Giurisprudenza - TRIBUNALE DI MILANO - Ordinanza 20 gennaio 2020, n. 46

Pensioni - Rivalutazione automatica dei trattamenti per il periodo 2019-2021 - Meccanismo di rivalutazione - Intervento di riduzione della rivalutazione automatica delle pensioni di elevato importo - Trattamenti pensionistici diretti a carico del FPLD, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell'AGO e della Gestione separata ex art. 2, co. 26, L. 8 agosto 1995, n. 335 - Importi complessivamente considerati superano 100.000 euro lordi su base annua - Intervento di decurtazione percentuale, per la durata di cinque anni, dell'ammontare lordo annuo - L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, commi 260 e 261.

 

Con ricorso al Tribunale di Milano, quale Giudice del Lavoro, depositato in data 11 ottobre 2019, I.F. ha convenuto in giudizio le resistenti in epigrafe indicate chiedendo - previo promovimento della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 260, 261, 262, 263, 265, 267 e 268 della legge n. 145 del 2018 - l'accertamento: i) del diritto al riconoscimento del trattamento pensionistico senza la decurtazione di cui all'art. 1, commi 261-268, legge n. 145/2008; ii) del diritto alla corresponsione del trattamento pensionistico rivalutato, senza il blocco di cui all'art. 1, comma 260, della legge n. 145 del 2008 e iii) dell'illegittimità delle ritenute operate da INPS; per l'effetto ne ha chiesto la condanna a corrispondere il trattamento pensionistico integrale senza decurtazioni e alla restituzione delle somme già trattenute.

Si sono ritualmente costituiti in giudizio INPS, Ministero dell'Economia e delle Finanze e Presidenza del Consiglio dei ministri contestando in fatto e in diritto l'avversario ricorso.

Per quanto di interesse il ricorrente, con decorrenza 1° marzo 2010, è titolare di pensione categoria VDAI (ex INPDAI, liquidata con sistema retributivo) n. 06144585 a carico di INPS e nel presente giudizio si duole che, per effetto delle previsioni della legge n. 145/18, sia stata effettuata una riduzione sul trattamento pensionistico nella misura mensile di euro 20.644,25 destinata a valere per il periodo 2019/2023, oltre che una limitazione della perequazione del trattamento disposta dalla medesima legge per il periodo 2019/2021, per una riduzione mensile complessiva del trattamento pari a circa euro 21.000.

Parte ricorrente ha quindi eccepito preliminarmente l'incostituzionalità di tali disposizioni.

Tanto premesso si osserva quanto segue.

A mente dell'art. 1, legge n. 145/18, per quanto di rilievo, è stato previsto che:

260. Per il periodo 2019/2021 la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistica; secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta:

a) per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento;

b) per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi:

1) nella misura del 97 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a tre volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla lettera a), l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.

Per le pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

2) nella misura del 77 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS.

Per le pensioni di importo superiore a cinque volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

3) nella misura del 52 per cento peri trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a sei volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

4) nella misura del 47 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a otto volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a otto volle il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

5) nella misura del 45 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a otto volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a nove volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a nove volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione i comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

6) nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a nove volte il trattamento minimo INPS.

261. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e per la durata di cinque anni, i trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell'assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all'art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i ari importi complessivamente considerali superino 100.000 euro lordi su base annua, sono ridotti di un'aliquota di riduzione pari al 15 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 130.000 euro, pari al 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro fino a 200.000 euro, pari al 30 per cento per la parte eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, pari al 35 per cento per la parte eccedente 350.000 euro fino a 500.000 euro e pari al 40 per cento per la parte eccedente 500.000 euro.

262. Gli imporli di cui al comma 261 sono soggetti alla rivalutazione automatica secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448.

263. La riduzione di cui al comma 261 si applica in proporzione agli importi dei trattamenti pensionistici, ferma restando la clausola di salvaguardia di cui al comma 267. La riduzione di cui al comma 261 non si applica comunque alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo.

264. Gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nell'ambito della loro autonomia, si adeguano alle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263 e 265 dalla data di entrata in vigore della presente legge.

265. Presso l'INPS e gli altri enti previdenziali interessati sono istituiti appositi fondi denominati «Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato» in cui confluiscono i risparmi derivati dai commi da 261 a 263. Le somme ivi confluite restano accantonate.

266. Nel Fondo di cui al comma 265 affluiscono le risorse rivenienti dalla riduzione di cui ai commi da 261 a 263, accertate sulla base del procedimento di cui all'art. 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

267. Per effetto dell'applicazione dei commi da 261 a 263, l'importo complessivo dei trattamenti pensionistici diretti non può comunque essere inferiore a 100.000 euro lordi su base annua.

268. Sono esclusi dall'applicazione delle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263 le pensioni di invalidità, trattamenti pensionistici di invalidità di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222, i trattamenti pensionistici riconosciuti ai superstiti e i trattamenti riconosciuti a favore delle vittime del dovere o di adoni terroristiche, di cui alla legge 13 agosto 1980, n. 466, e alla legge 3 agosto 2004, n. 206.

