Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 30 maggio 2016, n. 11130
Licenziamento disciplinare - Dirigente medico - Rilascio del certificato medico per l'autorizzazione al rilascio/rinnovo di porto d'armi - Sproporzione tra fatto contestato e sanzione
Svolgimento del processo
1. - Con sentenza del 22 febbraio 2013 la Corte di Appello di Firenze ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto dal dott. P.A.C. nei confronti della ASL n. 4 di Prato di impugnativa del licenziamento disciplinare allo stesso comunicato in data 18 marzo 2009 per aver rilasciato un certificato medico per l'autorizzazione al rilascio/rinnovo di porto d'armi il 13 luglio 2007.
Innanzitutto la Corte territoriale ha negato che l'attività contestata potesse essere svolta dal dirigente medico, pur autorizzato all'attività libero professionale, così interpretando l'art. 3 del D.M. 28 aprile 1998 disciplinante la materia, in base al quale gli accertamenti psico-fisici possono essere certificati "dagli uffici medicolegali o dai distretti sanitari delle unità sanitarie locali o dalle strutture sanitarie militari e della polizia di stato", con diniego impugnabile mediante ricorso ad un "Collegio medico costituito presso la USL".
Poi, ricostruendo la vicenda sulla base della documentazione acquisita, ha escluso che detta attività potesse essere stata svolta dal C. nel convincimento della sua liceità ovvero di un atteggiamento datoriale tollerante, per cui tale condotta si qualificava "per la sua consapevole difformità al disposto normativo ed alle coerenti disposizioni datoriali".
Infine, circa la sproporzione della sanzione espulsiva, la Corte ha giudicato il motivo d'impugnazione "inammissibile perché nulla dice rispetto alla motivazione del Tribunale che ha riscontrato l'inesistenza di sanzioni alternative al licenziamento".
2. - Per la cassazione di tale sentenza il soccombente ha proposto ricorso affidato a dieci motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.
L'Azienda USL n. 4 di Prato ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
3. - I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati:
violazione ed errata interpretazione del D.M. 28/4/1998, anche a mente dell'art. 12 delle preleggi, in quanto l'art. 3, comma 1, del decreto citato, riferendosi agli "uffici medico legali" tra le strutture abilitate al rilascio delle certificazioni per l'accertamento dell'idoneità psico-fisica ai porto d'armi, comprenderebbe anche gli ambulatori privati dei medici abilitati (primo motivo);
omesso esame circa un fatto decisivo rappresentato dall'omessa adozione di sanzioni disciplinari in esito alla contestazione di addebito del 12 settembre 2001, con incidenza sull'incolpevole affidamento del medico circa la liceità della sua condotta (secondo motivo);
omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio rappresentati dall'omesso esame dell'oggetto della diffida nella nota prot. n. 744 del 2 agosto 2006 e del complessivo contenuto della nota prot. n. 498 del 10 maggio 2006 e loro incidenza sull'incolpevole affidamento del lavoratore in ordine alla liceità della sua condotta (terzo motivo);
violazione dell'art. 2119 c.c., dell'art. 36 CCNL dell'Area della dirigenza medico-veterinaria del 5 dicembre 1996, degli artt. 1175 e 1375 c.c. nonché omessa valutazione della lesione del vincolo fiduciario e della sussistenza di un affidamento incolpevole, con conseguente ingiustificatezza del recesso; si sostiene che la Corte di Appello non avrebbe compiuto alcuna indagine in ordine alla lesione o meno del vincolo fiduciario, tale da integrare la giusta causa di licenziamento, ed avrebbe altresì omesso di considerare la tolleranza dimostrata per tanti anni dall'Azienda che aveva determinato il formarsi per lo stesso di un affidamento incolpevole (quarto motivo);
omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio rappresentati dalla documentazione versata in atti dalla quale si evinceva che l'attività dì rilascio di certificati medici di idoneità era consentita in numerosi ambulatori privati sparsi sul territorio nazionale (quinto motivo);
omesso esame circa un fatto decisivo rappresentato dalla mancanza di lesione del vincolo fiduciario e dell'estraneità della condotta al rapporto lavorativo con l'azienda (sesto motivo);
violazione dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 36 CCNL dell'Area della dirigenza medico-veterinaria del 5 dicembre 1996, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., sotto il profilo dell'insussistenza di giustificazione del licenziamento per sproporzione tra fatto contestato e sanzione (settimo motivo);
violazione dell'art. 434 c.p.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per avere la sentenza impugnata dichiarato inammissibile il motivo d'impugnazione relativo alla sproporzione tra fatto contestato e sanzione del licenziamento (ottavo motivo);
violazione dell'art. 112 c.p.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per omessa pronuncia sull'eccezione di sproporzione tra fatto contestato e sanzione irrogata (nono motivo);
omesso esame dell'eccezione di sproporzione tra fatto contestato e sanzione irrogata, quale fatto oggetto di discussione fra le parti e rilevante ai fini della decisione impugnata, a mente dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (decimo motivo).
