Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 settembre 2021, n. 24080

Dirigente scolastico - Trattenimento in servizio - Diritto - Riconoscimento - Istanza

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d'Appello di Firenze, riformando la sentenza del Tribunale di Pisa, ha rigettato la domanda con cui F.D.M., dirigente scolastico, aveva chiesto, nei confronti del Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca (di seguito, Miur), il riconoscimento del suo diritto al trattenimento in servizio per un biennio o fino a 70 anni.

2. La Corte premetteva che, quello azionato, non era un diritto del dipendente, ma una facoltà della P.A., da esercitarsi in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali. Non era poi vero - sosteneva la Corte territoriale - che la P.A. avesse violato i criteri da essa stessa posti per la valutazione delle istanze, in quanto il rigetto era stato fondato sull'esigenza di accantonamento dei posti per il concorso da Dirigenti in fase di espletamento ed all'esito di tale concorso erano state assegnate 106 presidenze a fronte di 111 sedi libere, sicché il limitato numero di posti eccedenti non consentiva di ritenere provato che il mancato trattenimento del ricorrente fosse riconducibile a un illegittimo esercizio da parte della P.A. della facoltà ad essa spettante.

Inoltre, aggiungeva ancora la sentenza, il trattenimento in servizio di altri due dirigenti che ne avevano fatto istanza non aveva rilievo, in quanto il ricorrente non aveva allegato circostanze da cui potesse desumersi l'arbitrarietà del comportamento della P.A., tenuto conto che le esigenze da tenere presenti erano solo quelle datoriali, con esclusione di un interesse qualificato del dipendente; così come alla P.A. era riferita, come limite all'accoglimento delle disponibilità manifestate, la necessità che il trattenimento in servizio fosse riconnesso ad una particolare esperienza acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti. Né poteva ritenersi che altre norme (art. 9, co. 31 d.I.78/2010 o art. 24, co. 4, d.l. 201/2011) potessero essere utilmente richiamate rispetto alla pretesa avanzata.

3. F.D.M. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, resistiti da controricorso del Miur.

Il Pubblico Ministero ha presentato conclusioni scritte con cui ha insistito per il rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo di ricorso è rubricato come «violazione e falsa applicazione delle norme di diritto, ex n. 3 art. 360 c.p.c. Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 n. 5 c.p.c.: violazione e omissione circa il conteggio dell'istante e circa il d. Igs. 297/1994».

Esso consta puramente e semplicemente dell'affermazione per cui la Corte di merito avrebbe dovuto «applicare uno scrupolo maggiore e verificare la prova  concernente il conteggio», che integrerebbe «il fatto storico, il dato testuale, la decisività» di cui a Cass. 8053/2014.

Il tenore di quel conteggio non è né trascritto, né anche solo descritto.

A parte quindi la assoluta inidoneità della doglianza ad integrare la denuncia di un vizio di legittimità ai sensi dell'art. 360 c.p.c., la formulazione del motivo si pone altresì in contrasto con i presupposti di specificità di cui all'art. 366, co. 1, c.p.c. (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 4 e 6 della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l'argomentazione siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei passaggi degli atti e documenti su cui le censure si fondano, a manifestare pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente in tali atti e documenti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469).

2. Il secondo motivo afferma la violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c) dell'art. 2697 c.c.

Il ricorrente sostiene che spetterebbe al Miur l'onere di provare il lecito esercizio della facoltà della P.A. di non trattenere in servizio il lavoratore che ne faccia istanza e sottolinea come tale onere non sia stato assolto, in quanto dai documenti in atti risultano, per il 2012 conferite 13 reggenze e per il 2013 altre 29, tutte rispetto ad un organico regionale 2012/2013 fissato fin dal gennaio 2012, numero delle scuole sottodimensionate già noto dal marzo 2012 e quindi con situazioni, ivi compresa quella dei dirigenti da collocare a riposo, prevedibili fin dal maggio 2012, quando era stata respinta la domanda del ricorrente.

Inoltre, egli rimarca, il concorso per Dirigenti Scolastici era stato bandito per 112 posti, dei quali 106 effettivamente assegnati a settembre 2012, oltre a 13 assegnati a reggenti, sicché residuavano 7 posti utili per i trattenimenti in servizio.

Infine, il ricorrente rimarca come il trattenimento in servizio fosse stato concesso a due Dirigenti, senza che l'Amministrazione abbia reso note, a sostegno, le esigenze organizzative e funzionali che giustificavano tale scelta.

2.1 La normativa applicabile al caso di specie, in cui non vi è questione di raggiungimento di minimi pensionabili, è costituita dall'art. 509, co. 5, d. Igs. 297/1994, secondo cui «al personale di cui al presente titolo è attribuita, come alla generalità dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici, la facoltà di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposto per essi previsti». Il richiamo alla generalità dei dipendenti civili dello Stato comporta più in specifico l'applicazione dell'art. 16 d. Igs. 503/1992, secondo cui (nel testo quale modificato ad opera del d.l. 112/2008, della L. 183/2010 e poi del d.l. 138/2011) «è in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti. In tal caso è data facoltà all'amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di trattenere in servizio il dipendente in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi. La disponibilità al trattenimento va presentata all'amministrazione di appartenenza dai ventiquattro ai dodici mesi precedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo previsto dal proprio ordinamento».

