Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 gennaio 2023, n. 1600

Lavoro - Risoluzione del rapporto - Amministrazione giudiziaria dell'impresa datoriale soggetta a misura preventiva - Subentro degli amministratori nel rapporto di lavoro - Autorizzazione al licenziamento dei parenti dell'indagato - Art. 35 del D.Lgs. n. 159/2011 - Rigetto

 

Rilevato che

 

con la sentenza impugnata è stata confermata la pronunzia del Tribunale di Roma con la quale era stata rigettata la domanda proposta da C.L.M.F. volta alla declaratoria dell'illegittimità dell'atto di risoluzione del rapporto emesso dagli amministratori giudiziali della "C. s.r.l.", sottoposta a sequestro preventivo, ex art. 56 del d.lgs. n. 159 del 2011;

per la cassazione della decisione ha proposto ricorso C.L.M.F., affidato a cinque motivi;

la "C. s.r.l." ha resistito con controricorso; il P.G. non ha formulato richieste.

 

Considerato che

 

con i primi due motivi, sviluppati congiuntamente, la ricorrente - denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 40, comma 4, e 56 del d.lgs. n. 159 del 2011, 1321, 1325 e 1326 c.c., 3 della l. n. 604 del 1966, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., nonché nullità della sentenza, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. - si duole che il giudice del gravame - benché la lettera con la quale si comunicava il mancato subentro nel rapporto di lavoro ad opera degli amministratori fosse stata inviata alla lavoratrice dopo quasi tre mesi dal disposto sequestro - non abbia riconosciuto che, in realtà, il subentro in questione vi era effettivamente stato, sia pur per fatti concludenti, con conseguente applicabilità, all'atto di risoluzione del rapporto, della normativa sui licenziamenti in punto di giusta causa o giustificato motivo, non costituendo requisito di validità del negozio unilaterale l'autorizzazione giudiziale ai sensi del citato art. 56 del d.lgs. n. 159 (ove, nella versione originaria applicabile "ratione temporis", era previsto che "Se al momento dell'esecuzione del sequestro un contratto relativo al bene o all'azienda sequestrata è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti, l'esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando l'amministratore giudiziario, previa autorizzazione del giudice delegato, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del proposto, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di risolvere il contratto, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto"), il cui difetto pertanto non comporta nullità, non esplicitamente prevista;

con il terzo motivo - denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 40, 41 e 56 del d.lgs. n. 159 del 2011, 12 delle disposizioni sulla legge in generale e 3 della l. n. 604 del 1966, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. - lamenta che il predetto giudice abbia ritenuto - in violazione dei canoni ermeneutici di legge e del dovere di procedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata - che il citato art. 56 preveda un recesso senza giustificato motivo, omettendo, tra l'altro, di considerare che il richiamato art. 41, nel prevedere, al comma quarto, che "I rapporti giuridici connessi all'amministrazione dell'azienda sono regolati dalle norme del codice civile, ove non espressamente altrimenti disposto", deve ritenersi esteso alla disciplina generale che regola i rapporti di lavoro, non rilevando, peraltro, una esigenza di ordine pubblico, in quanto non specificata nell'impianto normativo e comunque "recessiva rispetto alla evidente necessità di tutela del diritto al lavoro della lavoratrice (e di tutti i lavoratori) in alcun modo interessati dal processo penale";

con il quarto motivo - denunciando falsa applicazione dell'art. 35 del d.lgs. n. 159 del 2011, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. - si duole che la Corte territoriale abbia affermato che la risoluzione del rapporto fosse da ritenersi basata sull'art. 56 del predetto d.lgs., ma, poi, abbia espresso una motivazione comunque vertente sull'applicazione del citato art. 35, non correttamente interpretato, in quanto non contenente l'autorizzazione al licenziamento dei parenti dell'indagato;

con il quinto motivo - denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 1, 4, 24, 27, 35, 41, 76 e 117 Cost., nonché l'illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 56 del d.lgs. n. 159 del 2011, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. - auspica, in caso di mancata adozione di una interpretazione costituzionalmente orientata - la remissione al Giudice delle leggi della questione di legittimità costituzionale dell'art. 56 o dell'art. 35, o di entrambi, per violazione dei parametri indicati, in particolare dell'art. 3 Cost., sul rilievo che i lavoratori delle società sottoposte a sequestro vengono discriminati rispetto alla generalità dei lavoratori delle imprese pubbliche e private; dell'art. 27 Cost., in quanto lavoratori medesimi soffrirebbero la risoluzione del rapporto di lavoro per la mera decisione del giudice delegato e dell'amministratore giudiziario, ricevendo una conseguenza negativa in ragione di un reato commesso da altri; degli artt. 4 e 35 Cost., avuto riguardo all'assoluta arbitrarietà dell'amministratore giudiziario, seppure autorizzato dal giudice delegato, nella decisione in ordine al recesso dei rapporti di lavoro in essere all'interno delle società sequestrate; degli artt. 117 e 76 Cost., sul rilievo che la norma denunciata si contrappone a fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la Carta Sociale, poiché autorizza una forma di recesso "ad nutum" non legittimata dalla presenza di una espressa autorizzazione da parte del giudice delegato, la cui valutazione, non essendo sottoposta a criteri previsti dalla legge, finisce per divenire arbitraria, fermo restando che la tutela dell'ordine pubblico non può prevalere su quella al lavoro e alla dignità della persona.

