Accertamento induttivo da indagini bancarie: costi inerenti deducibili

Nella determinazione del reddito mediante accertamento induttivo basato su indagini bancarie, dai ricavi accertati presuntivamente in ordine ai versamenti/prelevamenti risultanti dal conto corrente bancario devono essere dedotti i "costi inerenti", che siano provati dal contribuente o comunque emersi dagli accertamenti compiuti. Secondo la Corte di Cassazione, rientrano tra i "costi inerenti" gli assegni emessi dai soci che i verificatori hanno associato all’acquisto di merce in nero (Corte di Cassazione - Ordinanza 22 ottobre 2020, n. 23093)

IL CASO

La controversia trae origine dagli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate ha contestato alla società, a ristrettissima base partecipativa, presunti redditi non dichiarati, determinati in modo induttivo sulla base delle movimentazioni dei conti correnti bancari intestati ai soci, attribuite dai verificatori alla contabilità parallela "in nero" emersa nel corso della verifica.
La società ha impugnato gli avvisi di accertamento, contestando il mancato riconoscimento di costi in deduzione dal reddito accertato induttivamente.
I giudici tributari hanno ritenuto legittima la pretesa fiscale, affermando che nel caso in cui l'Ufficio determini i redditi con metodo induttivo mediante ricorso a indagini bancarie, il riconoscimento di costi inerenti da detrarre non può dirsi precluso in linea di principio, ma è soggetto all'onere probatorio gravante sul contribuente, chiamato a vincere la presunzione di ricavi non dichiarati, in ordine ai versamenti/prelevamenti risultanti dal conto corrente bancario; tuttavia, secondo i giudici, nel caso di specie tale onere non è stato assolto.
Su ricorso della società, la Corte di Cassazione ha riformato la decisione, rinviando ad altro giudice per il riconoscimento in detrazione dei costi inerenti all'attività di cui ai movimenti passivi dei conti correnti dei soci, come evincibili dai p.v.c. e dagli atti impositivi.

DECISIONE DELLA CASSAZIONE

Relativamente al mancato riconoscimento dei costi inerenti i maggiori ricavi accertati, la società ha evidenziato l'erroneità della decisione dei giudici tributari, perché basata sull'errato presupposto del mancato assolvimento dell'onere della prova, mentre, di fatto, l'inerenza di detti costi era stata esplicitamente riconosciuta dalla stessa Agenzia sin dagli avvisi di accertamento, fondati anche sulla circostanza che i conti correnti personali dei soci fossero stati talvolta utilizzati per effettuare pagamenti a fornitori per l'acquisto di merce non fatturata; dunque, la prova doveva ritenersi assolta ex actis e di ciò il giudice d'appello avrebbe dovuto tenerne conto.

La C.T.R. ha affermato, infatti, che nel caso in cui l'Ufficio determini i redditi con metodo induttivo mediante ricorso a indagini bancarie, il riconoscimento di costi inerenti all’attività è soggetto all'onere probatorio gravante sul contribuente, chiamato a vincere la presunzione di cui all'art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, in ordine ai versamenti/prelevamenti risultanti dal conto corrente bancario; tuttavia, nella specie, la società non ha adempiuto detto onere.

Secondo la Corte di Cassazione, il giudice d’appello ha correttamente gravato il contribuente dell’onere di prova, ma ha errato nell’affermare il mancato assolvimento di detto onere, cadendo in evidente contraddizione, con conseguente vizio motivazionale.
La Suprema Corte osserva, in particolare, che la C.T.R.:
- da un lato sottolinea la correttezza della ripresa a tassazione da parte dell'Ufficio, stante l'esistenza della contabilità "in nero", ampiamente dimostrata dagli stessi p.v.c., ove si fa riferimento anche alla circostanza che molteplici pagamenti di fornitori per merci o servizi non fatturati erano effettuati mediante movimentazione dei conti dei soci e che ben sei clienti della società (su sette) avevano confermato che gli assegni di traenza o circolari versati su questi ultimi concernevano proprio l'acquisto di arredi;
- dall'altro lato afferma che la società non ha provato alcunché, "dimenticando" il peso e il significato di quegli stessi documenti concernenti i pagamenti a fornitori, omettendo di estrarne le implicazioni quali elementi sintomatici della certezza dei costi.
Si tratta, precisano i giudici, di elementi (tronconi di assegni, assegni, ecc.) che - quand'anche non prodotti in giudizio dalla società, perché richiamati o allegati ai p.v.c. - certamente fanno parte del corredo istruttorio e devono quindi essere utilizzati dal giudice nella formazione del proprio libero convincimento.
Considerato, poi, che detti elementi emergono ex actis, possono e devono essere apprezzati nella loro oggettività (quale che sia, cioè, il latore nel processo considerato), e quindi anche in senso favorevole al contribuente, ove suscettibili di esserlo, come è nella specie, dato che la natura di costi inerenti all'attività di impresa, in modo inequivoco, era stata attribuita negli spessi p.v.c. e, quindi, negli atti impositivi.
Ne discende che la C.T.R. ha finito per falsamente applicare l'art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, non avendo correttamente proceduto alla ricognizione della fattispecie e dichiarato l'esistenza di specifici ed analitici costi certamente inerenti all'attività d'impresa, onde detrarli analiticamente dall'imponibile rideterminato, così incorrendo nel cd. vizio di sussunzione. Ne esce infine violato anche l'art. 53 della Costituzione, essendosi in definitiva assoggettato ad imposizione il reddito lordo, anziché quello netto.

In conclusione la Corte Suprema ha affermato il seguente principio di diritto: "in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l'Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano state indicate e dimostrate dal contribuente, ovvero di quelle comunque emerse dagli accertamenti compiuti. Ove, peraltro, l'Amministrazione abbia proceduto mediante accertamenti bancari, le operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili non possono automaticamente includersi fra dette componenti negative, in quanto le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, ai sensi dell'art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973, gravando sul contribuente l'onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili, a meno che non risulti dallo stesso atto impositivo, o comunque da elementi a disposizione del giudice, che dette operazioni di prelievo sono state effettivamente destinate al sostenimento di costi dell'attività d'impresa".

Sulla base di tale principio, la Corte di Cassazione ha stabilito per il caso in esame, che il giudice del rinvio provveda a detrarre analiticamente dal maggior reddito accertato i costi inerenti all'attività di cui ai movimenti passivi dei conti correnti dei soci, come evincibili dai p.v.c. e dagli atti impositivi.