L'interpretazione delle disposizioni sopra richiamate è inequivoca e non lascia margine di dubbio alcuno circa l'intenzione del legislatore di operare una riduzione sui trattamenti pensionistici dei lavoratori dipendenti (con esclusione delle pensioni liquidate con sistema contributivo) secondo un sistema di riduzione per aliquote progressive a seconda di determinati scaglioni, meccanismo cui si aggiunge altresì la limitazione della perequazione prevista secondo aliquote decrescenti. Ciò rende vano ogni tentativo di interpretazione adeguatrice e necessario l'incidente di costituzionalità.

Nel caso di specie il ricorrente, titolare di una pensione dell'importo annuo di euro 872.795,04, è soggetto alla riduzione del trattamento per una aliquota iniziale del 15% fino a euro 130.000, una successiva aliquota del 25% per la parte eccedente fino a euro 200.000, un'aliquota del 30% per la parte eccedente fino a euro 350.000, un'aliquota del 35% per la parte eccedente fino a euro 500.000 ed infine del 40% per la parte eccedente; inoltre sul trattamento pensionistico opera la limitazione della perequazione prevista, nel caso di specie (pensione superiore a 9 volte il trattamento minimo), nella misura del 40%.

Di conseguenza, è evidente la rilevanza della questione di costituzionalità di cui ai paragrafi successivi, atteso che le disposizioni sopra richiamate vincolano innanzitutto l'ente previdenziale ad applicare le riduzioni ivi previste e non consentono una interpretazione costituzionalmente conforme dal che deriverebbe, ove mai venisse ritenuta manifestamente infondata la questione di costituzionalità, il rigetto delle domande attoree.

Ebbene, ritiene il giudicante che le disposizioni in commento presentino plurimi profili di incostituzionalità.

Occorre sin d'ora premettere che non è e non può essere in discussione in questa sede la discrezionalità del legislatore nel predisporre interventi che possano anche incidere sui trattamenti pensionistici in essere, sia nell'eventuale ottica di garantire l'equilibrio di bilancio secondo le previsioni dell'art. 81 Cost. sia per fronteggiare situazioni di squilibri finanziari ovvero garantire l'adempimento di obiettivi concordati in sede europea.

Nondimeno, ove anche nel caso di specie tali fossero le finalità del legislatore, resterebbe pur sempre il vincolo di intervenire rispettando il limite della ragionevolezza affinché l'esercizio della sua discrezionalità porti all'adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali (così Corte cost., n. 70 del 2015).

Violazione articoli 3 e 53 Costituzione.

Tanto premesso, ad avviso del giudicante un primo profilo di incostituzionalità delle disposizioni in commento è da ravvisare nella natura di tributo attribuibile al prelievo.

La giurisprudenza costituzionale, in fattispecie analoghe, ha già avuto modo di individuare i presupposti necessari in presenza dei quali una misura, a prescindere dal nomen iuris, possa essere ricondotta nella categoria delle imposte.

Ciò si verifica allorquando gli importi trattenuti vengano acquisiti allo Stato, destinati alla fiscalità generale (rispetto alla quale Inps assumerebbe al più la veste di sostituto di imposta) e non già trattenuti all'interno delle gestioni previdenziali nell'ambito delle specifiche finalità solidaristiche endo-previdenziali (così Corte cost., sentenza n. 173 del 2016, par. 9), comportando una definitiva decurtazione patrimoniale del soggetto passivo (Corte cost., sentenza n. 70 del 2015).

In particolare si è osservato che: La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente precisato che gli elementi indefinibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico (nella specie, di una voce retributiva di un rapporto di lavoro ascrivibile ad un dipendente di lavoro pubblico statale «non contrattualizzato»); le risorse connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione sono destinate a sovvenire pubbliche spese (Corte cost. n. 23/12 par 12.3).

Ebbene, non vi sono dubbi circa la definitività della misura in commento, atteso che non sono previsti, da, parte del legislatore, alla scadenza del quinquennio di durata della trattenuta, meccanismi che, in tutto o in parte, ne consentano il recupero al pensionato.

E' poi ravvisabile quantomeno una potenziale acquisizione di tali risorse al bilancio dello Stato, tenuto conto che l'art. 1, comma 265, legge n. 145/18, prevede che gli importi risparmiati per effetto del prelievo vengano depositati presso un Fondo di risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato istituito (ma non necessariamente gestito e acquisito) presso Inps.

Il successivo comma 266 affida alla procedura della conferenza di servizi ogni determinazione sulla destinazione di tali fondi accantonati, lasciando chiaramente intendere che questi ultimi non sono necessariamente vincolati ad essere utilizzati in favore dell'ente previdenziale (eventualmente per garantire la tenuta del sistema previdenziale) ben potendo essere destinati ad altri fini anche esterni.

La circostanza non è certamente secondaria e, anzi, era percepita di tale rilevanza da essere richiamata come elemento di criticità nel Dossier del Servizio studi del Senato, ove si rappresentava l'opportunità di chiarire in modo più puntuale le modalità di funzionamento della conferenza di servizi.

