Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 23 febbraio 2021, n. 6894

Impiego di lavoratori stranieri - Condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno - Retribuzione con paga oraria in palese difformità rispetto a quanto previsto dai vigenti contratti collettivi di lavoro - False buste paga recanti un ammontare di ore di lavoro non corrispondenti a quelle effettivamente prestate - Mancato rispetto della normativa in materia di sicurezza ed igiene nel luogo di lavoro - Persone già sentite dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero - Richieste notizie sulle domande formulate o sulle risposte date - Divieto assoluto per il difensore - Violazione del cd. "riserbo istruttori"

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con ordinanza di convalida di sequestro preventivo e contestuale decreto emesso in data 4/9/2020, il Gip del Tribunale di Brescia disponeva il sequestro preventivo dell’impianto di autolavaggio veicoli sito in via G. Mazzini a Rezzato (BS) gestito dalla società P.C. srl di cui l'odierno ricorrente I.S. è legale rappresentante.

Il sequestro era disposto in relazione al reato di cui all'art. 603 co. 1 e 2 nn. 1, 2 e 3 c.p.

In particolare, all’indagato veniva contestato di aver impiegato alle proprie dipendenze lavoratori stranieri sottoponendoli a condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno e retribuendoli con paga oraria compresa fra 1,67 e 5,51 euro, in palese difformità rispetto a quanto previsto dai vigenti contratti collettivi di lavoro, redigendo altresì falsa busta paga recanti un ammontare di ore di lavoro non corrispondenti a quelle effettivamente prestate.

Il fumus del reato contestato all'indagato era ritenuto dal Gip sulla scorta delle dichiarazioni rilasciate agli operanti dai lavoratori di origine pakistana A.I., J.A. e A.R., i quali riferivano di svolgere l'attività lavorativa presso l'autolavaggio sia al mattino che al pomeriggio, così come accertato dalle dirette osservazioni della Polizia Locale e con orari ampiamente superiori rispetto a quelli dichiarati in busta paga, percependo un salario non proporzionato al lavoro svolto (ad esempio, A. aveva dichiarato di lavorare 55 ore settimanali a fronte delle 15 dichiarate percependo 500 euro mensili, con una paga oraria di 2,94-5,15 euro, nettamente inferiore a quella prevista dai vigenti contratti collettivi. Tutti dichiaravano di aver accettato tali precarie condizioni di lavoro in quanto non avevano trovato altre soluzioni lavorative, di non essere stati sottoposti ad alcuna visita medica e di non essere in grado di comprendere il contenuto riportato in busta paga.

Dalla visura della società, inoltre, la stessa risultava avere alle proprie dipendenze sei lavoratori, quando in realtà, di fatto, erano impiegati soli tre dipendenti.

Il Gip evidenziava come la corresponsione di una retribuzione ben al di sotto dei limiti minimi previsti dalla contrattazione collettiva, l'obbligo di seguire un orario di lavoro estenuante e il mancato rispetto della normativa in materia di sicurezza ed igiene nel luogo di lavoro, consentissero di ritenere integrati i presupposti dello sfruttamento e dell'approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, tutti stranieri impossibilitati a trovare altre possibilità di impiego.

Quanto al periculum in mora, tenuto conto che tali modalità di lavoro erano sicuro indice di una prassi consolidata e che quindi la libera disponibilità dei beni aziendali avrebbe consentito al titolare di perpetrare il delitto in contestazione, contestualmente alla convalida, disponeva il sequestro preventivo sull'impianto di autolavaggio gestito dalla società dell'indagato.

Avverso siffatto provvedimento proponeva istanza di riesame la difesa dell'indagato I.S., ma in data 15/9/2020 il Tribunale del riesame di Brescia confermava il decreto di sequestro preventivo.

2. Ricorre I.S., a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:

Con un primo motivo deduce erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche in relazione alla affermata inutilizzabilità dei verbali di sommarie informazioni ex art. 391 bis cod. proc. pen. redatti dall’avv. S.S. - connessa violazione dei diritti di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., di difesa, sancito dall'art. 24 Cost. e della parità tra le parti processuali di cui all'art. 111 Cost.

Evidenzia il ricorrente che l'art. 391 bis, co. 4, cod. proc. pen. precisa che "alle persone già sentite dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero non possono essere richieste notizie sulle domande formulate o sulle risposte date". Detta norma, all'evidenza, non prevede un divieto assoluto per il difensore di sentire soggetti già ascoltati dal PM o dalla PG, ma si prefigge il diverso obbiettivo di evitare che il difensore, attraverso i testimoni, venga a conoscenza della direzione delle indagini, in violazione del cosiddetto "riserbo istruttorio".

