Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 settembre 2020, n. 25922

Tributi - Versamento di tributi a mezzo compensazione con crediti non spettanti - Rilevanza penale - Omessa presentazione dichiarazione

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza in data 20 novembre 2019 la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza in data 10 aprile 2019 del Tribunale di Milano, ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti di F.T. per i reati consumati con la presentazione dei modelli F24 in data 7 marzo, 10 marzo, 9 maggio, 7 giugno, 13 giugno e 14 giugno 2011 perché estinti per prescrizione ed ha ridotto la pena a mesi 4 di reclusione nonché la confisca ad € 152.938,55, confermando nel resto la sentenza impugnata.

2. L'imputato presenta cinque motivi di ricorso.

Con il primo eccepisce il vizio di motivazione, la violazione di legge e di norme processuali con riferimento alla discrasia tra motivazione e dispositivo: nella prima sono indicati 3 mesi di reclusione, nel secondo 4 mesi.

Con il secondo lamenta la violazione di legge per difetto della correlazione tra imputazione e condanna, in quanto era stata contestata l'insussistenza del credito utilizzato in compensazione, ma era stato condannato per la non spettanza.

Con il terzo deduce la violazione delle norme processuali stabilite a pena di nullità perché il Giudice avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Pubblico ministero per diversità del fatto.

Con il quarto denuncia la violazione di legge con riferimento agli art. 10- quater d. Igs. n. 74 del 2000, 17 d.lgs. n. 241 del 1997, 8 d.P.R. n. 322 del 1998 e 19 d.P.R. n. 633 del 1972 relativi ai requisiti di non spettanza del credito compensato.

Con il quinto lamenta il vizio di motivazione in ordine all'interpretazione del requisito di non spettanza del credito ed al mancato rispetto del canone di giudizio al di là di ogni ragionevole dubbio.

In generale, richiama la giurisprudenza delle Sezioni Unite civili n. 17757 e 17758 del 2016, secondo cui, pur in mancanza di dichiarazione annuale, l'eccedenza d'imposta - risultante da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto - è riconosciuta dal giudice tributario se siano stati rispettati dal contribuente tutti i requisiti sostanziali per la detrazione. Il diritto di detrazione non può essere negato, neanche nel corso del giudizio d'impugnazione della cartella emessa a seguito di controllo automatizzato, laddove, pur non avendo presentato il contribuente la dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, sia dimostrato in concreto che si tratti di acquisti fatti da un soggetto passivo d'imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili. Tale orientamento è stato recepito anche dalla prassi dell'Agenzia delle entrate con la circolare n. 21 del 2013 secondo cui il contribuente può attestare il credito non dichiarato mediante la produzione di idonea documentazione. Dopo aver disquisito sulla differenza tra crediti inesistenti e non spettanti, ha concluso che non costituiva violazione sostanziale il non aver indicato il credito nella precedente dichiarazione dei redditi.

 

Considerato in diritto

 

3. Il ricorso è manifestamente infondato. L'imputato è stato condannato per il reato dell'art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000, perché, in qualità di legale rappresentante di una società cooperativa in liquidazione, non aveva versato le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti IVA "inesistenti". I Giudici di merito hanno accertato, invece, che i crediti in oggetto erano "non spettanti". Con il secondo e terzo motivo il ricorrente solleva un problema di corrispondenza tra la contestazione e la condanna ai sensi dell'art. 521 cod. proc. pen., che è di mero stile. Ed invero, la formulazione vigente della norma nel 2011, al momento della contestazione, era la seguente: "Art. 10-quater (indebita compensazione) La disposizione di cui all'articolo 10-bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti o inesistenti". Pertanto, all'epoca della formulazione del capo d'imputazione non vi era differenza tra i crediti inesistenti o quelli non spettanti ai fini della rilevanza penale e del trattamento sanzionatorio, a differenza di oggi (dopo la novella del d.lgs. n. 158 del 2015) in cui la norma contempla due commi, il primo relativo ai crediti non spettanti ed il secondo relativo ai crediti inesistenti, con un trattamento sanzionatorio differenziato.

