Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 06 novembre 2019, n. 28500

Rapporto di lavoro - Trasferimento di ramo d'azienda - Inefficacia della cessione del contratto di lavoro

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Venezia, con sentenza del 5 maggio 2015, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva condannato T.I. Spa al pagamento in favore di L.C. della somma di euro 31.627,30, oltre accessori e spese, maturata dal settembre 2011 al gennaio 2013, successivamente alla sentenza del 2010 con cui era stata dichiarata l'inefficacia della cessione del suo contratto di lavoro in relazione al trasferimento di ramo d'azienda avvenuto in favore della M.F. Spa; tale importo rappresentava la differenza tra quanto percepito dalla lavoratrice presso la società cessionaria, ove era stata collocata in CIG a zero ore, e le retribuzioni che avrebbe dovuto percepire da T.

2. La Corte territoriale ha escluso - per quanto qui interessa - che la transazione a chiusura del rapporto di lavoro con M.F. Spa producesse effetto nel rapporto di lavoro con la cedente, anche perché nella conciliazione era espressamente specificato che la stessa non pregiudicava "le questioni riferite al rapporto di lavoro con T.I. Spa"; ha altresì escluso che gli importi percepiti dalla lavoratrice a titolo di incentivo all'esodo, quindi quale controprestazione rispetto al consenso prestato alla risoluzione anticipata dal rapporto, potessero essere detratti da somme erogate in relazione alle retribuzioni perdute nel periodo precedente la cessazione del rapporto stesso.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso T.I. Spa con due motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.; ha resistito con controricorso la C.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione degli artt. 2112 e 2126 c.c." sostenendo che "la transazione intervenuta con M.F. ha fatto cessare l'unico rapporto di lavoro di cui era titolare la sig.ra C. la quale dunque non ha più diritto a percepire alcunché da parte di T.".

Il motivo è infondato.

Infatti questa Corte ha affermato che "accertata la nullità della cessione del rapporto, il rapporto con il cessionario è instaurato in via di mero fatto e le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il solo cedente" (in termini: Cass. n. 5998 del 2018; in senso conforme, tra le altre, Cass. n. 13485 del 2014; Cass. n. 17736 del 2016; Cass. n. 2281 del 2018).

Inoltre nella specie non viene neanche adeguatamente censurata l'autonoma ragione della decisione secondo cui la transazione espressamente prevedeva essere fatti salvi i diritti relativi al rapporto di lavoro con T..

2. Con il secondo motivo si denuncia, subordinatamente, violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1227, 1223, 1256, 1453 e 1463 c.c. "nella parte in cui la sentenza non ha detratto, a titolo di aliunde perceptum, le somme corrisposte in favore della sig.ra C. in ragione del verbale di transazione sottoscritto con M.F.".

La censura non può trovare accoglimento.

La questione della natura dei crediti vantati dalla lavoratrice per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro da parte di T.I. Spa, nonostante la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo d'azienda (cui era addetta) a M.F. Spa, con decorrenza dalla messa in mora, trova soluzione nel senso della natura retributiva e non più risarcitoria (come invece secondo un indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n. 19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018, n. 16694) sulla scorta dell'insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte (sent. 7 febbraio 2018, n. 2990).

Come noto detta pronuncia ha sancito il seguente testuale principio di diritto: "in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l'obbligo di quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni, ... , a decorrere dalla messa in mora".

A tale indirizzo è stato riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d'azienda. Infatti la Corte d'Appello di Roma, sezione lavoro, con ordinanza di rimessione del 2 ottobre 2017, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del "combinato disposto" degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, censurando le citate disposizioni sulla mora del creditore, sul presupposto che limitassero la tutela del lavoratore ceduto - secondo l'interpretazione giurisprudenziale all'epoca accreditata - al risarcimento del danno, anche dopo la sentenza che avesse accertato l'illegittimità o l'inefficacia del trasferimento d'azienda. La Corte costituzionale ha preso atto (al p.to 6.3. del Considerato in diritto) "che l'indirizzo interpretativo, indicato come diritto vivente allorché sono state proposte le questioni di legittimità costituzionale, risulta disatteso dalla suddetta pronuncia delle Sezioni unite, successiva all'ordinanza di rimessione. Tale pronuncia mira a ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati". Dalla "qualificazione retributiva dell'obbligazione del datore di lavoro moroso" il Giudice delle leggi ha tratto la conseguenza di "privare di fondamento, ..., le questioni di legittimità costituzionale insorte sulla base di un'interpretazione di segno antitetico".

Pertanto, una volta sancita la natura retributiva delle somme da erogarsi dal cedente inadempiente al comando giudiziale ed escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo risarcitorio, non trova applicazione il principio della compensano lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità dell’aliunde perceptum dal risarcimento e, quindi, di detraibilità di somme percepite a titolo di incentivo all'esodo non è dato parlare.

Nella specie non vi è neanche questione di efficacia estintiva del pagamento del terzo perché la somma richiesta è relativa alla differenza tra quanto percepito dalla C. presso la società cessionaria, ove era stata collocata in CIG a zero ore, e le retribuzioni che avrebbe dovuto percepire da T..

3. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.