Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 28 settembre 2017, n. 22720

Cessazione dell'intera attività imprenditoriale - Licenziamento collettivo - Reintegrazione - Indennità sostitutiva - Stato di gravidanza della lavoratrice

 

Fatti di causa

 

Con sentenza n. 926/2014 la Corte d'appello di L'Aquila, respingendo l'appello principale e quello incidentale, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato l'inefficacia del licenziamento intimato il 4 dicembre 2009 ad A.E., durante la gravidanza, da T.W. s.p.a. nel corso di una procedura di licenziamento collettivo e condannato la datrice di lavoro a corrispondere alla lavoratrice, in luogo della reintegrazione, l'indennità sostitutiva pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto ed ulteriori cinque mensilità a titolo di risarcimento del danno, oltre accessori.

La Corte territoriale, ricordati i contenuti dell'art. 54 d.lgs. 151/2001 come modificato dal d.lgs. 115/2003, ha affermato che il licenziamento era vietato posto lo stato di gravidanza della lavoratrice alla data del 4 dicembre 2009 e che era insussistente il presupposto escludente il divieto, costituito dalla cessazione dell'intera attività imprenditoriale.

Avverso la sentenza d'appello ricorre per cassazione T.W. s.p.a con unico motivo illustrato da memoria. Resiste A.E. con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il motivo di ricorso si deduce, contemporaneamente, violazione e o falsa applicazione dell'art. 54 del d.lgs. n. 151/2001 ed omesso esame circa il fatto decisivo dell'effettiva cessazione dell'attività aziendale. In sostanza, la società ricorrente afferma che la Corte territoriale avrebbe errato nel non ritenere integrata la condizione della cessazione dell'attività dell'azienda posto che erano stati licenziati, a seguito della procedura di mobilità iniziata con comunicazione dell'8 giugno 2009, i dipendenti del sito di l'Aquila tra i quali si trovava la Evangelista. La condizione legittimante l'esenzione dal divieto dì licenziamento valeva anche laddove, come nel caso di specie, si era verificata la chiusura del solo reparto di contact center - dotato di autonomia funzionale - presso cui prestava attività la lavoratrice in gravidanza, ai sensi dell'art. 54 comma terzo lett. b) d.lgs. 151/2001. Ad avviso della ricorrente, inoltre, dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 115/2003 non poteva dirsi sussistente alcun divieto assoluto di licenziamento della lavoratrice madre a seguito di procedura di mobilità.

2. Alla disamina del motivo va premesso che a seguito della sentenza n. 61 del 1991 della Corte Costituzionale non può essere messo in discussione che il licenziamento della lavoratrice madre, al di fuori delle ipotesi consentite dalla legge, è nullo e non meramente privo di temporanea inefficacia; da ciò discende che la tecnica di intimazione del licenziamento di A.E., caratterizzata dalla intimazione durante la gravidanza e con previsione di efficacia differita ad epoca successiva al compimento del primo anno di vita del figlio, non vale a modificare i tratti essenziali della fattispecie normativa e del relativo quadro sanzionatorio giacché attraverso tale espediente risulta di fatto frustrato lo scopo di tutelare il diritto alla serenità della gestazione che la Corte Costituzionale con la pronuncia suddetta ha posto a fondamento della pronuncia di dell'art. 2 I. 30 dicembre 1971 n. 1204, nella parte in cui prevedeva la temporanea inefficacia anziché la nullità del licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio.

