Sicurezza: indumenti da lavoro qualificati come DPI

In materia di sicurezza, l’accertamento dell’esistenza di rischi, specie di natura infettiva, per la salute dei lavoratori, è significativo ai fini della qualificazione degli indumenti forniti dal datore come D.P.I. dovendosi escludere che gli stessi non possiedano una specifica funzionalità protettiva desumibile da caratteristiche tecniche dettate per la loro realizzazione e commercializzazione, laddove non risultano adottati altri strumenti in grado di fronteggiare il rischio accertato (nela specie, le tute rappresentano per gli operatori ecologici l'unico schermo di protezione in concreto utilizzabile contro il possibile contatto con sostanze nocive per la salute). (Cassazione, ordinanza n. 26217/2019).

Nella specie, una Corte di appello territoriale respingeva la domanda di un operatore ecologico, di condanna di parte datoriale, al risarcimento dei danni da inadempimento di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale. In particolare, la Corte, richiamata la definizione di D.P.I., ha precisato che dispositivi di protezione individuale sono solo quelli aventi, secondo valutazioni tecnico scientifiche, la funzionalità tipica di protezione dai rischi per la salute e la sicurezza e che rispondono ai requisiti normativamente dettati per la relativa realizzazione e commercializzazione, escludendo, quindi, che gli indumenti da lavoro forniti dalla società datoriale potessero essere qualificati D.P.I. in quanto non destinati a fornire una adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive o agenti patogeni. I giudici di appello hanno negato che la società appellante fosse classificabile come industria insalubre di prima classe sul rilievo che il D.M. 5.9.94 ha individuato come tali unicamente gli impianti di depurazione e trattamento dei rifiuti solidi e liquami e gli impianti di trattamento, lavorazione e deposito dei rifiuti tossici e nocivi e non i servizi di raccolta e smaltimento rifiuti svolti dai lavoratori in questione. Ha dato atto di come il verbale di sopralluogo dell'Asl avesse indicato l'esistenza, nel settore della raccolta dei rifiuti, di un elevato ("pericolo maggiore") "rischio infettivo" richiamando, a proposito degli indumenti da lavoro, la previsione normativa sui D.P.I.; il medesimo verbale aveva fatto riferimento anche ad una "potenziale esposizione ad agenti microbiologici" ma riferita esclusivamente ai "casi di punture da ago e ferite da taglio" e ad alcune categorie di lavoratori con "mansioni di spazzino, di riporta sacchi, di addetto allo svuotamento dei pozzetti delle caditoie stradali" non svolte dall'appellato. Ha, infine, desunto dalla previsione contenuta nel citato verbale, di un lavaggio settimanale degli indumenti da parte della società, la conferma ulteriore della non appartenenza degli indumenti da lavoro in oggetto alla categoria dei D.P.I., risultando altrimenti l’unico lavaggio settimanale misura inidonea a preservare la salute dei dipendenti.
Orbene, la questione oggetto del ricorso è stata già trattata dalla Corte di Cassazione in numerose cause, nella quali ha ritenuto che "in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 cod.civ.; ne consegue la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei D.P.I.".
Si è quindi rammentato che "non sono dispositivi di protezione individuale: a) gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore;..". Ulteriormente poi la Corte ha ricordato che il D.Lgs. n. 626 del 1994, all'art. 4, comma 5 (sostituito dal D.Lgs. n. 81/2008), prevede che "il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori e, in particolare. .lett. d) fornisce ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione".
Nella specie, la Suprema Corte ritiene che si debba dare continuità ai precedenti orientamenti secondo cui, "da tali premesse discende come la previsione dell'art. 43, commi 3 e 4, D.Lgs. n. 626 del 1994, secondo cui "3. Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori i DPI (dispositivi di protezione individuale) conformi ai requisiti previsti dall'art. 42 e dal decreto di cui all'art. 45, comma 2"; 4. Il datore di lavoro: - a) mantiene in efficienza i DPI (dispositivi di protezione individuale) e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie )", non possa essere letta in senso limitativo del contenuto e del novero dei /- D.P.I., come ha fatto la Corte d'appello, bensì quale previsione di un ulteriore obbligo di carattere generale, posto a carico del datore di lavoro, di adeguatezza dei D.P.I. e di manutenzione dei medesimi".
La categoria dei D.P.I. deve essere, pertanto, definita in ragione della concreta finalizzazione delle attrezzature, degli indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai rischi per la salute e la sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, a prescindere dalla espressa qualificazione in tal senso da parte del documento di valutazione dei rischi e dagli obblighi di fornitura e manutenzione contemplati nel contratto collettivo.
Ancheh la circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 1999 ha elencato le diverse funzioni a cui possono assolvere gli indumenti di lavoro, in particolare: a) elemento distintivo di appartenenza aziendale, ad esempio uniformi o divise; b) mera preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa; c) protezione da rischi per la salute e la sicurezza; la circolare ha specificato che "in quest'ultimo caso gli indumenti rientrano nei dispositivi di sicurezza che assolvono alla funzione di protezione dai rischi ... Rientrano, ad esempio, tra i D.P.I. ... gli indumenti per evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche, corrosive o con agenti biologici ecc.".
In conclusione, la giurisprudenza di legittimità ha collegato l'obbligo di fornitura e manutenzione dei D.P.I. alla idoneità, seppur minima, dei medesimi di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell'attività lavorativa, costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le misure necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e quindi per prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici, l'insorgere e la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro familiari, a cui il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in ambito domestico.
Nella specie, l’accertamento dell’esistenza di rischi, specie di natura infettiva, per la salute dei lavoratori impegnati nell'attività di raccolta dei rifiuti, rischi legati al possibile contatto con sostanze nocive, tossiche o corrosive, contenuto in quel verbale è significativo ai fini della qualificazione degli indumenti forniti dalla società come D.P.I. dovendosi escludere che gli stessi non possedessero una specifica funzionalità protettiva desumibile da caratteristiche tecniche dettate per la loro realizzazione e commercializzazione tenuto conto del fatto che non risultavano adottati altri strumenti in grado di fronteggiare il rischio pacificamente accertato, cosicché le tute rappresentavano per gli operatori ecologici l'unico schermo di protezione in concreto utilizzabile contro il possibile contatto con sostanze nocive per la salute.