Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 maggio 2018, n. 20866
Reati fiscali - Omesso versamento di ritenute certificate oltre la soglia di punibilità - Responsabilità penale - Condanna del legale rappresentante - Rateazione del debito - Irrilevanza
Ritenuto in fatto
1. L.I.L. ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d'Appello di Milano in data 29/03/2016 con la quale, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Milano in data 29/05/2015, è stato applicato all'imputato il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale ed è stata per il resto confermata la affermazione di penale responsabilità del ricorrente per il reato di cui all'art. 10 bis del d.lgs. n. 74 del 2000 perché, nella qualità di rappresentante legale della "L.L. & S.S.C.", non versava, in relazione all'anno d'imposta 2009 entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta, ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per l'ammontare di euro 212.680,23, così superando il limite - soglia di punibilità.
2. Con un primo motivo deduce l'incostituzionalità dell'art. 13 del d. Igs. n. 74 del 2000 come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 nella parte in cui non prevede la sospensione del giudizio anche in caso di rateizzazioni richieste prima della contestazione del reato e/o del rinvio a giudizio e il cui pagamento sia stato ancora in corso al momento dell'apertura del dibattimento. Deduce in particolare il fatto che la norma, in violazione degli artt. 3 e 23 Cost., non ponga tutti i soggetti che accedono alla rateizzazione sul medesimo piano a prescindere dalla lunghezza della procedura di rateizzazione (dipendente anche dalla celerità ed efficienza degli uffici preposti).
3. Con un secondo motivo deduce violazione di legge e mancanza ed illogicità della motivazione in ordine alla richiesta di assoluzione avendo il Giudice errato nel rilevare l'integrazione della fattispecie delittuosa di cui all'art. 10 bis cit. in capo al ricorrente, nonostante la richiesta, intervenuta prima della contestazione, di rateizzazione della somma dovuta con conseguente mancanza dell'elemento psicologico del reato.
4. Con un terzo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza in ordine al mancato riconoscimento dell'esimente della forza maggiore di cui all'art. 45 cod. pen. essendo il mancato versamento dipeso dalla mancanza di liquidità imprevedibile e non dipendente dalla volontà del ricorrente, che ha scelto di pagare gli stipendi postergando il versamento dei contributi.
5. Con un quarto ed ultimo motivo lamenta l'illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio non essendo stata fatta applicazione dei parametri di cui all'art. 133 cod. pen. in ordine sia alla gravità del reato che alla personalità del colpevole.
1. Il primo motivo è inammissibile venendo dedotto un profilo di incostituzionalità la cui rilevanza, nella specie, deve essere esclusa.
Infatti, né dalla sentenza impugnata risulta, né è stato in alcun modo dedotto in ricorso che in sede di appello (quando cioè l'istituto di esclusione della punibilità di cui si discute era già entrato in vigore) sia stata invocata l'applicazione dell'art. 13 del d.lgs. n. 74 del 2000 come rivisitato dall'art. 11 del d. Igs. n. 158 del 2015 con conseguente, appunto, manifesta non rilevanza della questione posta.
In ogni caso, anche a volere affrontare nel merito il profilo dedotto, il motivo di ricorso pare non considerare che la norma dell'art. 13, comma 3, cit. non fa distinzioni tra rateizzazioni ante e post contestazione del fatto sì che non si comprende perché la sospensione non sarebbe, secondo il ricorrente, applicabile. Va anche aggiunto che il giudizio di primo grado si è concluso in data 29/5/2015, e dunque prima della modifica dell'art. 13 cit., sicché, sul piano sempre astratto, il problema non sarebbe tanto quello della mancata sospensione del processo quanto quello della mancata applicazione dell'art. 13 per i fatti per i quali, all'entrata in vigore della normativa, vi era già stata la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado sotto il profilo di una disparità di trattamento determinata dal solo aspetto del diverso sviluppo del processo. Ma allora, posta in tali termini, la questione di legittimità costituzionale della norma non potrebbe neppure porsi avendo questa Corte già ritenuta possibile, in caso di pagamento interamente corrisposto, I'applicazione del nuovo istituto addirittura nel giudizio di legittimità sul presupposto di una lettura della norma aderente ai principi costituzionali (Sez. 3, n. 15237 del 01/20/2017, dep. 28/03/2017, Volanti, Rv. 269653; Sez. 3, n. 40314 30/03/2016, dep. 28/09/2016, Fregolent, Rv. 267807); e nella specie, l'imputato, limitandosi ad affermare di avere richiesto la rateizzazione e "versato con puntualità", non deduce né dimostra di avere ad oggi interamente pagato il debito tributario.