4. - Con la prima censura si denuncia violazione ed errata interpretazione del D.M. 28 aprile 1998, anche a mente dell'art. 12 delle preleggi, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, l'art. 3, comma 1, del decreto citato, indicando gli "uffici medico legali" tra le strutture abilitate al rilascio delle certificazioni per l'accertamento dell'idoneità psico-fisica al porto d'armi, si riferirebbe anche agli "ambulatori dei dottori che, come il dott. C., esercitano la professione medica in regime extra moenia".
L'assunto non può essere condiviso.
Con il decreto citato il Ministro della Sanità ha disciplinato "i requisiti psicofisici minimi per il rilascio ed il rinnovo dell'autorizzazione al porto di fucile per uso di caccia e al porto d'armi per uso difesa personale", sia "sotto il profilo tecnico-scientifico che medico-legale e tecnico-procedurale" al fine di apportare "opportune modifiche" al precedente testo del 14 settembre 1994.
L'art. 3 del decreto, di cui è controversa l'interpretazione, stabilisce: "L'accertamento dei requisiti psicofisici è effettuato dagli uffici medico-legali o dai distretti sanitari delle unità sanitarie locali o dalle strutture sanitarie militari e della Polizia di Stato. Il richiedente, sottoponendosi agli accertamenti, è tenuto a presentare un certificato anamnestico, da compilarsi secondo il modello di cui all’allegato 1), rilasciato dal medico di fiducia di cui all'art. 25 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, di data non anteriore a tre mesi. Il medico certificatore prescriverà tutti gli ulteriori specifici accertamenti che riterrà necessari, da effettuarsi presso strutture sanitarie pubbliche. Il certificato, da compilarsi secondo il modello di cui all’allegato 2), viene consegnato all'interessato. Il giudizio di non idoneità deve essere comunicato entro cinque giorni all'autorità di pubblica sicurezza competente per territorio di residenza anagrafica dell'interessato".
L'art. 4 dello stesso decreto aggiunge poi che "avverso il giudizio negativo l'interessato può, nei termine di trenta giorni, proporre ricorso ad un collegio medico costituito presso l'U.S.L. competente, di norma a livello provinciale, composto da almeno tre medici, pubblici dipendenti, di cui uno specialista in medicina legale delle assicurazioni, ed integrato di volta in volta da specialisti nelle patologie inerenti al caso specifico. L'esito del ricorso viene comunicato entro cinque giorni all'interessato ed alla competente struttura di pubblica sicurezza".
La procedura, dunque, prevede una prima certificazione, di natura anamnestica, rilasciata dal "medico di fiducia".
L'accertamento poi dei requisiti psicofisici viene effettuato "dagli uffici medico-legali o dai distretti sanitari delle unità sanitarie locali o dalle strutture sanitarie militari e della Polizia di Stato" tramite un "medico certificatore" appartenente a tali strutture che rilascia l'attestato di idoneità (o di non idoneità) secondo le forme e i contenuti di un modello predefinito.