Premesso che, nella specie, il diritto di difesa nell'ambito del contraddittorio processuale, è stato pienamente esercitato e che la diversa qualificazione del fatto si è imposta a seguito della novella in favore dell'imputato, non si ravvisa alcuna violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. (tra le più recenti, Cass., Sez. 4, n. 49175 del 13/11/2019, D., Rv. 277948)

4. Il quarto ed il quinto motivo attengono al cuore del problema, e cioè la rilevanza penale della condotta di versamento dei tributi a mezzo compensazione con crediti non spettanti. I Giudici di Milano hanno accertato tale requisito in considerazione del fatto che non era stata presentata la precedente dichiarazione fiscale e quindi non era possibile verificare la sua spettanza.

La decisione impugnata ha fatto puntuale applicazione della sentenza di questa Sezione n. 41229 del 17 gennaio 2018, Susat, non massimata, secondo cui la mancata presentazione della dichiarazione impedisce la verifica della spettanza del credito e si pone come condizione ostativa alla successiva legittima utilizzazione in occasione della compensazione con altri debiti nei confronti dell'Erario. Secondo la sentenza n. 43627 del 21/06/2018, Marrella, Rv. 274062, i crediti possono essere utilizzati in compensazione solo se risultanti dalle dichiarazioni o denunce periodiche, altrimenti sono da considerarsi inesistenti. Ai fini della distinzione tra crediti inesistenti e non spettanti si richiama la sentenza di questa Sezione, n. 3367 del 26/06/2014, dep. 2015, Napoli, Rv. 262003 - 01, secondo cui in tema di reati tributari ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, per credito "non spettante" si intende quel credito che, pur certo nella sua esistenza ed esatto ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile, ovvero non più utilizzabile, in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l'Erario; fattispecie in cui è stato ritenuto penalmente rilevante l'utilizzo nella dichiarazione Iva, di un credito esistente ma detraibile solo nell'anno successivo). La citata sentenza ha poi precisato che il precedente della Sez. 3 n. 37350 del 12/09/2013, Scirocco, n.m., nel dichiarare l'irrilevanza penale della condotta di chi, dopo aver portato in compensazione crediti ancora non esigibili, aveva provveduto, entro i termini previsti dalla legge, a sanare l'irregolarità realizzata, versando l'imposta che in prima battuta era stata indebitamente compensata, non aveva affermato la legittimità dell'operazione di compensazione, ma rilevare, che per effetto del ravvedimento aveva provveduto al versamento delle imposte da lui dovute, in tal modo elidendo, ancor prima dell'effettivo verificarsi dell'omissione tributaria, che costituiva l'evento del reato in esame, la rilevanza penale della precedente condotta. Si vedano altresì sul tema Cass., Sez. 3, n. 48211 del 22/01/2015, Suni, Rv. 265384 secondo cui sono non spettanti i crediti posti in compensazione oltre i limiti dell'art. 34, comma 1, I. 23 dicembre 2000, n. 388, n. 36393 del 07/07/2015, Ghirlandini, Rv. 265014, che definisce come non spettante il credito che, pur certo nella sua esistenza ed ammontare, sia per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti tra il contribuente e l'Erario.