 

Ritenuto che

 

i primi due motivi sono da rigettare, poiché la statuizione resa sul punto dal giudice del gravame (i.e.: «La tesi della giuridica prosecuzione del contratto dopo il marzo 2017 e fino alla mancata autorizzazione al subentro non è sostenibile, poiché la legge prevede, in caso di amministrazione giudiziaria dell'impresa datoriale soggetta a misura preventiva, che il nuovo datore di lavoro non si sostituisca automaticamente al precedente, ma possa farlo solo a seguito di apposito provvedimento autorizzativo; sicché, non producendosi in via automatica una modifica soggettiva del contratto dal lato del datore di lavoro, il rapporto non prosegue di diritto con l'amministrazione, mancandone l'elemento costitutivo del decreto del giudice delegato. Dunque, alcun valido consenso, nemmeno per fatti concludenti, potrebbero esprimere gli amministratori giudiziari alla prosecuzione del rapporto, in presenza di una norma che li assoggetta all'obbligo di prendere posizione sul subingresso solo in base ad un provvedimento del giudice. Pertanto, ipotizzare una prosecuzione di diritto del contratto di lavoro senza autorizzazione del giudice delegato, quindi senza un requisito normativamente previsto, significa attribuire giuridica rilevanza ad un contratto nullo, in cui la prestazione dell'attività contrattualmente dedotta rileva ai soli fini dell'art. 2126 c.c..

Se l'amministratore giudiziario potesse, con proprio comportamento concludente, fornire veste giuridica al rapporto di lavoro in essere al momento del sequestro, non avrebbe nemmeno senso prevedere - comma 2 dell'art. 56 - il diritto del contraente, interessato dalla sospensione "ope legis" del contatto con l'impresa sequestrata, di mettere in mora l'amministratore giudiziario, facendosi assegnare dal giudice delegato un termine decorso il quale il contratto si intende risolto») è corretta, in quanto in linea con il contenuto della disposizione normativa nonché con l'istituto della nullità cd. "virtuale", governata dall'art. 1418, primo comma, c.c., avendo la predetta disposizione natura di norma imperativa, stante la rilevanza degli interessi pubblici che l'impianto normativo in materia di antimafia e misure di prevenzione intende salvaguardare, anche mediante la previsione dell'autorizzazione giudiziale quale presupposto necessario e, pertanto, condizionante il compimento delle varie iniziative, quanto ai rapporti pendenti, da parte dell'amministratore giudiziale; né tale nullità può ritenersi normativamente esclusa per effetto della disposizione dell'art. 40, comma 4, del d.lgs. in questione, "ratione temporis" applicabile, ove è previsto che "Avverso gli atti dell'amministratore giudiziario compiuti in violazione del presente decreto, il pubblico ministero, il proposto e ogni altro interessato possono avanzare reclamo, nel termine perentorio di dieci giorni, al giudice delegato che, entro i dieci giorni successivi, provvede ai sensi degli articoli 737 e seguenti", poiché la stessa prevede un meccanismo di controllo la cui mancata attivazione è comunque inidonea a determinare una sorta di convalida dell'atto di prosecuzione del rapporto contrattuale in difetto di autorizzazione, avuto riguardo alle ragioni di ordine pubblico (su cui v. "infra") su cui è imperniata la normativa di riferimento;

il terzo motivo è del pari da disattendere, poiché, in materia, è stata ravvisata - v., in particolare, Cass. 19/10/2018, n. 26478, con riferimento a vicenda in cui non era stato autorizzato dal giudice delegato il subentro degli amministratori nel rapporto di lavoro con soggetto non rientrante nel novero di quelli di cui all'art. 35 - la natura speciale della normativa in ragione delle esigenze di ordine pubblico al cui soddisfacimento essa è predisposta; ne consegue che non si è in presenza, nel caso, di una ipotesi di recesso "ad nutum", bensì di risoluzione del rapporto prevista da normativa di settore giustificata dagli interessi che essa mira a proteggere (cfr., altresì, Cass. 27/04/2017, n. 10439, ove è precisato che "è la stessa legge speciale che, in ragione della finalità di ordine pubblico, prevede la giustificazione del licenziamento");