Nel medesimo dossier, inoltre, veniva ripercorsa la giurisprudenza costituzionale sul tema, con specifico riferimento allo casistica relativa alla natura tributaria o meno del prelievo, dandosi rilievo proprio anche a quanto deciso nella citata sentenza n. 173 del 2016 ed in particolar modo al fatto che il contributo di solidarietà, per essere legittimo, dovesse essere interno al sistema previdenziale e giustificato in via eccezionale dallo crisi contingente e grave del sistema medesimo.

Il fatto che il legislatore, nonostante tali profili fossero stati rappresentanti già in fase di studio dell'intervento, non abbia inteso né dare conto di ragioni eccezionali che giustificassero il prelievo né prevederne una destinazione vincolata in favore dell'ente previdenziale, lascia chiaramente intendere che la destinazione al Fondo sia stata volutamente e scientemente svincolata ad un fine precipuo, ben potendo quindi, come detto, essere acquisita anche al bilancio dello Stato. Sul punto, la stessa giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di evidenziare che: l'assenza di una espressa indicazione della destinazione delle maggiori risorse conseguite dallo Stato non esclude che siano destinate a sovvenire pubbliche spese, e, in particolare, a stabilizzare la finanza pubblica, trattandosi di un usuale comportamento del legislatore quello di non prevedere, per i proventi delle imposte, una destinazione diversa dal generico «concorso alle pubbliche spese» (cfr. Corte cost., sentenza n. 223/2012, par. 12.3).

Né la misura appare finalizzata a garantire la stabilità del sistema previdenziale ovvero a tutelare particolari categorie di pensionati.

Tale profilo era stato invece chiaramente valorizzato dalla stessa Corte costituzionale allorquando era stata chiamata a valutare la legittimità del prelievo disposto dall'art. 1, comma 486, legge n. 147/2013, atteso che la natura non tributaria della disposizione veniva individuata anche per il fatto di essere specificamente destinata ad assolvere a finalità solidaristiche, in quel caso individuate nella tutela dei soggetti c.d. esodati, come noto categoria pregiudicata dalle riforme previdenziali introdotte dalla legge n. 92/12 (cfr. Corte cost. sentenza n. 173 del 2016).

Anche in occasione dello scrutinio delle previsioni dell'art. 24, commi 25 e 25-bis, decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, era stata comunque valorizzata (al fine di escludere la natura tributaria del prelievo oggetto di sindacato di costituzionalità) la circostanza che la misura fosse finalizzata a tutelare in via prioritaria le categorie di pensionati con trattamenti pensionistici più bassi (Corte cost., sentenza n. 250 del 2017).

Ebbene, ad avviso del remittente nessuno di tali elementi è ravvisabile nel caso di specie.

L'intervento sulle pensioni, difatti, è espressamente finalizzato a garantire allo Stato un maggior gettito (espressione tipicamente utilizzata per qualificare un tributo statale o locale), come risulta evidente dalla lettura della Nota di lettura del Servizio del bilancio della Camera dei Deputati, che così si esprime nel qualificarlo, e ciò all'esito della interlocuzione con le autorità europee allorquando, come noto, erano state inizialmente manifestati dubbi e perplessità sul rispetto dei vincoli europei della manovra finanziaria.

Ciò trova ulteriore conferma dalla lettura del Dossier alla manovra di bilancio 2019/2021. Effetti sui saldi e colto risorse e impieghi redatto dal Servizio Bilancio del Senato e dal Servizio Bilancio dello Stato nel gennaio 2019 che - nella allegata Tabella 8, individua le misure sulle pensioni più elevate quali mezzi di copertura degli interventi della manovra finanziaria, nessuno dei quali destinato a sostenere il sistema previdenziale (al più l'ampliamento della platea con i pensionamenti anticipati) dandosi quindi ancor maggiore evidenza della natura di tributo della misura in commento.

Anzi, proprio nel dossier da ultimo richiamato si evince chiaramente che l'intervento sulle pensioni più elevate è da ritenersi non già finalizzato a fronteggiare situazioni di crisi finanziaria o ispirato a principi solidaristici quanto ad evitare una procedura per disavanzo eccessivo, in quanto l'originaria programmazione di bilancio dello Stato italiano non risultava rispettosa della regola del debito.

In forza di ciò l'Italia, nell'ottica di garantire il rispetto del Patto di stabilità e crescita, interveniva su talune misure della manovra modificando i saldi.

Vero che il Governo italiano dava atto di un quadro macroeconomico che comportava una rivisitazione al ribasso della stima di crescita del PIL, del perdurante elevato livello dei rendimenti sui titoli di Stato e del peggioramento delle aspettative sulla crescita.

Tuttavia, il quadro delineato non assume alcun carattere di urgenza o criticità finanziaria da giustificare l'intervento sulle pensioni anche in un'ottica di finalità solidaristica (interna al sistema o in generale per giustificare sacrifici in capo alla collettività ivi compresi i pensionati).