2. Anche il secondo motivo è inammissibile: non è dato infatti comprendere (ché su tale assunto si basa, a ben vedere, la doglianza proposta) perché la richiesta di rateizzazione, evidentemente attinente ad un momento ben successivo alla consumazione del reato, dovrebbe significare assenza dell'elemento psicologico dello stesso; del resto, la stessa struttura del nuovo istituto di cui all'art. 13 cit., configurato come causa di "esclusione della punibilità" di un reato già perfezionatosi, contraddice manifestamente una tale impostazione.
3. Il terzo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza.
Va ricordato come questa Corte abbia in più occasioni affermato che, sufficiente per l'integrazione del reato in oggetto la coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate nel periodo relativo, ogniqualvolta il sostituto d'imposta effettua le erogazioni degli emolumenti ai dipendenti, deriva a carico dello stesso l'obbligo di accantonare le somme dovute organizzando le risorse disponibili in modo da potere adempiere all'obbligazione tributaria; in altri termini, secondo un indirizzo da tempo seguito, lo stato d'insolvenza non libera il sostituto d'imposta, dovendo questi adempiere al proprio obbligo di corrispondere le ritenute così come adempie a quello di pagare le retribuzioni di cui le ritenute stesse sono parte. Ed invero, anche il sopravvenuto fallimento dell'agente non è sufficiente a scriminare il precedente omesso versamento delle ritenute, essendo obbligo del sostituto d'imposta quello di ripartire le risorse esistenti all'atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere al proprio obbligo tributario, anche se ciò comporta l'impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare; sicché l'imprenditore che decida, in presenza di una difficile situazione economica, di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti e di pretermettere il versamento delle ritenute all'Erario non può addurre a propria discolpa l'assenza dell'elemento psicologico (tra le altre, Sez. 3, n. 11694 del 18/06/1999, dep. 13/10/1999, Triticco, Rv. 215518; Sez. 3, n. 11459 del 19/09/1995, dep. 28/11/1995, Rossi, Rv. 203018).
Di qui, dunque, secondo la lettura successivamente offerta anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U., n. 37425 del 28/03/2013, dep. 12/09/2013, Favellato, Rv. 255760), poi seguita e sviluppata dalle sezioni semplici, la non invocabilità, al fine di escludere la colpevolezza del soggetto agente, della crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta ovvero, in altre parole, ove non si dimostri che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che le stesse, inoltre, non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale (tra le altre, Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055).
E, sempre in particolare con riferimento alla preferenza data al pagamento delle retribuzioni, si è precisato che, pur essendo il diritto al lavoro costituzionalmente garantito e pur dovendo riconoscersi che lo stesso contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve tuttavia escludersi che la sua perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo dell'art. 54 cod. pen. (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, dep. 15/05/2014, P.G. in proc. Zanchi, Rv. 259190).
Ciò posto, nella specie il ricorrente si è limitato ad allegare una non meglio qualificata mancanza di liquidità e la scelta di privilegiare il pagamento degli stipendi, circostanze, tuttavia, entrambe, per quanto già detto, inidonee, per come esposte, ad integrare anche solo l'invocata esimente della forza maggiore dell'art. 45 cod. pen..
4. Anche l'ultimo motivo è infine inammissibile.
Il ricorso si è limitato a ricordare la necessità che il giudice non irroghi una pena che sia gratuitamente esemplare e a sottolineare l'obbligo di indicazione dei motivi giustificanti l'uso del potere sanzionatorio in particolare con riferimento ai parametri della gravità del reato e della personalità del colpevole, ma al di là di tali astratte enunciazioni, non ha spiegato in alcun modo perché nella specie i giudici di merito sarebbero stati inosservanti rispetto a tali criteri; ed anzi, un tale riferimento sarebbe stato tanto più necessario a fronte dell'elemento della entità dei contributi non versati concretamente valorizzato dalla sentenza impugnata al fine di confermare la pena irrogata.
5. In definitiva il ricorso è inammissibile, seguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.