Precedentemente l'art. 16 prevedeva invece il trattenimento in servizio come conseguenza dell'esercizio di una facoltà da parte dell'interessato. La novellata formulazione della norma è viceversa inequivoca nel trasformare la richiesta del dipendente in una mera manifestazione di disponibilità, soggetta all'esercizio da parte della P.A. di una facoltà di trattenimento condizionata alla valutazione della ricorrenza di «esigenze organizzative e funzionali» e della sussistenza di una «particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi».

Questa Corte ha quindi escluso «la configurabilità di un diritto soggettivo del dipendente, in relazione alle richieste presentate in epoca successiva all'entrata in vigore del d.l. n. 112 del 2008» (Cass. 26 gennaio 2017, n. 2010; Cass. 9 giugno 2016 n. 11859; Cass. 7 ottobre 2013 n. 22790), sicché quella che viene in evidenza è una facoltà della P.A., rispetto alla quale, come giustamente rileva la Corte territoriale, i parametri di esercizio indicati dalla norma non stanno ad individuare una corrispondente situazione di diritto dell'interessato, quanto piuttosto limiti al libero esercizio della facoltà stessa, nel senso che la P.A. non può attribuire il beneficio se non nella ricorrenza di quelle condizioni.

Come spiega Cass. 2020/2017 cit., «nell'ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, quindi, il legislatore ha perseguito l'obiettivo di realizzare proprio attraverso il pensionamento dei dipendenti in possesso dei necessari requisiti sia "il processo di riduzione degli assetti organizzativi delle pubbliche amministrazioni" (art. 24 comma 20 dl. 201/2011), sia il ricambio generazionale (art. 1 d.l. n.90/2014)».

Tanto che poi, ultimando l'evoluzione in tal senso del sistema, il legislatore è ulteriormente intervenuto con l'art. 1 del d.l. 24 giugno 2014 n. 90, convertito dalla legge 11 agosto 2014 n. 114, che ha dettato "disposizioni per il ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni" ed a tal fine ha disposto la abrogazione del richiamato art. 16, facendo salvi i soli trattenimenti in servizio già in atto alla data di entrata in vigore del decreto.

In questo quadro è fuori di dubbio che, proprio per il ricorrere di una eccezionale facoltà datoriale, l'invalidazione del diniego potrebbe avere corso solo dimostrando il ricorrere di discriminazioni illecite o altre gravi forme di abuso, circostanze della cui prova, dato l'assetto sostanziale delle situazioni quale sopra delineato, è onerato il lavoratore.

2.2 In tale quadro interpretativo, l'impostazione del motivo sul presupposto che l'onere probatorio della legittimità del diniego graverebbe sulla P.A. è in sé errato.

Al di là di ciò, i fatti addotti nel motivo non si manifestano come decisivi in quanto, rispetto al 2012, lo stesso ricorrente ammette che tra posti messi a concorso e posti assegnati nel mese di settembre vi è una divergenza di solo 7 unità su un totale di 125, del tutto inidonea a porsi come base di una arbitrarietà del diniego di trattenimento formulato nel maggio di quello stesso anno, mentre i numeri superiori riguardanti il 2013 non possono da soli, in mancanza di dati più precisi, manifestare con certezza, dato il lasso di tempo intercorso e le possibili evenienze, un decisivo elemento di abuso.

Così come generica è la doglianza rispetto alla concessione del beneficio a due dirigenti, rispetto ai quali nulla è detto nel ricorso per cassazione, se non appunto che essi furono trattenuti in servizio, mentre non lo fu il D.M.

In definitiva, i fatti appena esaminati, come anche gli altri ad essi connessi di cui è menzione nel motivo, finiscono, al di là delle rubricazione, per proporsi come tentativo di sollecitare una diversa lettura di merito, certamente estranea, a fronte di valutazioni non implausibili della sentenza di appello, all'ambito del giudizio di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148).

3. Il terzo motivo è formulato denunciando la violazione dell'art. 1226 c.c. e 2697 c.c. e l'omesso esame di un fatto decisivo, con riferimento al danno, ma è palese il trattarsi di censura inammissibile, in quanto la Corte territoriale ha respinto sull'an la pretesa azionata e quindi non possono avere ingresso censure sul quantum, che semmai avrebbero potuto essere dispiegate in sede di rinvio ove fossero stati accolti, come non lo sono, i precedenti motivi.

4. Il quarto motivo sostiene la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, oltre ad omesso esame (e motivazione) su un fatto decisivo, con riferimento all'intervenuta compensazione delle spese di giudizio. Anche tale motivo è incoerente rispetto all'assetto del contenzioso, in quanto, ottenuta la compensazione delle spese nonostante la soccombenza, il ricorrente non può certo fare di ciò ragione di censura rispetto alla sentenza impugnata. Anche sulle spese si sarebbe potuti tornare, in prosieguo di giudizio, se ed in quanto il ricorso per cassazione fosse accolto, come non è, ma non certamente attraverso un motivo impugnatorio di una sentenza che, avendo deciso sfavorevolmente al ricorrente, in suo favore più non poteva fare se non disporre, come ha fatto, la compensazione delle spese.

5. Il ricorso si appalesa quindi come complessivamente inammissibile e le spese del giudizio di legittimità restano regolate secondo soccombenza.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.