Significativo evidenziare che, dal lato delle misure relative alle spese, gli unici interventi che dopo l'interlocuzione con le autorità europee venivano introdotte per consentire un maggior gettito riguardino proprio le pensioni più elevate insieme ad un programma straordinario di dismissioni immobiliari, giacché per il resto si tratta di revisioni di stime o recupero di risorse diversamente allocate; nessun ulteriore sacrificio viene previsto per la collettività salvo quello imposto ad una (assolutamente ristretta) categoria di pensionati.

D'altra patte, come appena visto, la legge di bilancio, ben lungi dal prevedere la necessità di interventi sulle pensioni di importo più elevato al fine di garantire il mantenimento del sistema previdenziale ed eventualmente tutelare le fasce più deboli, introduce invece disposizioni per un anticipato accesso alla pensione (c.d. quota 100, al chiaro fine di ampliare la platea dei soggetti che possano accedere al trattamento di quiescenza) che all'evidenza mal si coniugherebbero ove disposte nell'ambito di un sistema previdenziale in crisi.

Infine, anche nel caso di specie, la decurtazione non comporta la modifica di un rapporto sinallagmatico nemmeno ravvisabile atteso che il sistema previdenziale poggia sulle previsioni dell'art. 38, comma 2, Cost. per garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita.

Di conseguenza, le disposizioni oggetto della presente ordinanza di rimessione, essendo per quanto detto qualificabili come prelievo tributario, violano gli articoli 3 e 53 Costituzione.

Ciò in quanto risulta evidente la violazione dei principi di uguaglianza a parità di reddito, atteso che la disposizione in questa sede censurata colpisce una sola categoria di soggetti passivi determinando così una disparità di trattamento, tanto più grave in quanto la platea dei destinatari sono i pensionati, seppur con redditi più elevati.

Violazione articoli 3, 23, 36 e 38 Costituzione.

Ove anche il prelievo in commento fosse inquadrato nell'alveo delle prestazioni patrimoniali imposte per legge ai sensi dell'art. 23 Cost., ad avviso del giudicante sarebbe comunque irrispettoso dei principi di ragionevolezza e proporzionalità desumibili dal combinato disposto degli articoli 3, 36 e 38 Cost.

La stessa Corte costituzionale, in più occasioni chiamata a vagliare disposizioni analoghe, ha precisato che: In linea di principio, il contributo di solidarietà sulle pensioni può ritenersi misura consentita al legislatore ove la stessa non eccedei i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (articoli 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio «stretto» di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà (sentenza n. 173 del 2016).

Ciò impone che il contributo, dunque, deve operare all'interno dell'ordinamento presidenziale, come misura di solidarietà «forte», mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un'ottica di mutualità intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori - endogeni ed esogeni (il più delle volte tra loro intrecciati: crisi economica internazionale, impatto sulla economia nazionale, disoccupazione, mancata alimentazione della previdenza, riforme strutturali del sistema pensionistico) - che devono essere oggetto di attenta ponderazione da parte del legislatore, in modo da conferire all'intervento quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002, ex plurimis) - (sentenza n. 173 cit., par. 11.1).

Ne deriva che il legislatore è chiamato ad un bilanciamento tra i valori e gli interessi costituzionali coinvolti ovvero, da un lato, quello dei pensionati e, dall'altro lato, le esigenze finanziarie e di equilibrio di bilancio dello Stato (così Corte cost., sentenza n. 250 del 2017).

Significativo in tale contesto che nella citata sentenza della Corte costituzionale n. 173 del 2016 sia stata ritenuta conforme a Costituzione la previsione di un contributo di solidarietà sia pur al limite (cosi espressamente nel provvedimento), venendo in quella occasione valorizzato il fatto che la misura operasse all'interno del sistema previdenziale incidendo sulle pensioni di importo più elevato con aliquote crescenti (in quel caso 6, 12 e 18 per cento) soprattutto al fine di salvaguardare la posizione dei già citati lavoratori esodati trattavasi peraltro di una misura contenuta in un triennio (2014/2016).

Non senza considerare che, per quanto vero sia che nel nostro sistema costituzionale non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, dette disposizioni non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica che costituisce elemento fondamentale ed indispensabile dello Stato di diritto; pertanto non potrebbe dirsi consentita una modificazione legislativa che, intervenendo in una fase avanzata del rapporto di lavoro, ovvero quando addirittura è subentrato lo stato di quiescenza, peggiorasse senza una inderogabile esigenza, in misura notevole e in maniera definitiva un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con la conseguente, irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività (Corte cost., sentenza n. 349 del 1985).

Ebbene, ad avviso del giudicante tutte le condizioni sopra indicate e scolpite dalla stessa giurisprudenza costituzionale non sono ravvisabili in relazione al prelievo disposto dai commi 261 ss, dell'art. 1, legge n. 145/18.