il quarto motivo è inammissibile, poiché esso non coglie appieno la "ratio decidendi" della sentenza impugnata, la quale ha evidenziato che «L'unico titolo per cui gli amministratori sono stati autorizzati a non subentrare nel contratto di lavoro con la M. è il provvedimento del giudice delegato del 21.6.2017 fondato sull'applicazione dell'art. 56, altresì richiamato nella comunicazione di scioglimento del rapporto di lavoro del 23.6.2017; in alcuno di questi atti è dato riscontrare un riferimento all'art. 35. (...) In ogni caso, anche a voler considerare quanto indicato nella lettera degli amministratori giudiziari, il richiamo all'art. 35 individua "per relationem" - attraverso la disciplina delle incompatibilità - la categoria dei soggetti legati a vario titolo all'imprenditore indagato nei confronti dei quali può applicarsi il recesso dell'amministratore su ordine del giudice, salvo scrutinarne la effettiva inadeguatezza, per il ruolo in concreto ricoperto dal dipendente, ai fini della opportunità di proseguire il contratto(...)»;

in altri termini, nella sentenza, il sopra riportato passaggio motivazionale - costituente risposta al motivo di gravame imperniato sulla erronea applicazione, nel caso, dell'art. 35 - contiene la precisazione, appunto, che la comunicazione di non prosecuzione del rapporto di lavoro era fondata solo sull'art. 56, essendo stato il richiamo (peraltro non indicato negli esatti termini né nel ricorso, né nella sentenza), contenuto in una lettera degli amministratori, all'art. 35, effettuato solo per l'individuazione dei soggetti (nel caso, la cognata del titolare dell'impresa sequestrata) nei cui confronti poter procedere allo scioglimento del rapporto; ed infatti «ove il soggetto legato da rapporti di parentela con l'imprenditore attinto dalla misura venisse lasciato a svolgere funzioni strettamente collegate all'attività economica dell'azienda, lo stesso finirebbe per essere, in buona sostanza, un ausiliario o collaboratore dello stesso amministratore giudiziario, rientrando così tra i soggetti il cui rapporto di lavoro può essere risolto ex art. 56»;

il passo decisivo della motivazione, pertanto, è quello, sopra esaminato, correlato alla legittima applicazione dell'art. 56 nei confronti di uno dei soggetti indicati dall'art. 35, comma 3, del più volte richiamato d.lgs. (ove è previsto, tra l'altro, che "Non possono essere nominate le persone nei cui confronti il provvedimento é stato disposto, il coniuge, i parenti, gli affini e le persone con esse conviventi (...). Le stesse persone non possono, altresì, svolgere le funzioni di ausiliario o di collaboratore dell'amministratore giudiziario");

il quinto motivo è inammissibile nella parte in cui censura la diretta violazione di parametri costituzionali (cfr., sul punto, di recente, Cass., sez. un., 6/04/2022, n. 11167, ove è tra l'altro ribadito che «la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente col motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, n. 3, c.p.c., in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell'applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l'eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata»), essendo peraltro infondati i sollevati dubbi di legittimità costituzionale, così come prospettati in astratto, in quanto la risoluzione del rapporto di lavoro riconducibile all'art. 56 è, comunque, una fattispecie tipica sottoposta a controllo giurisdizionale (cfr. Cass. n. 26478 del 2018, cit., che ha ritenuto parimenti infondata la questione), differenziata per presupposti e condizioni da quella del licenziamento; senza contare che la predetta fattispecie presuppone comunque, pur a fronte della sua specialità nell'ambito del sistema, la specificazione dei motivi (nel caso ritenuti sussistenti; cfr. il seguente passo della motivazione: «Il giudice delegato motiva il diniego al subentro con la opportunità che la funzione di Responsabile amministrativo, in allora ricoperta dalla dottoressa M., cognata del proposto, fosse affidata a persona di fiducia dell'Amministrazione Giudiziaria, trattandosi di funzione che presuppone la conoscibilità di dati, notizie e documenti riservati, necessari per la gestione societaria. La sostituzione comportava anche un lieve risparmio di spesa ... Dunque il rapporto di parentela della ricorrente con il proposto F.V. non ha costituito in sé la ragione del recesso, ma è stato un elemento che, esaminato nel complesso della struttura aziendale in cui era inserita la ricorrente e alla luce dei compiti concretamente svolti, e con valutazione, come visto, particolarmente ponderata - non disgiunta da un giudizio di convenienza economica -, ha indotto gli organi della procedura ad un atteggiamento di cautela rispetto al rischio di indebite interferenze potenzialmente pregiudizievoli per la serena gestione amministrativa dell'azienda in sequestro»), quale espressione generale di garanzia a beneficio del lavoratore; il che vale ad escludere qualsiasi profilo di contrarietà della disposizione ai citati parametri costituzionali;

le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 4.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 - bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.