Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 25 novembre 2020, n. 26790

Tributi - Accertamento - Reddito di impresa - Indeducibilità di costi riferiti ad operazioni oggettivamente inesistenti - Onere di prova contraria del contribuente

 

Rilevato che

 

1. L'Agenzia delle Entrate notificò ad E.N., titolare della ditta individuale denominata M., un avviso di accertamento, relativo all'anno d'imposta 2004, in materia di IRPEF ed IRAP, contestandogli, all'esito del processo verbale di constatazione seguito alla verifica effettuata dalla Guardia di Finanza nei confronti del contribuente, l'indeducibilità di costi relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti, aventi ad oggetto prestazioni che la terza A. s.a.s. avrebbe eseguito a favore della predetta M.

2. Avverso l'accertamento il contribuente propose ricorso, che l'adita Commissione tributaria provinciale di Cuneo accolse in parte, limitatamente ai costi indeducibili per operazioni inesistenti.

3. Proposto appello dal contribuente, la Commissione tributaria regionale del Piemonte, con la sentenza n. 16/26/12, depositata il 23 febbraio 2012, ha rigettato l'impugnazione.

4. Il contribuente propone ora ricorso per la cassazione della sentenza d'appello, affidato a cinque motivi.

5. L'Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

6.Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la ricorrente deduce che il giudice a quo avrebbe errato nell'attribuzione dell'onere probatorio.

Il motivo è infondato.

Infatti, la sentenza impugnata ha fatto buon governo del principio dell'onere della prova in materia di fatture relative ad operazioni inesistenti, laddove, in coerenza con un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ha affermato che è rimesso all'Amministrazione fornire un riscontro istruttorio - eventualmente anche tramite uno o più elementi indiziari gravi, precisi e concordanti - che sorreggano la conclusione che alcuni costi, e le relative fatture, siano in realtà meramente fittizi e non possano quindi legittimamente ridurre il reddito imponibile del contribuente che pretenda di dedurli.

All'esito di tale riscontro istruttorio fornito dall'Ufficio è quindi onere del contribuente, in conformità a quanto ritenuto da questa Corte (Cass., 19/10/2018, n. 26453; Cass., 05/07/2018, n. 17619; Cass. 06/06/2012, n. 9108, ex plurimis) provare che le operazioni in questione, ed i correlati costi, fossero invece effettivi. Tale ultima prova non può, peraltro, consistere nella mera esibizione della fattura, in quanto espressione cartolare di operazioni commerciali mai realizzate, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un'operazione fittizia (Cass. 19/12/2019, n. 33915; Cass 05/07/2018, n. 17619).

2. Con il secondo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., la ricorrente lamenta che il giudice a quo avrebbe errato in procedendo nel respingere la sua eccezione di pretesa violazione, da parte dell'Ufficio, del divieto di introdurre ius novorum in appello.

Il motivo è inammissibile per violazione dell'art. 366, primo comma, numm. 3, 4 e 6, cod. proc. civ., poiché il ricorrente omette di indicare specificamente, nel corpo del mezzo, quali siano i pretesi «nuovi elementi indiziari» introdotti dalla controparte; quali siano la fase processuale e l'atto che ne sarebbero stati veicolo nei giudizi di merito; e quale sia l'eventuale collocazione di tale atto nei fascicoli dei relativi procedimenti di merito (Cass., 15/01/2019, n. 777; Cass., 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726).

3. Con il terzo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., il ricorrente lamenta la «carente o quanto meno insufficiente motivazione in relazione alla valutazione degli indizi».

Il motivo è inammissibile, atteso che il ricorrente, nel corpo dello stesso, non individua specificamente (come necessario anche ai sensi dell'art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., antecedente la novella di cui al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, ed applicabile ratione temporis) il «fatto controverso» rispetto al quale la motivazione della sentenza impugnata sarebbe carente, né quindi evidenzia come esso possa essere «decisivo per il giudizio».

Invero, il motivo si risolve piuttosto in una, inammissibile, pretesa di censurare genericamente la condivisione, da parte del giudice a quo, della valutazione critica, da parte dell'Ufficio, delle fatture di cui alle operazioni controverse, argomentata nella motivazione con riferimento alle risultanze del processo verbale di constatazione, ed in particolare al dato oggettivo della mancata prova di movimentazioni di denaro corrispondenti ai pretesi costi deducibili.

4. Con il quarto motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., la ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per l'asserita omessa pronuncia del giudice d'appello in ordine all'eccezione del contribuente, secondo il quale «il recupero dei costi ritenuti inesistenti, fermi restando i ricavi, anch'essi ritenuti inesistenti», violerebbe il «criterio costituzionale di capacità contributiva».

Il motivo è inammissibile, innanzitutto per violazione dell'art. 366, primo comma, numm. 3, 4 e 6, cod. proc. civ., poiché il ricorrente omette di indicare specificamente, nel corpo del mezzo, quali siano i pretesi « ricavi, anch'essi ritenuti inesistenti»; quali siano la fase processuale e l'atto con i quali essi sarebbero stati introdotti nel contraddittorio nei giudizi di merito; e quale sia l’eventuale collocazione di tale atto nei fascicoli dei relativi procedimenti di merito (Cass., 15/01/2019, n. 777; Cass., 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726).