Orbene, dal punto di vista letterale, il riferimento ad "uffici medico-legali" esclude che possano considerarsi tali gli ambulatori privati di singoli medici che esercitino ivi la loro attività professionale. Deve trattarsi invece di "uffici" pubblici come è reso manifesto dalle altre strutture abilitate, inserite anch'esse nell'ambito degli apparati di una pubblica amministrazione.
Tale interpretazione è coerente con la ratio e con l'impianto sistematico della disciplina in esame che, per ovvie ragioni legate alla delicatezza della funzione esercitata, è intrisa di cadenze procedimentali pubblicistiche che vanno, appunto, dal luogo "pubblico" in cui viene effettuato l'accertamento del requisito alla veste che deve conseguentemente avere il "medico certificatore", dalla necessità di avvalersi di "strutture sanitarie pubbliche" per effettuare gli accertamenti medici necessari alle comunicazioni degli esiti alle "autorità di pubblica sicurezza", sino al giudizio finale che, avverso l'eventuale attestato negativo, è demandato ad un "collegio medico costituito presso l’U.S.L. competente, di norma a livello provinciale, composto da almeno tre medici, pubblici dipendenti", con individuate specializzazioni.
L'esegesi accolta è confortata anche dal fatto che la precedente formulazione del decreto, risalente al 14 settembre 1994, oltre alle strutture pubbliche indicate pure nel D.M. 28 aprile 1998, stabiliva che l'accertamento potesse essere effettuato "da singoli medici del ruolo professionale dei sanitari della Polizia di Stato o da medici militari in servizio permanente ed in attività di servizio"; tale inciso è stato soppresso dal successivo D.N. con ciò confermando la volontà del Ministro decretante di escludere che l'accertamento in parola potesse essere effettuato "da singoli medici" al di fuori delle strutture abilitate, anche ove appartenenti a ben definiti ruoli professionali astrattamente idonei a garantire l'obiettività del giudizio.
Naturalmente la dichiarata eventuale esistenza di prassi difformi non ha alcuna influenza sull'interpretazione della norma scrutinata, per cui, sulla base delle esposte argomentazioni, il mezzo di gravame deve essere respinto.
5. - Possono essere esaminati congiuntamente il secondo, il terzo ed il quinto motivo di ricorso, in quanto censurano tutti il convincimento espresso dai giudici del merito circa la consapevolezza del C. di svolgere una attività, oggetto di addebito, in "difformità al disposto normativo ed alle coerenti disposizioni datoriali". Le doglianze sono formulate sotto forma di omesso esame di fatti decisivi, di volta in volta rappresentati dalla mancata adozione di sanzioni disciplinari in esito alla contestazione di addebito del 12 settembre 2001 (secondo motivo), dall'omesso esame dell'oggetto della diffida nella nota prot. n. 744 del 2 agosto 2006 e del complessivo contenuto della nota prot. n. 498 del 10 maggio 2006 (terzo motivo), ovvero dalla circostanza che l'attività di rilascio di certificati medici di idoneità era consentita in numerosi ambulatori privati sparsi sul territorio nazionale (quinto motivo).
Orbene non c'è dubbio che l'accertamento circa la consapevolezza o meno da parte del C. di svolgere un'attività consentita o vietata costituisce certo una quaestio facti affidata alla valutazione dei giudici del merito.
Poiché la sentenza della Corte territoriale risulta depositata in data 22 febbraio 2013, si applica il punto n. 5) dell'art. 360, co. 1, c.p.c., nella versione di testo introdotta dall'art. 54, co. l, lett. b), d.l. n. 83 del 2012, conv. con modificazioni in L. n. 134 del 2012, la quale consente il ricorso per cassazione solo per "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
Le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014) hanno espresso su tale norma i seguenti principi di diritto: a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 disp. prel. cod. civ., come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l'anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di "sufficienza", nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili", nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile"; b) il nuovo testo introduce nell'ordinamento un vizio specifico che concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), c. p. c. e 369, secondo comma, n. 4), c. p. c. - il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui ne risulti l'esistenza, il "come" e il "quando" (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la "decisività" del fatto stesso.