Tale assunto è confermato dal Progetto di legge 2774 che ha gettato le basi dell'art. 11 della L. 7 dicembre 2000, n. 397 attraverso il quale è stato introdotto il Titolo VI bis al codice di procedura penale di cui si riporta il passo relativo alla disposizione di che trattasi: "In ogni caso, è fatto divieto al difensore di chiedere alla persona già sentita dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero di rivelare le domande formulate dalle predette autorità e le risposte rese, al fine di evitare che il colloquio si trasformi in uno strumento per indagare sulle strategie investigative del pubblico ministero e sullo sviluppo delle indagini (comma 3)".

Ciò premesso, per il ricorrente non può non evidenziarsi come, peraltro, la Polizia Locale di Rezzato in data 31/8/2020 abbia escusso lavoratori nell'ambito dell'attività di polizia amministrativa volta a verificare l'osservanza nei confronti del personale occupato, delle norme di tutela dei rapporti di lavoro e di legislazione sociale, nonché del rispetto delle norme igienico/sanitarie e non di polizia giudiziaria, come immediatamente evincibile sia in considerazione del fatto che gli stessi sono stati redatti nell'ambito di un controllo amministrativo, negli stessi non è stata specificata l'esistenza di indagini di polizia giudiziaria, i medesimi non sono stati redatti ai sensi dell'art. 351 cod. proc. pen., sia avuto riguardo alla circostanza che i medesimi si sono perfezionati prima (e più precisamente alle ore 16:00, alle ore 17:29 ed alle ore 17:46), che si procedesse in sede penale a mezzo del sequestro del compendio aziendale (il sequestro è stato, redatto alle ore 19:08 e l'avviso all'indagato è stato fatto ed alle ore 19:22).

L'11/9/2020 l'avv. S.S. acquisiva in copia gli atti inseriti nel fascicolo del riesame, compresi i verbali di sommarie informazioni redatti dalla Polizia Locale. Pertanto, l'avv. S.S., sin da tale data, era legittimamente a conoscenza delle domande che erano state formulate ai lavoratori dalla Polizia Locale e delle risposte date. Ed infatti leggendo i verbali redatti in data 14/09/2020 dall'avv. S.S. si noterà che non solo lo stesso non ha chiesto ai lavoratori notizie sulle domande che erano state loro formulate dalla Polizia Locale e sulle risposte date ma, anzi, che era lui a riferire ai lavoratori le risposte che avevano reso in precedenza e per meglio delimitare l'ambito dell'attività investigativa difensiva, alcune domande venivano formulate riepilogando quanto già dichiarato alla Polizia Locale.

La tesi che si sostiene in ricorso, perciò, è che, contrariamente a quanto affermato nell'ordinanza impugnata, le dichiarazioni raccolte dal difensore, da un lato non hanno, in alcun modo, violato il disposto di cui all'art. 391-bis cod. proc. pen., e dall'altro non hanno affatto contraddetto quanto dai lavoratori medesimi dichiarato alla Polizia Locale, ma, anzi, ed al contrario a tali dichiarazioni hanno aggiunto ulteriori informazioni non precedentemente raccolte.

Le suddette dichiarazioni sarebbero, pertanto, perfettamente utilizzabili e sul punto l'ordinanza del Tribunale di Brescia sarebbe violativa dei principi costituzionali di eguaglianza, parità delle parti e di difesa, sanciti rispettivamente dagli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, atteso che mediante la stessa il Tribunale di Brescia, ha, di fatto, compresso le garanzie difensive riconosciute dalla legge all'imputato, ponendolo in condizioni di minorata difesa, non consentendogli di disporre dei medesimi mezzi d’indagine riconosciuti agli inquirenti.

Fermo quanto sopra, il ricorrente evidenzia come, laddove si dovesse accogliere l'interpretazione della norma de qua data dal tribunale bresciano, la limitazione del diritto di difesa, concretandosi nell'impossibilità di intervenire su temi oggetto di prova, comporterebbe un irrimediabile ed inaccettabile vulnus del diritto di difesa che il legislatore, con la riforma introduttiva della facoltà di svolgere indagini difensive, ha voluto garantire nel modo più pieno anche in fase di indagini preliminari.

Con un secondo motivo lamenta erronea applicazione dell'art. 3 della Legge 199/2016, norma che precisa: "Nei procedimenti per i reati previsti dall’articolo 603-bis del codice penale, qualora ricorrano i presupposti indicati nel comma 1, dell'articolo 321 del codice di procedura penale, il giudice dispone, in luogo del sequestro, il controllo giudiziario dell'azienda presso cui è stato commesso il reato, qualora l'interruzione dell'attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale.

Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321 e seguenti del codice di procedura penale."

Contrariamente a quanto sostenuto nell'ordinanza impugnata, la norma prevede un obbligo e non una facoltà, altrimenti sarebbe stata diversamente formulata ("il giudice può disporre"), nel caso in cui l’interruzione dell’attività abbia ripercussioni negative sull’occupazione e sul valore dell’azienda.

