Difetto di proporzionalità tra sanzione espulsiva e condotta addebitata: tutela indennitaria

6 nov 2019 Con sentenza del 31 ottobre 2019, n. 28098, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito che, giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.

Nella specie, una Corte di appello territoriale, in accoglimento del reclamo del lavoratore ed in riforma della sentenza di primo grado, ha annullato il licenziamento intimato a un lavoratore, condannando la società alla reintegra dello stesso nel posto di lavoro, al pagamento in favore dello stesso di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegrazione ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali in relazione al medesimo periodo. In particolare, il giudice del reclamo ha ritenuto il difetto di proporzionalità tra la sanzione espulsiva e la condotta oggetto di addebito consistita nella fruizione di un permesso sindacale per fine diverso da quello normativamente previsto, osservando che in assenza di specifica tipizzazione della condotta da parte del r.d. n. 148/1931 o del contratto collettivo applicato, l’ipotesi in esame era assimilabile a quella dell'assenza arbitraria dal lavoro sino a 3 giorni di cui agli artt. 42 r.d. n. 148 del 1931 e 72 c.c.n.I. punita con sanzione conservativa.
Orbene, la sentenza impugnata, nel formulare il giudizio di non proporzionalità, ha dato atto che la fattispecie della fruizione di permesso sindacale per un fine diverso da quello normativamente previsto non era specificamente tipizzata e ritenuto che la stessa fosse sostanzialmente riconducibile a quella di assenza arbitraria dal lavoro. La decisione non si pone in contrasto con le norme delle quali si assume la violazione e con la relativa elaborazione giurisprudenziale in quanto: a) non esclude il disvalore e, quindi, il rilievo disciplinare del fatto ascritto; b) non sussume direttamente la fattispecie in esame in quelle di arbitraria assenza dal lavoro punite dal r.d. e dal contratto collettivo ma esprime una valutazione di assimilabilità a tali ipotesi sanzionate dal contratto collettivo.
In altri termini, compie un'operazione di integrazione della nozione legale della giusta causa di licenziamento ex art. 2119 cod. civ. e di quella correlata di proporzionalità della sanzione con riferimento ai criteri utilizzati dalle parti collettive nella graduazione delle sanzioni disciplinari. Tale operazione è coerente con la giurisprudenza della Suprema Corte la quale ha chiarito che giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. In questa prospettiva la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato il rilievo che a tal fine assume la considerazione del contratto collettivo e dalla scala valoriale ivi espressa nell’individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e nella relativa graduazione delle sanzioni.
La correttezza di detta operazione non risulta validamente inficiata dalle deduzioni del ricorrente in tema di configurabilità di un'ipotesi di abuso del diritto nel comportamento del lavoratore, la quale non comporta ex se, come sembrerebbe prospettare parte ricorrente, la sussistenza in concreto della giusta causa di licenziamento richiedendosi anche in questo caso la verifica della proporzionalità della sanzione espulsiva sulla base della integrazione del generale precetto di legge.
La sentenza impugnata ha dato espressamente atto dell’assenza di specifica tipizzazione della condotta addebitata sia da parte del regio decreto n. 148 del 1931 che del contratto collettivo, di talché, alla luce del novellato comma 5° dell'art. 18, non poteva trovare applicazione la pienezza della tutela reale ma solo la tutela indennitaria. Nella ricostruzione sistematica delle previsioni di cui all’art. 18, commi 4 e 5, legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, la Corte di Cassazione ha precisato che "La valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra poi nel IV comma dell'art. 18 solo nell'ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale caso, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali il V comma dell'art. 18 prevede la tutela indennitaria c.d. forte. La novella del 2012 ha introdotto, quindi, una graduazione delle ipotesi di illegittimità della sanzione espulsiva dettata da motivi disciplinari, facendo corrispondere a quelle di maggiore evidenza la sanzione della reintegrazione e limitando la tutela risarcitoria alla ipotesi del difetto di proporzionalità che non risulti dalle previsioni del contratto collettivo".