I motivi in esame risultano sicuramente inadeguati rispetto all'osservanza di tali enunciati, peraltro individuando un insieme di fatti tutti ritenuti decisivi che invece, anche per la loro pluralità, non sono affatto idonei a garantire che, ove adeguatamente valutati secondo le aspettative di parte ricorrente, avrebbero determinato, certamente e non solo probabilmente, un esito del giudizio diverso.
All'evidenza si tratta di censure di merito non accoglibili in quanto attengono alla ricostruzione della vicenda storica quale effettuata dalla Corte di Appello ed alla valutazione de! materiale probatorio operata dalla medesima, traducendosi nella sostanza in un diverso convincimento rispetto a quello espresso dai giudici del merito, trascurandosi che, ove il ricorrente denunci per cassazione l'insufficiente giustificazione logica dell’apprezzamento dei fatti della controversia o delle prove, non può limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, pur in possibile o probabile corrispondenza alla realtà fattuale, poiché è necessario che tale spiegazione logica alternativa appaia come l'unica possibile (da ultimo: Cass. n. 25927 del 2015).
6. - Soffrono della medesima inadeguatezza rispetto alla novellata formulazione dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. sia il quarto che il sesto motivo di ricorso.
Il primo di essi, sebbene sotto la veste formale della violazione di norme di legge o di contratto, ancora invoca, come i precedenti già scrutinati, l'affidamento incolpevole del medico; inoltre lamenta l'omessa valutazione da parte della Corte territoriale della lesione del vincolo fiduciario. Tale omesso esame della mancanza di lesione del vincolo fiduciario, unitamente all'estraneità della condotta addebitata al rapporto di lavoro con l'azienda, è poi denunciato con il sesto motivo proprio ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.
Entrambi i motivi, dunque, nella parte in cui prospettano vizi di motivazione della sentenza impugnata per omesso esame di fatti ritenuti decisivi risultano largamente inosservanti dei principi di diritto di cui a Cass., SS.UU. n. 8053 del 2014 innanzi citati.
Inoltre la questione della lesione del vincolo fiduciario per pretesa estraneità della condotta addebitata al rapporto di lavoro non risulta espressamente affrontata nella sentenza impugnata che, nel riportarle i motivi di appello del C., non la cita, evidentemente in proposito confermando, pur implicitamente, il giudizio già espresso dal giudice di prime cure.
Come noto poi, secondo giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte, qualora una determinata questione non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. SS. UU. n. 2399 del 2014; Cass. n. 2730 del 2012; Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 25546 del 2006; Cass. n. 3664 del 2006; Cass. n. 6542 del 2004).
Parte ricorrente si limita a riportare a pag. 62 del ricorso un passaggio dell'atto di appello il cui contenuto, però, non è idoneo a documentare uno specifico motivo di impugnazione avverso la decisione di prime cure sul punto, che peraltro non viene neanche riprodotta nel motivo, sicché dagli scarni dati processuali offerti non è dato sapere se la questione sia stata ed in che termini effettivamente devoluta alla cognizione del giudice di secondo grado.
Alla stregua delle considerazioni esposte, anche tali doglianze, quindi, non possono trovare accoglimento.
7. - I motivi residui riguardano tutti il capo della sentenza impugnata che ha dichiarato inammissibile il motivo di appello relativo alla denunciata sproprorzione della sanzione espulsiva "perché nulla dice rispetto alla motivazione del Tribunale che ha riscontrato l'inesistenza di sanzioni alternative al licenziamento".
Sia il settimo motivo, che denuncia violazione di legge sotto il profilo della sproporzione tra fatto contestato e sanzione, sia il decimo, che lamenta l'omesso esame della stessa sproporzione ai sensi dell'art. 360, co. 1, n, 5, c.p.c., sono inconferenti rispetto al decisum perché la Corte distrettuale non è proprio entrata nel merito della questione avendo dichiarato inammissibile in rito il motivo di gravame.