Inoltre, il motivo è inammissibile anche perché la questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l'applicazione della norma medesima, non può costituire oggetto di un'autonoma istanza rispetto alla quale, in difetto di esame, sia configurabile un vizio di omessa pronuncia, ovvero (nel caso di censure concernenti le argomentazioni svolte dal giudice di merito) un vizio di motivazione, denunciabile con il ricorso per cassazione, giacché la relativa questione è deducibile e rilevabile nei successivi stati e gradi del giudizio, ove rilevante ai fini della decisione (Cass. 10/04/2018, n. 8777; Cass. 19/01/2018, n. 1311). Né, peraltro, potrebbe ritenersi che, con la generica formulazione del motivo in esame, il ricorrente abbia riproposto in questa sede la questione di legittimità costituzionale.

5. Con il quinto motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., il ricorrente chiede che la sentenza impugnata sia cassata, con rinvio al giudice a quo, per consentire l'applicazione dello ius superveniens di cui all'art. 8, comma 2, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, in considerazione del quale assume che non dovrebbero essere «considerati ricavi quelle operazioni oggettivamente inesistenti strettamente correlate ai costi inesistenti indeducibili».

Il motivo è inammissibile, per violazione dell'art. 366, primo comma, numm. 3, 4 e 6, cod. proc. civ., poiché il ricorrente omette di indicare specificamente, nel corpo del mezzo, quali siano le «operazioni», ed i relativi «ricavi», che sarebbero «strettamente correlate ai costi inesistenti indeducibili»; quali siano la fase processuale e l'atto con i quali essi sarebbero stati introdotti nel contraddittorio nei giudizi di merito; e quale sia I' eventuale collocazione di tale atto nei fascicoli dei relativi procedimenti di merito (Cass., 15/01/2019, n. 777; Cass., 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726). Ed al fine di meglio evidenziare le ricadute di tali carenze di allegazione nel caso sub iudice, è utile ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di operazioni oggettivamente inesistenti, spetta al contribuente provare la diretta afferenza tra ricavi e costi attinenti a beni non effettivamente scambiati, atteso che non vi è simmetria, né automatismo biunivoco, tra costi per acquisti inesistenti e ricavi dichiarati (Cass. 17/07/2018, n. 19000).

In particolare poi, anche con specifico riferimento all'art. 8, comma 2, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, invocato dalla parte ricorrente, questa Corte, con orientamento al quale si intende dare continuità, ha recentemente chiarito che « In tema di imposte sui redditi, e con riguardo ad operazioni oggettivamente inesistenti, grava sul contribuente l’onere di provare la natura fittizia dei componenti positivi del reddito che - ai sensi dell'art. 8, comma 2, del d.l. n. 16 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 44 del 2012 - siano direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati e non devono pertanto concorrere alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell'ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. (Nella specie, è stato escluso che la società avesse fornito la prova della fittizietà dei componenti positivi di reddito derivanti da operazioni accertate come mai compiute, avendo anzi sempre dedotto di avere dimostrato l'effettiva realizzazione delle attività sottese alle fatture accertate come fittizie).» (Cass. 19/12/2019, n. 33915).

E' stato infatti ribadito (Cass. 19/12/2019, n. 33915, cit., in motivazione, al punto 12.2) che « secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 8 del d.l. n. 16 del 2012, convertito dalla legge n. 44 del 2012, sia in materia di accertamento dell'I.V.A., che delle imposte dei redditi, qualora l'Amministrazione, ritenendo fittizia - oggettivamente o soggettivamente - un'operazione di acquisto, ne avesse recuperato a tassazione i relativi costi, non avrebbe dovuto correlativamente ridurre i ricavi, non sussistendo alcun automatismo tra la ritenuta fittizietà dell'operazione e tale riduzione; l'Amministrazione non aveva pertanto l'obbligo di escludere, in proporzione, i ricavi esposti dallo stesso contribuente, né era tenuta ad accertare la dichiarazione nella sua interezza, potendo limitarsi ad analizzare l'esistenza dei costi dichiarati (Cass. n. 17729 del 30/7/2009; Cass. n. 3267 del 2/3/2012). L'art. 8, comma 2, del d.l. n. 16 del 2012, come convertito nella legge n. 44 del 2012, costituente ius superveniens, applicabile alla presente controversia in forza del successivo comma 3, ha stabilito, con riguardo alle operazioni oggettivamente inesistenti, che i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell'ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese (Cass. n. 27040 del 19/12/2014; Cass. n. 25967 del 20/11/2013; Cass. n. 7896 del 20/4/2016).

In siffatte ipotesi grava pertanto sul contribuente l'onere di provare che i componenti positivi, che si duole abbiano nel l'accerta mento concorso alla formazione del reddito, siano anch'essi fittizi, perché ricavi «correlati», ossia direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati (Cass. 25967/13 cit.).».

Nel caso in esame, la ricorrente ha contestato, nel merito, la stessa natura fittizia delle operazioni in questione, e pertanto non può ritenersi che abbia offerto prova della inesistenza dei relativi ricavi conseguiti, cosicché - fermo restando quanto già rilevato sul punto- deve escludersi la violazione sia della norma costituzionale richiamata (art. 53 Cost.), che garantisce la corretta corrispondenza dell'imposta all'imponibile effettivo; sia dello ius superveniens invocato.

Inoltre le gravi carenze di specificità del motivo, già rilevanti in termini di inammissibilità dello stesso, escludono che da esso possa ricavarsi l'allegazione puntuale di ricavi inesistenti, della loro correlazione con i costi ritenuti fittizi e di elementi istruttori al riguardo.

6. Le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare all’Agenzia le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13 , se dovuto.