Per un inquadramento generale dei profili più problematici sull’applicazione dell'art. 10-quater d. Igs. n. 74 del 2000, con ampi riferimenti alla genesi della norma, si veda Cass., Sez. 3, n. 14763 del 19/02/2020, Cercel, Rv. 279119, secondo cui in tema di reati tributari, la soglia di rilevanza penale di cui all'art. 10-quater, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, pari a cinquantamila euro annui, va riferita all'ammontare dei crediti non spettanti utilizzati per le compensazioni indebite, e non alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto non versate, con la conseguenza che, per accertare il superamento della soglia, occorre procedere alla somma algebrica degli importi dei crediti inesistenti o non spettanti portati in compensazione, ivi compresi quelli previdenziali la cui rilevanza è negata invece da Cass., Sez. 1, n. 38049 del 10/05/2019, Stillittano, n. m. Si pongono in contrasto con la segnalata sentenza della Prima Sezione anche Cass., Sez. 3, n. 13149 del 03/03/2020, Bonelli, Rv. 279119-01 che sviluppa gli argomenti derivanti dalla lettura dell'art. 17 del digs. 9 luglio 1997, n. 241, e n. 15290 del 08/01/2020, Gasparoni, n.m., che apoditticamente avversa la lettura riduttiva della norma. A prescindere dall'ampiezza della compensazione, ciò che rileva ai fini del presente processo è il dettato dell'art. 17 d.lgs. n. 241 del 1997, richiamato dall'art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000, dal quale è possibile evincere che sono spettanti i crediti risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del decreto.

5. Come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 35 del 6 dicembre 2017 (depositata il 21 febbraio 2018), con ampi riferimenti all'evoluzione normativa, il delitto di indebita compensazione presenta un evidente tratto differenziale rispetto agli altri delitti in materia dì omesso versamento delle imposte. Mentre nelle ipotesi di cui agli artt. 10-bis e 10-ter la condotta incriminata risulta priva di connotati di insidiosità, in quanto l'omesso versamento delle somme dovute è prontamente riscontrabile dall'amministrazione finanziaria mediante la consultazione dei documenti fiscalmente rilevanti, lo stesso non può dirsi per l'ipotesi disciplinata dall'art. 10-quater del d.lgs. 74 del 2000. In tale fattispecie la condotta esprime una componente decettiva o di frode ossia un quid pluris che accoppia al disvalore di evento (omesso versamento di somme dovute) uno specifico disvalore di azione, consistente nell'abusiva utilizzazione dell'istituto della compensazione in materia tributaria, quale disciplinato dall'art. 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni)

La Corte costituzionale ha anche precisato che, in passato, l'istituto civilistico della compensazione era ritenuto inapplicabile ai crediti di natura tributaria, fatta eccezione (a talune condizioni) per la cosiddetta compensazione "verticale", avente ad oggetto, cioè, crediti e debiti relativi alla stessa imposta, mentre con l'art. 17 il legislatore avrebbe superato tale impostazione restrittiva, consentendo al contribuente di effettuare - tramite la compilazione di un apposito modello, denominato «modello F24» - un versamento unitario «delle imposte, dei contributi dovuti all'INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali», analiticamente elencati nella norma stessa: versamento in occasione del quale è possibile compensare le somme a debito con quelle a credito. In questo modo, il contribuente non è più costretto a corrispondere la somma dovuta e ad avviare contestualmente la procedura per il rimborso del suo credito, ma può servirsi direttamente di quest'ultimo per evitare di effettuare il pagamento. E lo può fare persino oltre gli stessi limiti dell'istituto civilistico: in deroga al requisito dell'identità dei soggetti titolari delle reciproche posizioni debitorie e creditorie, previsto dal codice civile (art. 1241), la compensazione è, infatti, ammessa anche tra crediti e debiti del contribuente nei confronti di enti diversi (Stato, Regioni, enti previdenziali).

Si tratta di meccanismo che implica un elevato grado di affidamento nella correttezza del protagonista del versamento, chiamato ad effettuare lui stesso, tramite la compilazione del modello, l'operazione di calcolo del dovuto. La norma incriminatrice di cui all'art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000 mira quindi specificamente a contrastare gli abusi cui il meccanismo si presta, tramite l'artificio di esporre nel modello - e, così, di utilizzare in compensazione - crediti «non spettanti» o «inesistenti». Nella specie, il contribuente non si limita, quindi, ad una condotta omissiva di mancato versamento del dovuto, ma supporta la stessa con la redazione di un documento ideologicamente falso. Comportamento, questo, dotato di potenzialità decettive: l'indebita compensazione non è, infatti, di norma, immediatamente percepibile da parte dell'amministrazione finanziaria, ma emerge solo qualora gli organi accertatori appurino l'insussistenza o la non spettanza del credito portato in compensazione (in questo senso si veda già, incidentalmente, la sentenza n. 100 del 2015).