Il nono mezzo di impugnazione, con il quale si eccepisce violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sull'eccezione di sproporzione tra fatto contestato e sanzione irrogata, è chiaramente infondato perché la Corte fiorentina sul punto si è pronunciata, sebbene con una declaratoria di inammissibilità del motivo di appello.
Quanto all'ottava censura con cui si denuncia appunto la violazione dell'art. 434 c.p.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per error in procedendo avendo la sentenza impugnata dichiarato inammissibile il motivo d'impugnazione è sufficiente rilevare che i passaggi dell'atto di appello riportati nel corpo del motivo non contengono alcuna specifica critica alla sentenza di primo grado; si limitano infatti a ribadire che "una sanzione espulsiva comminata per il rilascio di un unico certificato appare francamente del tutto sproporzionata" e che il C. sarebbe stato licenziato "per aver compiuto un'attività che in molte ASL del territorio nazionale nonché presso armerie, scuole guida, ecc. viene esercitata senza contestazioni di sorta".
Pertanto questa Corte, giudice del fatto processuale ed Indipendentemente dalla motivazione spesa dalla sentenza impugnata (v. per tutte Cass. n. 18 del 2015), deve confermare la statuizione di inammissibilità di un motivo dì appello così concepito, in violazione dell'art. 434 c.p.c. che, nella formulazione prò tempore vigente ed anche prima della novella apportata dal d.l. n. 83 del 2012, conv. in I. n. 134 del 2012, comunque prescriveva che "il ricorso deve contenere l'esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell'impugnazione, nonché le indicazioni prescritte dall'art. 414".
E’ noto che sulla norma, la cui formulazione era apparsa subito come una sostanziale inversione di tendenza rispetto all'ampiezza delineata dal codice civile del 1865 nella realizzazione dell'effetto devolutivo dell’appello, si è costruita una elaborazione giurisprudenziale di particolare rilievo, inaugurata, in modo particolare, da Cass. SS. UU. n. 4991 del 1987, e proseguita con numerose altre pronunce conformi, tutte accomunate dall'idea che l’atto di appello debba contenere argomentazioni idonee ad incrinare il fondamento logico-giuridico della decisione impugnata e che la conseguenza di tale omissione sia l'inammissibilità del gravame. Pur prescindendo da qualsiasi particolare rigore di forme, occorre comunque che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, ovvero che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano indicati, oltre ai punti e ai capi formulati, anche, seppure in forma succinta, le ragioni per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base dell'impugnazione, In modo tale che restino esattamente precisati il contenuto e la portata delle relative censure (tra le molte Cass. n. 6978 del 2013). Quindi, è inammissibile l’atto di appello che risulti totalmente avulso dalla censura di quanto affermato dal primo giudice e si limiti ad illustrare la tesi giuridica già esposta in primo grado. Questa Corte ha affermato in proposito che l'onere della specificazione dei motivi d'appello esige, ai sensi dell'art. 342 c.p.c. (e, nel rito del lavoro, del successivo art. 434), che la manifestazione volitiva dell’appellante, indirizzata ad ottenere la riforma della sentenza di primo grado, trovi un supporto argomentativo idoneo a contrastare la motivazione della pronuncia impugnata; e si è aggiunto che, dovendo ì motivi essere più o meno articolati a seconda della maggiore o minore specificità nel caso concreto di quella motivazione, qualora la sentenza di primo grado sia stata impugnata con riferimento a tutte le statuizioni emesse, le ragioni sulle quali si fonda il gravame debbono essere esposte in modo da contrapporre le argomentazioni dell’appellante a quelle svolte nella medesima sentenza per incrinarne il fondamento logico - giuridico (cfr. Cass. n. 11935 del 2002 e n. 10565 del 2002; conforme Cass. n. 18/2015 cit.)
Dunque il motivo di appello in esame, che non contiene alcun supporto argomentativi idoneo a contrastare la motivazione della sentenza gravata e che non contrappone adeguate argomentazioni a quelle svolte nella medesima, non si sottrae alla sanzione dell’inammissibilità già comminata dalla Corte territoriale.
8. - Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso per cassazione risulta proposto in data 22 agosto 2013 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, L. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori secondo legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.