Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 05 maggio 2025, n. 11765

Lavoro - Patto di non concorrenza - Limitazione delle possibilità lavorative imposta dal patto - Estensione territoriale eccessiva - Misura del compenso - Indeterminabilità del limite territoriale - Obbligo di non concorrenza - Rigetto

 

Rilevato che

 

1. la Corte d'Appello di Bologna ha respinto il ricorso della banca M.P.S. avverso la sentenza del medesimo Tribunale con cui era stata accertata la nullità del patto di non concorrenza (stipulato con l’ex-dipendente M.F.) perché lo stesso prevedeva una limitazione dell’attività lavorativa e un’estensione territoriale eccessive a fronte di un corrispettivo esiguo se paragonato al sacrificio richiesto al lavoratore;

2. in particolare, nel merito e per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte territoriale ha fatto propria la statuizione del Tribunale secondo cui l’oggetto del patto si risolveva nella sostanziale impossibilità di svolgere alcuna attività lavorativa nell’ambito creditizio, assicurativo e finanziario, con assoluta e totale compromissione della capacità lavorativa per 12 mesi; ha rilevato che la clausola che consentiva alla Banca di modificare l’estensione territoriale del patto modificando la sede di lavoro del lavoratore rendeva il patto nullo, rendendo imprevedibili a priori i limiti dell’operatività territoriale dell’obbligo interdittivo; ha osservato che anche l’estensione territoriale del patto risultava eccessiva a fronte del corrispettivo pattuito (10% della RAL), esiguo in proporzione alle limitazioni lavorative e territoriali previste;

3. per la cassazione della predetta sentenza ricorre la banca con 4 motivi; resiste il lavoratore con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memorie; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione o falsa applicazione dell’art. 2125 c.c., anche in relazione all’art. 2103 c.c., per avere la Corte territoriale dichiarato la nullità del patto di non concorrenza in controversia in ragione della indeterminabilità del limite territoriale ivi previsto, in relazione alla previsione dell’estensione del vincolo in caso di eventuale trasferimento del lavoratore nel corso del rapporto;

2. con il secondo motivo, deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione o falsa applicazione dell’art. 2125 c.c., anche in relazione all’art. 1419 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto che la clausola relativa all’aggiornamento del limite territoriale di incidenza del vincolo – dichiarata nulla dalla sentenza – potesse determinare la nullità dell’intero accordo relativo al patto di non concorrenza, e non di una sola parte di esso;

3. con il terzo motivo, deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) nullità della sentenza perché imperniata su una motivazione apparente, per avere la Corte territoriale fondato la conclusione dell’eccessiva estensione territoriale del patto di non concorrenza su non meglio precisati “documenti di causa” oltre che sul “notorio contesto economico che fa da sfondo alla vicenda”;

4. con il quarto motivo, deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione o falsa applicazione dell’art. 2125 c.c., anche in relazione all’art. 2697 c.c. ed all’art. 112 c.p.c., per avere ritenuto la Corte territoriale che il patto di non concorrenza comprimesse in maniera eccessiva la possibilità di esplicazione della professionalità del lavoratore senza svolgere l’esame complessivo del patto che sarebbe stata invece necessaria a tal fine;

5. il primo, secondo e quarto motivo possono essere analizzati congiuntamente, in quanto connessi tra loro; essi risultano infondati;

6. la Corte territoriale ha osservato che i limiti di oggetto, di tempo e di luogo del patto di non concorrenza, al fine di consentire una corretta formazione del consenso delle parti in sede di stipula, devono essere determinati o, quantomeno, determinabili sin dal momento della conclusione di tale negozio giuridico;

7. con specifico rifermento all’art. 2103 c.c., ha individuato la ragione di indeterminatezza della previsione di delimitazione territoriale del vincolo di non concorrenza nella circostanza che il datore di lavoro, esercitando la propria facoltà di ius variandi con riferimento al trasferimento del lavoratore, poteva modificare, in via discrezionale ed unilaterale, l’area territoriale interessata dal divieto di prestare attività lavorativa in concorrenza;

8. il patto di non concorrenza in esame, stipulato tra le parti in causa in data 5 agosto 2015, quanto all’ampiezza territoriale, si estendeva alla Regione Emilia-Romagna ovvero “a quella della diversa Regione ove risulti ubicata la sede di lavoro in atto al momento della cessazione del rapporto di lavoro e anche a quella diversa procedente ove la diversa nuova assegnazione sia intervenuta da meno di un anno. In ogni caso l’area territoriale dell’obbligo di non concorrenza deve ritenersi comunque estesa a province “fuori Regione” se rientranti nel raggio di 250 km dalla sede di lavoro”; quanto alle limitazioni di attività, impegnava il lavoratore “anche dopo la cessazione di detto rapporto, e per un periodo di dodici mesi da tale cessazione, a non svolgere alcuna attività- direttamente o indirettamente, in forma autonoma, subordinata e/o imprenditoriale, per conto proprio e/o di terzi- a favore di Società di Gestione, di Assicurazioni, di Banche e di SIM di gestione ovvero intrinsecamente ordinate e funzionali alla intermediazione finanziaria, nei settori della gestione di portafogli finanziari della clientela anche istituzionale, della intermediazione finanziaria, e comunque in tale ambito in concorrenza con la nostra società”;

9. ritenendo la misura del compenso sproporzionata rispetto alla limitazione delle possibilità lavorative imposta dal patto, tanto in generale quanto con riguardo all’attribuzione al datore di lavoro della possibilità di ampliare senza sostanziali limitazioni l’ambito territoriale di estensione della clausola, la decisione impugnata risulta conforme a, e coerente con, la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, e che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale; consegue comunque la nullità dell'intero patto all’eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale (cfr. Cass. n. 9790/2020, n. 5540/2021, n. 23723/2021, n. 33424/2022);

10. entro tale perimetro di diritto, la questione, centrale nella presente controversia, della sproporzione tra compenso e sacrificio si profila come tipicamente di merito; così come risulta congruamente e logicamente motivata l’affermazione di merito circa la compromissione del requisito della determinabilità dell’oggetto in forza della possibilità di trasferimento del lavoratore (che, invece, avrebbe dovuto portare a una eventuale rinegoziazione del patto);

11. il terzo motivo è inammissibile, perché ricomprende sotto il profilo di violazione di legge un vizio che attiene alla motivazione, eventualmente censurabile ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.; peraltro, nel caso di specie, con preclusione derivante da pronuncia di merito cd. doppia conforme;

12. in ragione della soccombenza, parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione in favore di parte controricorrente delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo;

13. al rigetto del ricorso consegue la declaratoria della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per l’impugnazione;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 5.500 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, e dovuto.