Illeciti disciplinari, per l'imputabilità della condotta vale anche la prova per presunzioni

La condotta disciplinarmente rilevante può essere imputata ad un lavoratore anche sulla base di presunzioni (artt. 2727 e 2729 c.c.), essendo sufficiente che il fatto da provare sia conseguenza ragionevolmente possibile del fatto noto, secondo un criterio di normalità ed alla stregua di canoni di probabilità (Corte di Cassazione, ordinanza 22 settembre 2020, n. 19845).

La vicenda giudiziaria nasce dal licenziamento disciplinare intimato ad una lavoratrice, cui veniva contestato di aver abbandonato, omettendo di consegnarle, un notevole quantitativo di missive da recapitare nella zona assegnatale quale portalettere. Impugnato il licenziamento il Tribunale, all'esito della fase sommaria, ne dichiarava l'illegittimità in relazione alla tardività della contestazione ed ordinava alla società di reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro (art. 18, co. 4, L. n. 300/1970). Il giudice dell'opposizione, poi, adito dalla società, confermava il provvedimento reso nella fase sommaria, ritenendo che l'illegittimità della contestazione del fatto tardivamente eseguita equivalesse ad insussistenza del fatto stesso.
In sede di appello, invece, la Corte, pur confermando la tardività della contestazione, ha ritenuto di applicare la tutela indennitaria (art. 18, co. 5, L. n. 300/1970), in quanto il fatto di rilevanza disciplinare era risultato provato nella sua materialità e si trattava di condotta che faceva venir meno il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, nonché idonea ad arrecare danni patrimoniali ed all'immagine della società.
Ricorre così in Cassazione la lavoratrice, lamentando, in particolare, la violazione dei parametri integrativi della nozione di giusta causa e sostenendo che il fatto accertato, consistito nel rinvenimento di due kg di corrispondenza che ricadevano nella sua zona di distribuzione, le era stato addebitato senza alcuna verifica dell'intenzionalità della condotta a lei oggettivamente riferita.
Per la Suprema Corte, il ricorso non è meritevole di accoglimento. L'abbandono della posta non poteva che essere riferito ad una condotta consapevole della dipendente che era così incorsa in una violazione delle regole di comportamento, talmente grave da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Nel corso dell'audizione sollecitata nel procedimento disciplinare, infatti, a lavoratrice aveva dichiarato di essersi avveduta che dal suo banco era mancato qualche mazzetto di posta pronto per la consegna, ma tale circostanza non era stata segnalata se non dopo il rinvenimento della posta abbandonata. Con un ragionamento presuntivo esente da vizi, dunque, la Corte di merito ha desunto da tali circostanze che la condotta non poteva che essere riferita alla lavoratrice la quale, se non ne fosse stata l'autrice, si sarebbe premurata di segnalare l'anomalia riscontrata, anche al fine di essere tenuta indenne da ogni responsabilità.
Nella prova per presunzioni (artt. 2727 e 2729 c.c.) non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’ "id quod plerumque accidit" (cioè, quello che accade più spesso), fermo restando che il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza (Corte di Cassazione, sentenza  21 gennaio 2020, n. 1163).
In altri termini, è sufficiente che il fatto da provare sia conseguenza ragionevolmente possibile del fatto noto, secondo un criterio di normalità ed alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento cioè ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza. Di tali principi, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione verificando che la condotta da un punto di vista oggettivo non poteva che essere riferita alla lavoratrice che non poteva non averla posta in essere che con un comportamento consapevolmente in dispregio delle regole di correttezza nell'esecuzione della prestazione.