 Si è già accennato al paragrafo precedente al fatto che in nessuno degli atti parlamentari tale misura venga in qualche modo giustificata dalla necessità di garantire la stabilità del sistema previdenziale ovvero tutelare le fasce più deboli dei pensionati, come reso evidente dalla destinazione degli importi trattenuti ad un Fondo che, pur essendo gestito presso Inps, non è vincolato nei fini e, all'esito della conferenza di servizi, ben potrebbe essere acquisito al bilancio dello Stato.

La misura, inoltre, seppur incida sulle pensioni più elevate (fissando inoltre una soglia minima del trattamento ridotto a 100.000 euro) e preservi quelle liquidate con il solo sistema contributivo, presenta un sistema di aliquote all'interno di determinati scaglioni, innegabilmente elevate ed idonee ad incidere in misura rilevante e significativa sui trattamenti pensionistici.

Inoltre, sproporzionata, irragionevole e al limite della abnormità appare la durata fissata in cinque anni, benché l'ordinaria programmazione del bilancio sia fissata in un periodo di tre anni (articoli 10 e 21, legge n. 196/2009), senza che legislatore abbia minimamente dato conto delle ragioni che giustificherebbero una misura temporale tanto afflittiva, senza dubbio idonea a divenire definitiva per quei pensionati in età avanzata e con minor aspettativa di vita.

Infine, risulta altresì violato il principio di proporzionalità di cui all'art. 36 Cost.

In proposito è noto che tale ultima disposizione si aggancia all'art. 38 Cost. ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale (Corte cost. n. 173/2016); salvo che resta pur sempre la necessità che il legislatore tenga conto della quantità e qualità del lavoro svolto nella vita attiva dal pensionato, assumendo pur sempre il trattamento pensionistico funzione sostitutiva del cessato reddito da lavoro.

Ebbene, non è francamente dato comprendere in forza di quale criterio il legislatore abbia individuato le elevatissime aliquote di riduzione delle pensioni liquidate con il metodo retributivo o misto.

Ciò soprattutto se si considera che anche per tali trattamenti di quiescenza il pensionato ha versato durante la propria vita lavorativa la relativa contribuzione, in relazione alla quale sarebbe stato ragionevole pretendere che venisse giustificata la scelta di individuare così elevate aliquote di riduzione quantomeno avendo riguardo a quale sarebbe stato il trattamento pensionistico ove mai liquidato con il solo metodo contributivo, tanto più in relazione al fatto che le pensioni liquidate con il sistema retributivo e in parte quelle liquidate con il sistema misto non soggiacciono o soggiacciono solo parzialmente alla limitazione del massimale contributivo.

Per contro, è stata unicamente disposta una clausola di salvaguardia con la previsione di un limite fissato in euro 100.000 al di sotto dei quali non è consentita la riduzione della pensione.

La misura in commento, quindi, si palesa come irragionevole sia internamente considerata sia in relazione alla disposta esenzione dalla riduzione per i titolari di trattamento liquidato con il solo sistema contributivo, in quanto la scelta legislativa non consente di comprendere se e in che misura il fatto di essere titolari di pensione liquidata con il solo trattamento contributivo giustificasse la disparità di trattamento.

Pertanto, appare palese la violazione dei canoni costituzionali in commento.

Violazione articoli 117 Costituzione e 1 Protocollo n. 1 CEDU.

Ad avviso del remittente nel caso di specie è altresì ravvisabile la violazione degli articoli 117 Cost. e 1 Protocollo 1 CEDU.

In proposito si osserva innanzitutto che è ormai pacifico che:

il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli «obblighi internazionali» che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel casa specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui finzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato;

la CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'ironia, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l'art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47». Poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danna gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia;

anche le norme CEDU devono essere rispettose delle disposizioni costituzionali per la necessaria tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione (Corte cost., sentenza n. 348/2007).

Tanto premesso, ai sensi dell'art. 1 del Protocollo n. «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritta internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»

Nell'interpretare tale disposizione la Corte EDU ha statuito che:

54. La Corte ribadisce che, secondo la propria giurisprudenza, un ricorrente può lamentare una violazione dell'art. 1 del Protocollo n. 1 solo se le decisioni da lui contestate si riferiscono ai suoi «beni» così come definiti in tale disposizione. Il concetto di «beni» può comprendere tanto i «beni attuali» quanto i valori patrimoniali, ivi inclusi, in alcune situazioni ben definite, i crediti. Perché un credito possa essere considerato un «valore patrimoniale», rientrante nel campo di applicazione dell'art. 1 del Protocollo n. 1, il titolare del credito deve dimostrare che esso ha sufficiente fondamento nel diritto interno, ad esempio che è confermato da una consolidata giurisprudenza dei tribunali nazionali. Una volta dimostrato ciò, può entrare in gioco il concetto di «legittima aspettativa» (si veda Maurice c. Francia [GC], n. 11810/03, § 63, CEDU 2005 IX).