6. Secondo la sentenza impugnata vi sarebbe un conflitto tra la giurisprudenza civile e quella penale i perché per la prima ) il contribuente può sempre dimostrare, mediante la produzione di idonea documentazione, l'effettiva sussistenza del proprio diritto; in tal modo sarebbe posto nelle medesime condizioni in cui si sarebbe trovato, salvo sanzioni ed interessi, qualora avesse correttamente presentato la dichiarazione dei redditi.

Sul tema, rilevante è stato l'apporto delle Sezioni Unite civili con due sentenze coeve, la n. 17757 del 2016, Rv. 640943, secondo cui la neutralità dell'imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l'eccedenza d'imposta, che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, va riconosciuta dal giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, sicché, in tal caso, nel giudizio d'impugnazione della cartella emessa dal fisco a seguito di controllo formale automatizzato non può essere negato il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d'imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili, e la n. 17758 del 2016, Rv. 640942 - 01, secondo cui, in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, è consentita l'iscrizione a ruolo dell'imposta detratta e la consequenziale emissione di cartella di pagamento, potendo il fisco operare, con procedure automatizzate, un controllo formale che non tocchi la posizione sostanziale della parte contribuente e sia scevro da profili valutativi e/o estimativi nonché da atti di indagine diversi dal mero raffronto con dati ed elementi dell'anagrafe tributaria, ai sensi degli artt. 54-bis e 60 del d.P.R. n. 633 del 1972, fatta salva, nel successivo giudizio di impugnazione della cartella, l'eventuale dimostrazione, a cura del contribuente, che la deduzione d'imposta, eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, riguardi acquisti fatti da un soggetto passivo d'imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili.

Tali sentenze incoraggerebbero l'argomento della valutazione sostanziale dell'esistenza del credito da porre in compensazione. A differenza di quanto sostenuto dalla Corte di appello di Milano non si pongono in contrasto con gli approdi penali perché attengono al diverso caso in cui i crediti posti in compensazione abbisognano di accertamento che può essere richiesto al giudice tributario. In altri termini, nulla osta che il contribuente contesti l'accertamento dell'Agenzia delle entrate e adisca il giudice tributario per vedere riconosciute le proprie ragioni.

Anche nel giudizio penale è possibile che l'imputato sottoponga questioni che attengano all'esistenza e spettanza del credito che devono essere oggetto di accertamento ai diversi fini dell'art. 10-quater. Ciò significa che spetta all'imputato, il quale deve vincere la "presunzione" fiscale derivante dal meccanismo costruito di affidamento sulla correttezza del comportamento del contribuente, dimostrare che la compensazione sia corretta, onere che nella specie ricade sull'imputato, il quale non ha allegato alcun elemento di dubbio sulla fattispecie né ha sostenuto di aver impugnato un eventuale atto amministrativo innanzi al giudice competente.

Secondo il ricorrente dovrebbe essere l'Accusa a provare il reato, ma ritiene il Collegio, al contrario, che, a fronte della formulazione della norma e del suo meccanismo di funzionamento attraverso il rinvio alla norma extrapenale dell'art. 17 d.lgs. n. 241 del 1997, non è onere dell'Accusa entrare nel merito dell'accertamento della pretesa tributaria, piuttosto dell'imputato contestare la sussistenza dei presupposti del reato, offrendo elementi di giudizio per valutare la pretesa. Ed invero, la mancata presentazione della dichiarazione impedisce i controlli e comunque costituisce un indizio probante non vinto dal ricorrente, che neanche nei motivi di appello ha dedotto elementi significanti a sostegno delle sue ragioni.

7. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende