Giurisprudenza - TRIBUNALE DI BARI - Ordinanza 18 aprile 2019

Lavoro e occupazione - Disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Tutela per ipotesi specificate di vizi formali e procedurali del licenziamento - Meccanismo di determinazione dell'indennità spettante al lavoratore. - Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), art. 4.

 

I fatti di causa.

La ricorrente ha impugnato il licenziamento per giusta causa intimatole con nota del 23 ottobre 2017, ricevuta il 24 ottobre 2017, a seguito di procedimento disciplinare avviato con lettera di contestazione dell'11 ottobre 2017.

In particolare, ha lamentato la nullità/illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto materiale contestato, deducendo la violazione del diritto di difesa e del procedimento ex art. 7 St. Lav., nonché il difetto di giusta causa e/o di giustificato motivo soggettivo.

Costituitasi in giudizio, la società convenuta ha contestato integralmente la fondatezza delle avverse pretese, concludendo pertanto per il rigetto del ricorso.

Nella comunicazione di recesso la parte datoriale ha fatto riferimento a tre addebiti: in relazione a uno di essi (presunta condotta reticente o mendace, per avere la lavoratrice taciuto la circostanza di essere stata tratta in arresto) è stata accertata l'insussistenza materiale del fatto contestato; in relazione ad altro addebito (assenza ingiustificata dal lavoro per più di cinque giorni) è stata accertata la violazione dell'obbligo di preventiva contestazione ex art. 7 St. lav.; il terzo e principale addebito (grave violazione degli obblighi di diligenza, correttezza e buona fede per aver posto in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro) è stato invece ritenuto sussistente e sufficiente a legittimare il licenziamento.

Tuttavia, l'intero iter disciplinare, dunque relativo anche a tale ultimo addebito, è stato viziato dall'inosservanza, della disposizione di cui all'art. 138, comma 3 del CCNL Turismo Confcommercio - pubblici esercizi, pacificamente applicabile e applicato al rapporto in questione, ai sensi del quale «La contestazione degli addebiti con la specificazione del fatto costitutivo della infrazione sarà fatta mediante comunicazione scritta nella quale sarà indicato il termine entro cui il lavoratore potrà presentare gli argomenti a propria difesa. Tale termine non potrà essere, in nessun caso, inferiore a cinque giorni».

Dai documenti ritualmente prodotti in giudizio risulta infatti che nella nota di contestazione degli addebiti è stato del tutto omesso l'avviso, diretto alla lavoratrice, concernente la facoltà di rendere giustificazioni nel termine di cinque o più giorni, in violazione del richiamato art. 138, comma 3 CCNL, che nel caso di specie ha integrato e reso più stringente il precetto normativo di cui all'art. 7 St. lav.

Il licenziamento è stato dunque ritenuto illegittimo in quanto affetto da un vizio procedurale o formale, con esclusione invece della ricorrenza delle ipotesi di tutela reintegratoria ex art. 2 o ex art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015 (per nullità, o per insussistenza dei fatti materiali posti a base del recesso) e con esclusione altresì della ricorrenza dell'ipotesi di illegittimità sostanziale di cui all'art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015 (per difetto di giusta causa e/o di giustificato motivo soggettivo).

Con sentenza non definitiva pronunciata in data 4 marzo 2019 (allegato n. 1 alla presente ordinanza) la causa è stata decisa limitatamente all'accertamento dell'illegittimità procedurale del licenziamento impugnato, con conseguente individuazione della tutela applicabile in favore della lavoratrice in quella apprestata dall'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015, ai sensi del quale «Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto»; il rapporto di lavoro è stato pertanto dichiarato estinto a decorrere dal 24 ottobre 2017, data di ricezione della comunicazione di licenziamento.

Non si è tuttavia proceduto alla quantificazione dell'indennità spettante alla ricorrente ai sensi del menzionato art. 4, decreto legislativo n. 23/2015, ritenendosi che la disposizione non vada esente da censure di incostituzionalità e che, d'altro canto, non vi siano margini per una sua interpretazione conforme a Costituzione.

Con separata ordinanza pronunciata nella medesima data del 4 marzo 2019 (allegato n. 2) è stata disposta la prosecuzione del giudizio esclusivamente ai fini della determinazione dell'importo dell'indennità ex art. 4, decreto legislativo n. 23/2015 (nonché ai fini della regolamentazione delle spese di lite), e in tale sede è stata prospettata la necessità di sollevare d'ufficio la questione di legittimità costituzionale della norma citata limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» in riferimento agli articoli 3, 4 comma 1 e 35 comma 1 Cost., nei termini che saranno di seguito esposti.

La causa è stata perciò rinviata all'udienza di discussione dell'8 aprile 2019, con contestuale autorizzazione rivolta alle parti a depositare brevi note in ordine alla questione di legittimità costituzionale.

Parte ricorrente ha condiviso il dubbio di costituzionalità prospettato dall'ufficio, richiamando la sentenza della Consulta n. 194/2018 che ha dichiarato parzialmente incostituzionale l'art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015, e ritenendo che le motivazioni ivi espresse siano perfettamente estensibili all'art. 4.

Parte convenuta ha dichiarato di rimettersi alla decisione dell'ufficio in ordine alla questione di costituzionalità dell'art. 4 del decreto legislativo n. 23/2015.

La questione di legittimità costituzionale.

Come già accennato in sede di esposizione dei fatti di causa, si ritiene necessario procedere alla rimessione degli atti alla Corte costituzionale affinché sia scrutinata la legittimità costituzionale della norma di cui all'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015.

Tale disposizione è sicuramente applicabile e rilevante nel giudizio a quo, all'esito del quale. con sentenza non definitiva, la domanda proposta dalla ricorrente è stata accolta solo parzialmente, sicché, escluse la nullità o l'illegittimità sostanziale del licenziamento, ne è stata invece accertata l'illegittimità procedurale e il rapporto di lavoro è stato dichiarato estinto, proprio ai sensi dell'art. 4, decreto legislativo n. 23/3015.

Si riporta qui nuovamente il testo della norma: «Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge n, 604 del 1966 o della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto».

Nelle more del giudizio principale è intervenuta la sentenza n. 194 depositata l'8 novembre 2018, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3. comma 1, decreto legislativo n. 23/2015, limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».

Prima della pronuncia appena menzionata, l'art. 3, comma 1 cosi recitava: «Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».

La Consulta ha ritenuto che il meccanismo di rigida predeterminazione dell'indennizzo spettante in caso di licenziamento illegittimo, ancorato all'unico parametro dell'anzianità di servizio, contrasti tanto con il principio di eguaglianza, quanto con quello di ragionevolezza, non realizzando un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto; ha quindi chiarito che. nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va quantificata r indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, deve tenersi conto innanzitutto dell'anzianità di servizio, nonché degli altri criteri desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti).

Con la medesima pronuncia la Corte ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, di cui in questa sede occorre fare applicazione.

La declaratoria di inammissibilità è però scaturita dal giudizio di irrilevanza della questione, essendo il menzionato art. 4 inapplicabile in quel giudizio a quo, sicché l'eventuale risoluzione della questione prospettata con riferimento alla citata disposizione non avrebbe avuto alcuna incidenza sul procedimento pendente dinanzi al rimettente.

Ne consegue che non è preclusa la riproposizione della questione sull'art. 4 nel corso di un giudizio, come il presente, ove esso è sicuramente rilevante.

Essendo perfettamente sovrapponibile il criterio di calcolo dell'indennità, è inevitabile valutare l'incidenza della pronuncia n. 194/2018 anche sull'art. 4.

Le parole censurate dalla Consulta, contenute nell'art. 3 («di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»), sono infatti identiche, tranne che per il numero di mensilità (due invece che una), alla dizione dell'art. 4 («di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»).

Orbene, si ritiene che la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 3, comma 1 non possa spiegare effetti immediati e diretti sulla norma applicabile nel presente procedimento (art. 4): sia perché quest'ultima contiene una previsione distinta e autonoma rispetto all'art. 3, a differenza, per esempio, dell'art. 9, decreto legislativo n. 23/2015. che rinvia invece espressamente all'art. 3, comma 1 per stabilire la base di calcolo dell'indennizzo dovuto ai dipendenti delle piccole imprese; sia perché la questione di costituzionalità dell'art. 4, pure sollevata dall'altro giudice rimettente, è stata dichiarata inammissibile (per difetto di rilevanza); sia perché alcune delle argomentazioni espresse dalla Consulta a sostegno della declaratoria di illegittimità dell'art. 3, comma 1 fanno riferimento al caso specifico del licenziamento «ingiustificato», cioè privo di valido motivo, non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo soggettivo, che è ipotesi diversa da quella qui in discussione, concernente un licenziamento illegittimo in quanto affetto da vizio procedurale.

D'altronde, le due norme sono state introdotte nell'ordinamento per sanzionare diversi tipi di illegittimità, risultando l'art. 3, comma 1 applicabile «nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa», e venendo invece in rilievo l'art. 4 «Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970».

Il meccanismo previsto dall'art. 4 non può quindi restare travolto dalla declaratoria di incostituzionalità che ha interessato l'art. 3.

Tuttavia, proprio perché le due disposizioni adottano lo stesso congegno, ancorato esclusivamente all'anzianità di servizio, i dubbi circa la legittimità dell'una non possono discostarsi da quelli già acclarati in ordine all'illegittimità dell'altra, e conducono a richiedere una espressa pronuncia della Corte costituzionale.

Come già accennato, infatti, oggetto delle doglianze di illegittimità non è stato il quantum delle soglie minima e massima entro cui può essere stabilita l'indennità, bensì il meccanismo di determinazione dell'indennità stessa, posto che la norma presa in esame dalla Consulta (art. 3), al pari di quella da applicare nel presente giudizio (art. 4), introduce un criterio rigido e automatico, basato sull'anzianità di servizio, tale da precludere qualsiasi discrezionalità valutativa, in violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto in contrasto con l'esigenza di assicurare un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore, nonché un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente o illegittimamente.

La Corte, con la sentenza n. 194/2018, ha rilevato che «Il meccanismo di quantificazione indicato connota l'indennità come rigida, in quanto non graduabile in relazione a parametri diversi dall'anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, L'indennità assume così i connotati di una liquidazione legale forfettizzata e standardizzata, proprio perché ancorata all'unico parametro dell'anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall'illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.

Il meccanismo di quantificazione dell'indennità opera entro limiti predefiniti sia verso il basso sia verso l'alto», giungendo ad affermare che «In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all'unico parametro dell'anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima.

All'interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell'impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all'esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza.

La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un'indebita omologazione di situazioni che possono essere - e sono, nell'esperienza concreta - diverse».

Pertanto, l'art. 3, comma 1, nella parte in cui determina l'indennità in un «importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», è stato ritenuto contrastante con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse.

Con riguardo al principio di ragionevolezza, la Consulta ha censurato l'art. 3, comma 1 per una duplice ragione.

Da un canto, è stata ravvisata l'inidoneità dell'indennità a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo, in quanto «(...) la rigida dipendenza dell'aumento dell'indennità dalla sola crescita dell'anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata, come nel giudizio a quo. In tali casi, appare ancor più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della misura minima dell'indennità di quattro (e, ora, di sei) mensilità».

Dall'altro, la Consulta ha ritenuto l'indennità inidonea a costituire un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, poiché «l'inadeguatezza dell'indennità forfetizzata stabilita dalla previsione denunciata rispetto alla sua primaria funzione ripartorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato è suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datare di lavoro, allontanandolo dall'intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l'equilibrio degli obblighi assunti nel contratto».

In relazione ai parametri costituzionali degli articoli 4, primo comma e 35, primo comma, Cost., si è poi osservato che «Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che l'art. 3, comma l, del decreto legislativo n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una sfatta tutela dell'interesse del lavoratore alla stabilità dell'occupazione non può ritenersi rispettosa degli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse. appunto, proteggono.

L'irragionevolezza del rimedio previsto dall'art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015 assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (articoli 1, primo comma, 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana».

Così sintetizzati alcuni dei profili di illegittimità costituzionale riscontrati con riferimento all'art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015, si osserva che dubbi analoghi investono la conformità alla Costituzione dell'omologo criterio di quantificazione dell'indennità previsto dal successivo art. 4, ritenendosi che i principi affermati dalla Corte costituzionale siano estensibili anche a quella parte dell'art. 4 che ricalca fedelmente l'inciso dell'art. 3 ormai espunto dall'ordinamento in quanto incostituzionale.

Invero, le esigenze di adeguato ristoro del pregiudizio subito, di commisurazione del costo del licenziamento illegittimo anche alla capacità economica dell'impresa, di valorizzazione delle peculiarità del caso concreto, valutate dalla Consulta in relazione all'ipotesi del licenziamento illegittimo per ragioni sostanziali, non possono essere ignorate nei casi di licenziamento viziato sotto il profilo formale o procedurale, atteso che anche le violazioni procedurali possiedono diverse gradazioni di gravità, e anche un licenziamento illegittimo per questioni di forma può produrre pregiudizi differenziati in base alle condizioni delle parti, all'anzianità del lavoratore, alle dimensioni dell'azienda.

Né può sostenersi che, stante la minore gravità dei vizi procedurali rispetto a quelli sostanziali (minore gravità che non è in discussione, essendo stata sancita a monte dal legislatore tramite la diversificazione delle soglie minima e massima dell'indennità negli articoli 3 e 4, decreto legislativo n. 23/2015), le argomentazioni espresse dalla Consulta in ordine all'art. 3 non potrebbero valere per l'art. 4, in quanto, lo si ribadisce, oggetto di censura non sono la misura in sé dell'indennità o i limiti minimo e massimo della stessa, bensì esclusivamente il meccanismo automatico di calcolo, che è (era) previsto in maniera assolutamente analoga dagli articoli 3 e 4, decreto legislativo n. 23/2015.

E' del resto innegabile che il diritto a essere licenziati solo all'esito di un regolare procedimento disciplinare, o comunque in virtù di un provvedimento chiaro, espresso. specifico, motivato, non riceverebbe adeguata tutela da un meccanismo risarcitorio che consentisse di predeterminare in maniera fissa l'importo dell'indennità sulla base del solo criterio dell'anzianità del dipendente, risultando tale rimedio non congruo rispetto alla finalità di dissuadere i datori di lavoro dal porre in essere licenziamenti affetti da vizi di forma: parimenti, un tale congegno automatico di quantificazione dell'indennità impedirebbe di valorizzare la differente gravità delle violazioni commesse, che invece il precedente legislatore ha espressamente mostrato di voler tenere in considerazione, indicandola quale criterio di commisurazione del risarcimento (cfr. art. 18, comma 6 St. lav. così come modificato dalla legge n. 92/2012: «Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'art. 7 della presente legge, o della procedura di cui all'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo»).

L'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015 contrasta dunque con i principi di ragionevolezza e di uguaglianza sanciti dall'art. 3 Cost., nonché con gli articoli 4, comma 1 e 35, comma 1 Cost., poiché una tutela inadeguata a fronte di un licenziamento illegittimo sotto il profilo procedurale è altrettanto lesiva del diritto al lavoro quanto l'analoga inadeguata tutela, ormai dichiarata incostituzionale, prevista per i licenziamenti illegittimi sotto il profilo sostanziale.

Va inoltre considerato che le garanzie procedurali poste dall'ordinamento a presidio di un regolare e legittimo licenziamento disciplinare (la cui violazione ha appunto determinato la valutazione di illegittimità del licenziamento nel presente giudizio a quo) sono espressione del diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost., sicché l'irragionevole modalità di calcolo dell'indennità prevista dall'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015 finisce per contrastare anche con il precetto costituzionale del richiamato art. 24.

Come ricordato dalla stessa Corte costituzionale (sentenze n. 460 del 2000, n. 182 del 2008), vero è che la proclamazione contenuta nell'art. 24 Cost. indubbiamente si dispiega nella pienezza del suo valore prescrittivo solo con riferimento ai procedimenti giurisdizionali; essa non manca tuttavia di riflettersi, seppure in maniera più attenuata, sui procedimenti disciplinari, in ragione della «natura sanzionatoria delle pene disciplinari, che sono destinate ad incidere sullo stato della persona nell'impiego o nella professione» (Corte cost., sentenza n. 71 del 1995). L'approdo del procedimento può toccare invero la sfera lavorativa e, con essa, le condizioni di vita della persona e postula perciò, anche in relazione ai procedimenti non aventi carattere giurisdizionale, talune garanzie che non possono mancare, quali la contestazione degli addebiti e la conoscenza, da parte dell'interessato, dei fatti e dei documenti sui quali si fondano (Corte cost., sentenza n. 505 del 1995).

D'altro canto, gli ultimi arresti della giurisprudenza di legittimità ribadiscono che l'esercizio dei diritto di difesa ha piena copertura, in virtù dell'art. 24 Cost., anche in sede di procedimento disciplinare ex art. 7, legge n. 300/1970 (cfr. Cassazione n. 13383/2017, n. 16590/2018).

Si auspica pertanto che anche dall'art. 4, al pari di quanto avvenuto per l'art. 3, siano espunte le parole «di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», e che, nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità (da due a dodici mensilità), possa tenersi conto innanzitutto dell'anzianità di servizio, nonché della gravità della violazione formale o procedurale (criterio già espressamente previsto dall'art. 18, comma 6 St. lav.) e degli altri parametri indicati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 194/2018 (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti).

Rilevanza della questione.