55. L'art. 1 del Protocollo n. 1 non garantisce, di per sé, alcun diritto di diventare proprietario di un bene (si vedano Van der Mussele c. Belgio, 23 novembre 7983, § 48, Serie A n. 70; Slivenko e. Lettonia (dec.) [GC], n. 48321/99, § 121, CEDU 2002-II; e Kopeckỳ c. Slovacchia [GC], n. 44912/98, j 35 (b), CEDU 2004-IX). Né garantisce, in quanto tale, il diritto a una pensione di un determinato importo (si vedano, a titolo esemplificativo, Kjartan Asmundsson e. Islanda, n. 60669/00, § 39, CEDU 2004-IX; Domalewski c. Polonia (dec.), n. 34610/97, CEDU 1999-V; e Janković e. Croazia (dec.), n. 43440/98, CEDU 2000-X). Parimenti, non garantisce neppure il diritta di ricevere una pensione per le attività prestate in uno Stato diverso dallo Stato convenuto (si veda L.B. c. Austria (dec.), n. 39802/98, 18 aprile 2002). Tuttavia, un «credito» relativo ad una pensione però costituire un «valore patrimoniale» ai sensi dell'art. 1 del Protocollo n. 1, laddove esso abbia sufficiente fondamento nel diritto interno, ad esempio sia stato confermato da una sentenza definitiva (si vedano Pravednaya c. Russia, n. 69529/01, §§ 37-39, 18 novembre 2004; e Bulgakova, sopra citata, § 31).

56. La Corte ricorda che l'art. 1 del Protocollo n. 1 contiene l'enunciazione di tre norme distinte: «la prima, espressa nella prima frase del primo comma, riveste un carattere generale ed enuncia il principio del pieno godimento della proprietà; la seconda, che figura nella seconda frase dello stesso comma, concerne la privazione della proprietà e la assoggetta a determinate condizioni; la terza, espressa nel secondo colma, riconosce agli Stati contraenti il diritto, tra gli altri, di disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale. Le tre norme, tuttavia, non sono «distinte» nel senso che non sono in rapporto tra loro. La seconda e la terza riguardano casi particolari di violazione del diritto al pieno godimento della proprietà, e dovrebbero pertanto interpretarsi alla luce del principio generale enunciato nella prima» (si vedano, tra le altre, James e altri c. Regno Unito, 21 febbraio 1986, § 37, Serie A n. 98; Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, § 55, CEDU 1999-II; e Beyeler c. Italia [GC], 11. 33202/96, § 98, CEDU 2000-I).

57. Condizione essenziale affinché un'ingerenza sia considerata compatibile con l'art. 1 del Protocollo n. 1 è che essa sia legittima. Qualsiasi ingerenza di un'autorità pubblica nel pieno godimento della proprietà può essere giustificata unicamente se risponde ad un interesse pubblico (o generale). In linea di massima le autorità nazionali, grazie ad una conoscenza diretta della loro società e dei bisogni della stessa, possono stabilire cosa rientri «nel pubblico interesse» meglio del giudice internazionale. Di conseguenza, nel sistema di tutela creato dalla Convenzione, spetta ad esse pronunciarsi per prime sull'esistenza di un problema di interesse generale, che giustifichi l'adozione di misure che interferiscono con il pieno godimento della proprietà (si vedano Terazzi S.r.l. c. Italia, n. 27265/95, § 85, 17 ottobre 2002, e Wieczorek c. Polonia, n. 18176/05, § 59, 8 dicembre 2009). L'art. 1 del Protocollo n. 1 richiede altresì che ogni ingerenza debba essere ragionevolmente proporzionata al fine perseguito (si veda Jahn e altri c. Germania [GC], nn. 46720/99, 72203/01 e 72552/01, §§ 81-94, CEDU 2005-VI). Il requisito del giusto equilibrio non è rispettato se la persona interessata deve sostenere un onere individuale eccessivo (si veda Sporrong e Lӧnnroth c. Svezia, 23 settembre 1982, §§ 69-74, Sede A n. 52).

58. Laddove l'importo di un beneficio sia ridotto o sospeso, ciò può costituire un'ingerenza nella proprietà, che deve essere giustificata (si vedano Kjartan Asmundsson, sopra citata, § 40, e Rasmussen c. Polonia, n. 38886/05, § 71, 28 aprile 2009) - (Corte Edu, causa Maggio e altri c. Italia, ricorsi nn. 46286/09, 5285/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08) - (causa Causa Maggio e altri c. Italia (ricorsi nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08)).

Di conseguenza anche un «credito» relativo ad una pensione può costituire un «valore patrimoniale», la cui riduzione (e la correlata interferenza nei suo pieno godimento da parte dello Stato nazionale) può essere giustificata nella misura in cui sussista un interesse pubblico e a fronte di un intervento ragionevolmente proporzionato al fine perseguito.

Occorre pertanto verificare se il legislatore abbia effettivamente garantito il giusto equilibrio tra l'interesse generale e quello di salvaguardia dei diritti dell'individuo.

