneri probatori in tema di repechage Cass. 13/06/2016 n. 12101, 22/03/2016 n. 5592).

8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 4000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre al 15% per spese forfetarie ed accessori dovuti per legge. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell'art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..