Condizioni, queste ultime, che per il ricorrente in concreto si sarebbero realizzate nel caso di specie. Infatti, come indicato nella memoria depositata in sede di riesame, il sequestro preventivo in atto: a. comporta ripercussioni negative sui livelli occupazionali atteso che A.R., J.A. e A.I., seppur ancora assunti, sono ora privi di retribuzione; b. compromette il valore economico del complesso aziendale.

L’unica attività svolta della P.C. S.r.l. - conclude il ricorso- è quella di autolavaggio presso l’impianto di Rezzato.

Chiede pertanto che questa Corte annulli l’ordinanza impugnata, con tutte le conseguenze di legge.

3. Il P.G. presso questa Corte Suprema ha rassegnato in data 11/1/2021 ha rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza camerale senza discussione orale (art. 23 d.l. n. 137/2020) chiedendo il rigetto del proposto ricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. I motivi sopra illustrati appaiono infondati e pertanto il proposto ricorso va rigettato.

2. Preliminarmente, va ricordato, in punto di diritto che, ai sensi dell'art. 321 cod. proc. pen., la concessione del sequestro preventivo è subordinata alla sussistenza del pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati.

L'art. 325 cod. proc. pen.prevede che contro le ordinanze in materia di appello e di riesame di misure cautelari reali il ricorso per cassazione possa essere proposto per sola violazione di legge.

La giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, ha più volte ribadito, tuttavia, come in tale nozione debbano ricomprendersi sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice vedasi Sez. Un. n. 25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 239692; conf. Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093; Sez. 3, n. 4919 del 14/07/2016, Faiella, Rv. 269296).

E' stato anche precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l’iter" logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (così Sez. 6, n. 6589 del 10/1/2013, Gabriele, Rv. 254893 nel giudicare una fattispecie in cui la Corte ha annullato il provvedimento impugnato che, in ordine a contestazioni per i reati previsti dagli artt. 416, 323, 476, 483 e 353 cod. pen. con riguardo all'affidamento di incarichi di progettazione e direzione di lavori pubblici, non aveva specificato le violazioni riscontrate, ma aveva fatto ricorso ad espressioni ambigue, le quali, anche alla luce di quanto prospettato dalla difesa in sede di riesame, non erano idonee ad escludere che si fosse trattato di mere irregolarità amministrative).

Di fronte all'assenza, formale o sostanziale, di una motivazione, atteso l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, viene dunque a mancare un elemento essenziale dell’atto.

Va anche aggiunto che, anche se in materia di sequestro preventivo il codice di rito non richiede che sia acquisito un quadro probatorio pregnante come per le misure cautelari personali, non è però sufficiente prospettare un fatto costituente reato, limitandosi alla sua mera enunciazione e descrizione, ma è invece necessario valutare le concrete emergenze istruttorie per ricostruire la vicenda anche in semplici termini di "fumus".

Ebbene, nel caso in esame, si è senz'altro al di fuori di tali ipotesi perché il Tribunale di Brescia ha seguito un percorso motivazionale del tutto coerente laddove ha dato atto la sussistenza del fumus della misura in atto si basa sulle dichiarazioni dei lavoratori dipendenti in merito alla circostanza che non avessero un orario di lavoro preciso - e comunque fosse lo stesso fosse notevolmente superiore a quello indicato in busta paga (documento che neppure erano in grado di decifrare e comprendere)-, ricevessero una paga oraria di gran lunga inferiore a quella prevista dai CCNL della relativa categoria, non avessero mai seguito corsi di formazione e non fossero mai stati sottoposti a visite mediche.

Siffatte evidenze, con motivazione logica e congrua, sono state ritenute quali chiari indici sintomatici delle oggettive condizioni di sfruttamento cui erano costretti i lavoratori impiegati nell’azienda dell’indagato.

3. Il tribunale lombardo si è basato su questo compendio dichiarativo per confermare il fumus commissi delicti, ritenendo nulle le investigazioni difensive allegate all'istanza di riesame e sussistente anche il periculum in mora, invero, non oggetto di doglianze.

Ebbene, l'interpretazione offerta dal tribunale appare corretta, in quanto il precedente difensore del ricorrente poteva indagare sugli stessi temi di indagine ma, nel porre le stesse domande che erano state poste dalla polizia giudiziaria, non poteva ritornare sulle risposte date in quel frangente allo scopo di ottenere un'informazione differente perché ciò avrebbe integrato una violazione dell'art. 391-bis, co. 4, cod. proc. pen.

Corretto appare il rilievo dei giudici del gravame cautelare in punto di irricevibilità delle allegazioni difensive volte a sminuire la gravità di siffatto quadro sulla scorta delle dichiarazioni rilasciate dai dipendenti in sede di indagini difensive con le quali gli stessi, contraddicendo totalmente quanto dichiarato in sede di sommarie informazioni, hanno sostenuto di godere di regolari condizioni di impiego (con il rispetto degli orari di lavoro e delle retribuzioni previste per la categoria) e di essere sempre stati aiutati dal loro datore di lavoro.

Ed infatti, le dichiarazioni rese in relazione gli orari di lavoro e alla retribuzione, non potevano essere in alcun modo tenute in considerazione dal giudice del gravame cautelare, trattandosi di dichiarazioni rilasciate in palese difformità alle prescrizioni di legge e, in particolare, al limite oggettivo imposto all'attività investigativa del difensore dal comma 4 dell'art. 391 bis cod. proc. pen., il quale sancisce, a pena di inutilizzabilità, il divieto di interpellare, in relazione alle domande formulate o alle risposte date dal PM o alla polizia giudiziaria, coloro i quali siano stati previamente ascoltati dai pubblici investigatori. È evidente infatti che le domande formulate dall'avv.to S. ai dipendenti dalla P.C. srl "ma allora come ha fatto a dichiarare alla PG le ore sopra riportate?...quindi è corretto dire che il dato complessivo delle ore da lei indicate alle PG non è attendibile?" si palesano in deciso contrasto con tale divieto.

Peraltro, va evidenziato che, nonostante la natura processuale della questione, l'atto contestato rivestiva anche natura probatoria e il ricorrente avrebbe dovuto assolvere all'onere di allegazione, cosa che non ha fatto, al fine di consentire una verifica sulla erroneità o meno della decisione dei giudici del riesame, quantomeno trascrivendone il contenuto.

Quanto al contenuto delle dichiarazioni rese al difensore dai dipendenti in relazione a circostanze non indagate in sede di sommarie informazioni (messa a disposizione di locali per il ristoro ed uso gratuito di un alloggio), i giudici bresciani rilevano, con motivazione logica, che deve seriamente dubitarsi della loro credibilità, laddove si consideri che trattasi di propalazioni rese da persone straniere, risultate lavorare in condizioni di assoggettamento alle direttive datoriali e in situazioni di palese isolamento sociale (avevano dichiarato nell'immediatezza di aver accettato tali precarie condizioni di impiego in quanto non avevano trovato altre possibilità di lavoro e di non essere neppure in grado di comprendere quanto riportato in busta paga), alcune delle quali (A. e J.), peraltro, legate da rapporti di parentela con l'indagato, sicché non è irragionevole supporre che, a seguito all'apposizione del vincolo, gli stessi siano stati indotti a rilasciare dichiarazioni in suo favore finalizzate a ridimensionare la gravità delle accuse mosse nei suoi confronti. E altrettanto logicamente concludono che, in ogni caso, si tratta di circostanze non adeguatamente provate ed ampiamente recessive rispetto a quanto accertato dalla polizia giudiziaria in merito alla corresponsione alle manovalanze di una retribuzione non proporzionata alle ore di lavoro effettivamente svolto e al mancato rispetto della normativa in materia di sicurezza, ed igiene sul luogo di lavoro, protrattasi per un significativo arco temporale e che valgono, come detto, a ritenere integrate le condizioni di sfruttamento indicate all'art. 603 bis c.p.

La prima doglianza appare, dunque, infondata.

4. Infondata è anche la seconda censura, tenuto conto che la misura del controllo giudiziario d'azienda può essere applicata, in sostituzione del sequestro, solo qualora i giudici ritengano sussistenti le condizioni previste dall'art. 3 della legge 199/2016 e che, nel caso concreto, l'ordinanza impugnata ha illustrato le ragioni prevalenti che sconsigliavano il controllo, con motivazione che appare connotata da logicità e congruità.

I giudici lombardi hanno dato atto di avere operato delle valutazioni strettamente legate alle peculiarità del caso concreto, tenuto conto della natura dell'attività imprenditoriale e dei suoi livelli occupazionali, all'esito di un giudizio di bilanciamento fra l'interesse dello Stato ad impedire la prosecuzione del reato e quelli dell'impresa a preservare la continuità aziendale, anche tenuto conto dei costi che l'adozione ditale misura (si pensi alla necessità di nominare un amministratore giudiziale) comporta e che dunque non sostituisce, ma affianca il sequestro preventivo, sostituendolo solo quando le circostanze lo consentano. E hanno argomentatamente dato conto di avere ritenuto che nel caso in esame, tenuto conto delle dimensioni ridotte dell'attività d'impresa, della necessità di interrompere l'illecito sfruttamento di tre lavoratori impiegati presso la stazione di autolavaggio gestita dalla piccola impresa dell'indagato, la scelta di impedire la prosecuzione del reato mediante lo strumento cautelare in oggetto pare dunque corretta e scevra dalle censure di illegittimità sollevate dal difensore.

5. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.