Nel caso di specie, nella vigenza della norma qui sospettata di incostituzionalità, la ricorrente avrebbe diritto a un'indennità pari a due mensilità, posto che il suo rapporto lavorativo è durato poco più di un anno (dal 5 settembre 2016 al 24 ottobre 2017).

Se, viceversa, la questione di legittimità fosse accolta in termini analoghi a quanto avvenuto per l'art. 3, comma 1, i criteri da utilizzare per la commisurazione dell'indennità, in aggiunta all'anzianità di servizio, potrebbero essere ricercati nelle disposizioni di cui all'art. 8, legge n. 604/1966 e art. 18, comma 6 St. lav. (che a sua volta richiama il comma 5, prevedendo l'applicazione del «regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo»).

Occorrerebbe quindi considerare, da un lato, la ridotta anzianità di servizio della ricorrente (un anno), fattore che sposta la misura dell'indennità verso il limite minimo (due mensilità); dall'altro, gli elementi che invece inducono ad aumentare detta misura, vale a dire le notevolissime dimensioni dell'impresa convenuta in termini di fatturato e l'elevatissimo numero di dipendenti occupati (nell'ordine di migliaia), nonché la non trascurabile entità della violazione commessa dalla società datrice (mancata indicazione del termine a difesa nella lettera di contestazione), unitamente alla circostanza che uno solo degli addebiti posti a fondamento del recesso è risultato sussistente: la valutazione ponderata di tali criteri indurrebbe a ritenere equa, fra il minimo di 2 e il massimo di 12, un'indennità sicuramente superiore al minimo.

Ma anche laddove, nell'ipotesi di accoglimento della presente questione. i parametri cui ancorare la commisurazione dell'indennità venissero individuati non già nel combinato disposto dei commi 5 e 6 dell'art. 18 St. lav., bensì unicamente nel comma 6, dovendosi perciò valorizzare, unitamente all'anzianità di servizio, solo la minore o maggiore gravità della violazione, è innegabile che nel caso di specie la misura dell'indennizzo spettante alla ricorrente sarebbe superiore al minimo, in quanto la violazione procedurale commessa dalla datrice di lavoro non è di lieve entità: non solo è stata omessa l'indicazione del termine entro cui rendere le eventuali giustificazioni, ma è stata anche del tutto omessa la preventiva contestazione di uno degli addebiti (assenza ingiustificata dal lavoro per più di cinque giorni).

Impossibilità di interpretazione conforme a Costituzione.

La formulazione dell'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015 (al pari di quella dell'art. 3, comma 1) non offre possibilità di interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto il criterio dell'anzianità lavorativa è categoricamente indicato come l'unico in base al quale modulare il risarcimento, in rapporto di una mensilità per ogni anno di servizio, sicché l'unica alternativa alla applicazione letterale della norma sarebbe la sua disapplicazione, interdetta in difetto di una pronuncia di incostituzionalità.

Nell'evidente impossibilità di un'interpretazione costituzionalmente adeguata a fronte del chiarissimo tenore letterale della disposizione, e nell'altrettanto evidente impossibilità, per le ragioni in precedenza esposte, di estendere in via diretta all'art. 4 gli effetti della sentenza n. 194/2018, è dunque inevitabile sollevare il presente incidente di costituzionalità.

D'altro canto, questo giudice non si riconosce il potere, in sede di interpretazione conforme, di determinare, in base al proprio convincimento, la sanzione adeguata in caso di licenziamento illegittimo, né tantomeno il potere di applicare al caso concreto una norma diversa da quella prevista dal legislatore (in ipotesi applicando l'art. 18, comma 6, legge n. 300/1970, in luogo dell'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015), non potendo l'interpretazione conforme risolversi, com'è noto, in un effetto sostanzialmente abrogativo.

In conclusione, alla luce delle precedenti considerazioni, si ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma indicata in dispositivo in relazione ai profili sopra esposti.

Il giudizio in corso deve quindi essere sospeso e gli atti rimessi alla Corte costituzionale.

 

P.Q.M.

 

visto l'art. 23, comma 2 della legge 11 marzo 1953, n. 87,

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015 limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», per contrasto con gli articoli 3, 4 comma 1, 35 comma 1, 24 della Costituzione;

Sospende il presente giudizio;

Dispone la immediata trasmissione alla Corte costituzionale degli atti del giudizio, unitamente alla prova delle comunicazioni di seguito prescritte;

Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, nonché al Presidente del Consiglio dei ministri, e che sia comunicata ai presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. del 04 dicembre 2019, n. 49