In proposito la Corte EDU ha precisato che tale valutazione è innanzitutto di pertinenza del legislatore nazionale, cui spetta l'esame della pubblica utilità di una disposizione alla luce di questioni di ordine politico, economico e sociale; ove l'intervento sia finalizzato a garantire un equilibrio di bilancio, preservare i livelli minimi delle prestazioni sociali e la sopravvivenza del sistema previdenziale, eventualmente dell'ambito di una situazione finanziaria critica ed esposta anche a procedure di infrazione della Commissione Europea, può ritenersi legittimo (sentenza resa nelle cause nn. 27166/18 e 27167/18, Aielli e altri contro Italia e Arboit e altri contro Italia, paragrafi 26-29).

Tale ultimo provvedimento (reso su ricorso di pensionati a seguito delle note vicende determinatesi in forza della sentenza n. 70/15 della Corte costituzionale che dichiarava incostituzionale l'art. 24, comma 25, DL 201/11 cui seguiva l'adozione del decreto-legge n. 65/15) richiama poi - quanto al requisito della proporzionalità dell'intervento necessariamente finalizzato a garantire il giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dei singoli - la necessità che l'intervento non abbia comunque un impatto significativo sulle pensioni (tanto da evidenziare che nel caso all'epoca oggetto di esame non incidesse sul trattamento pensionistico ma solo sul meccanismo di adeguamento al costo della vita) (paragrafi 32-36).

Ed allora, risulta evidente, ad avviso del giudicante, che nel caso di specie difettino tutti i requisiti per ritenere che la disposizione oggetto di censura sia rispettosa dell'art. 1 del Protocollo 1 CEDU per come interpretata dalla Corte EDU.

A tale riguardo, si richiamano innanzitutto le ampie motivazioni di cui ai paragrafi precedenti circa l'assenza, anche negli atti preparatori, di ragioni di interesse pubblico e generale ovvero di salvaguardia del sistema previdenziale poste alla base dell'intervento legislativo oggetto di scrutinio di costituzionalità.

L'intervento, poi, non è rispettoso del principio di proporzionalità dell'ingerenza per come sopra individuata.

Da un lato, in quanto incide direttamente sul trattamento pensionistico e non solo su una misura ad esso accessoria e, dall'altro lato, come già detto in precedenza, per l'elevata misura delle aliquote applicate e l'abnorme durata quinquennale, all'evidenza lesive del pieno godimento della proprietà per come definita dalla Corte EDU.

Violazione articoli 3, 36 e 38 Cost. in relazione all'art. 1, comma 260, legge n. 145/18.

Un altro profilo di incostituzionalità rilevante del presente giudizio concerne la previsione della limitazione della perequazione disposta dall'art. 1, comma 260, legge n. 145/18, che, per il periodo 2019/2021, ha espressamente previsto che la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici disciplinata dall'art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, sia riconosciuta, per quanto di interesse, nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a nove volte il trattamento minimo INPS.

I profili di criticità di tale disposizione devono essere necessariamente considerati sia per l'impatto che di per sé comportano sul trattamento pensionistico sia in relazione al prelievo di cui si è già discusso ai paragrafi precedenti.

Ciò in quanto, a tale ultimo proposito, appare evidente che se già il prelievo sui trattamenti pensionistici è da ritenersi irrispettoso dei canoni costituzionali di ragionevolezza, adeguatezza e proporzione, anche alla luce della sua significativa durata, a maggior ragione tali profili di censura devono ritenersi ravvisabili ove considerati alla luce dell'ulteriore pregiudizio comportato dal parziale blocco della perequazione.

Il sacrificio richiesto dal legislatore, difatti, considerati altresì i blocchi o le limitazioni della perequazione di cui anche l'odierno ricorrente è stato destinatario (ci si riferisce alla previsione di cui all'art. 1, comma 25, D.L. 201/2011 come modificato dalla legge n. 65/15 e ritenuto costituzionalmente legittimo dalla nota sentenza 250/17) non appare giustificato e ragionevole.

Senza voler ripetere le ampie argomentazioni di cui ai paragrafi precedenti cui si rimanda, sia sufficiente evidenziare che un pensionato quale il ricorrente si trova ad aver subito un blocco totale della perequazione per il biennio 2012/2013, oltre che una misura limitata al 40% per quanto previsto dall'art. 1, comma 483, legge n. 14/2013 per il triennio 2014/2016, poi estesa anche per il biennio 2017/2018 dall'articolo 1, comma 286, legge n. 208/15.

Ebbene, è difficilmente revocabile in dubbio che tutte le disposizioni in commento, rispetto alle quali è necessario ribadite l'assenza di ragioni che ne giustifichino l'adozione da parte del legislatore (tanto negli atti parlamentari di cui si è sopra dato conto che nella stessa previsione normativa), comportano un evidente pregiudizio per l'affidamento dei pensionati, senza che lo stesso risulti giustificato da situazioni di emergenza, di tutela della tenuta del sistema previdenziale o delle fasce più deboli di pensionati.

La limitazione della perequazione è comunque da ritenersi costituzionalmente illegittima anche da sola considerata.

E' noto, anche in forza dell'ampio contenzioso che negli ultimi anni si è venuto a creare, che la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici costituisce uno strumento tecnico teso a salvaguardare le pensioni dall'erosione del potere di acquisto causata dall'inflazione, anche dopo il collocamento a riposo con il fine di assicurare il rispetto nel tempo dei principi di adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti di quiescenza (Corte cost., n. 70/2015).

Trattasi nel dettaglio di disposizione ispirata al principio di solidarietà sotteso alla previsione dell'art. 38 Cost. rispetto alla quale il legislatore, nell'esercizio della propria discrezionalità, ove intenda bloccare o comunque limitare la perequazione, è comunque chiamato a bilanciare secondo criteri non irragionevoli, i valori egli interessi costituzionali coinvolti, che ben potrebbero anche riguardare necessità di contenimento della spesa sempre nel rispetto del divieto di comprimere le esigenze di vita cui precedentemente era commisurata la prestazione previdenziale (così Corte cost. n. 240 del 1994).

In tutte le pronunce della Consulta è sempre stata valorizzata la necessità che il pregiudizio all'interesse dei pensionati a preservare il potere di acquisto dei trattamenti previdenziali possa essere sacrificato sull'altare delle esigenze finanziarie e di equilibrio di bilancio dello Stato nel rispetto del principio di ragionevolezza, declinato anche sotto il profilo della necessaria trasparenza della scelta legislativa che dia adeguatamente conto delle ragioni dell'intervento.

In tal senso il principio di ragionevolezza rappresenta il cardine intorno a cui devono ruotare le scelte del legislatore della materia pensionistica e assurge, per questa sua centralità, a principio di sistema e allorquando l'intervento del legislatore sia finalizzato a risparmi di spesa questi ultimi devono essere accuratamente motivati, il che significa sostenuti da valutazioni della situazione finanziaria basale su dati oggettivi (così da ultimo Corte cost., n. 250/2017).

Tanto più se si considera che, come noto, il blocco o comunque la limitazione della perequazione hanno comunque natura definitiva, atteso che, ove anche successivamente ripristinata la rivalutazione nella sua pienezza, lo sarebbe solo sull'importo nominale del trattamento pensionistico eroso dal mancato adeguamento.

Ebbene, gli atti parlamentari di cui si è già dato ampiamente conto ai paragrafi precedenti (ovvero la Nota di lettura del serio del bilancio della Camera dei Deputati e il Dossier del servizio studi su modifiche del Senato) non consentono all'interprete di comprendere quale sia la motivazione alla base dell'intervento in commento.

Nella Nota di lettura del servizio del bilancio della Camera dei Deputati, difatti, tutti gli interventi in ambito pensionistico sono unicamente valorizzati al fine di evidenziare il previsto maggior gettito per il bilancio dello Stato.

Nella sezione del Dossier del servizio studi su modifiche del Senato specificamente dedicata alla tematica della perequazione automatica è possibile rinvenire unicamente una ricostruzione della normativa e giurisprudenza costituzionale in materia senza che vengano minimamente declamate le ragioni poste alla base dell'intervento.

Il legislatore è quindi venuto meno al rispetto dei canoni fissati dalla giurisprudenza costituzionale, senza quindi rendere evidenti e comprensibili le ragioni delle scelte adottate e qui censurate, che risultano quindi non rispettose dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità a fondamento degli artt. 3, 36 e 38 Cost.

Per quanto detto va sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 260 e 261, della legge n. 145/2018 attesa, da un lato, la evidente rilevanza della questione al fine del decidere nonché la non manifesta infondatezza della questione stessa (per violazione dei parametri costituzionali sopra indicati) e l'impossibilità di una interpretazione costituzionalmente conforme.

Visto l'art. 23, legge n. 87/1953.

 

P.Q.M.

 

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale:

1) dell'art. 1, comma 260, legge n. 145/2018, per contrasto con gli articoli 3, 36 e 38 Cost., nella parte in cui per il periodo 2019/2021 riconosce la rivalutazione automatica delle pensioni superiori a nove volte il trattamento minimo nella misura del 40%;

2) dell'art. 1, comma 261, legge n. 145/2018, per contrasto con gli articoli 3, 23, 36, 38, 53 Cost. e con l'art. 117 Cost. in relazione all'art. 1 Protocollo n. 1 CEDU, nella parte in cui dispone un'aliquota di riduzione del trattamento pensionistico pari al quindici per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 130.000 euro, pari al 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro fino a 200.000 euro, pari al 30 per cento per la parte eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, pari al 35 per cento per la parte eccedente 350.000 euro fino a 500.000 euro e pari al 40 per cento per la parte eccedente 500.000 euro;

dispone la sospensione del presente giudizio;

ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, con gli atti e con la prova delle notificazioni e delle comunicazioni di cui all'art. 23, legge n. 87 dell'11 marzo 1953 (come prescritto dagli articoli 1 e 2 del regolamento della Corte costituzionale 16 marzo 1956);

ordina alla Cancelleria che la presente ordinanza venga notificata alle parti del presente giudizio, al Presidente del Consiglio dei ministri nonché al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei Deputati.

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 27 maggio 2020, n. 22