3. Dunque, il quadro normativo al cui interno va collocata la concreta fattispecie in esame va riferito, essenzialmente, al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54, decreto contenente il "Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma della L. 8 marzo 2000, n. 53, art. 15". Tale norma, proveniente, quanto al licenziamento, dalla L. 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 2, dopo aver ribadito, nei commi 1 e 2, il divieto di licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza al compimento di un anno di età del figlio, con le eccezioni di cui al comma 3, tra le quali quella relativa alla "cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta", contiene al comma 3, lett. b)"

4. una disposizione del seguente tenore:

"Durante il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, semprechè il reparto stesso abbia autonomia funzionale. La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni". Nel successivo Decreto 23 aprile 2003, n. 115 - emanato ai sensi della Legge Delega 8 marzo 2000, n. 53, art. 15, comma 3, come modificato dalla L. 16 gennaio 2003, n. 3, art. 54, (che aveva prorogato fino a due anni l'originario termine di un anno assegnato al Governo dalla L. n. 53 del 2000, art. 15, comma 3, per procedere all'eventuale emanazione, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui al comma 1, di disposizioni correttive del testo unico) -, l'art. 4, comma 2, ha inserito nel D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 4, dopo le ultime parole, le seguenti: "salva l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell'attività dell'azienda di cui al comma 3, lett. b)".

4. Per effetto di tale modifica, il testo dell'art. 54, comma 4, seconda parte, è divenuto il seguente: "La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, salva l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell'attività dell'azienda di cui al comma 3, lett. b)". Tale formulazione richiede di precisare se la cessazione dell'attività dell'azienda possa anche riferirsi al solo reparto presso cui la dipendente prestava la propria attività. E' questa, peraltro, la tesi della società ricorrente.

5. Il tenore testuale della norma, come già osservato da questa Corte di cassazione con le sentenze nn. 18810/2013 e 18363/2013 cui si intende dare continuità, indica che solo in caso di cessazione dell’attività dell'intera azienda è possibile il collocamento in mobilità della lavoratrice madre, in quanto il D. Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b), prevede la non applicabilità del divieto di licenziamento di cui al comma 1 nell'ipotesi chiara di "cessazione dell'attività dell'azienda" alla quale la lavoratrice è addetta e trattandosi di norma che pone un'eccezione ad un principio di carattere generale (e cioè quello fissato dall'art. 54, comma 1, di divieto del licenziamento della lavoratrice che si trovi nelle condizioni ivi specificate), essa non può che essere di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica. Ritiene quindi il Collegio di dare ulteriore continuità al principio di diritto affermato da questa Corte nella sentenza n. 10391 del 2005 secondo cui, in tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento dettato dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54 - secondo cui è vietato il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino - prevista dall'art. 54, comma 3, lett. b), del medesimo decreto, opera nell'ipotesi di cessazione di attività dell'azienda alla quale la lavoratrice è addetta ed è insuscettibile di interpretazione estensiva ed analogica; ne consegue che, per la non applicabilità del divieto devono ricorrere entrambe le condizioni previste dalla citata lett. b), ovvero che il datore di lavoro sia un'azienda, e che vi sia stata cessazione dell'attività.

6. Deve, darsi atto della circostanza che la giurisprudenza di legittimità aveva in precedenza interpretato la locuzione "cessazione dell'attività di azienda" come estensibile alla soppressione di un ramo o reparto del tutto autonomo e salva la prova del repechage (Cass. 21.12.2004 n. 23684, conf. Cass. 8.9.1999 n. 9551), enunciando tale principio nell'ambito di fattispecie regolate dalla L. n. 1204 del 1971. Questa, seppure all'art. 2, comma 3, lett. b) conteneva una previsione analoga a quella del D.Lgs. 30 dicembre 2001, n. 151, art. 54, comma 3, lett. b) al comma 4 era priva della specificazione (del divieto di collocamento in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salva l'ipotesi della cessazione dell'attività dell'azienda) introdotta dal legislatore del 2001 in funzione rafforzativa della tutela della lavoratrice madre. La collocazione di tale previsione dopo quella relativa alla sospensione dal lavoro ("...la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, sempreché il reparto stesso abbia autonomia funzionale") costituisce un'indicazione interpretativa che porta a ritenere che quello che costituiva il parametro comune assunto dalla giurisprudenza per giungere ad assimilare l'ipotesi di cessazione dell'attività di un ramo o reparto autonomo a quella dell'intera azienda, ai fini dell'operatività delle deroga al divieto legale, non sia più validamente richiamabile per le fattispecie regolate (come quella in esame) dal D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 e che, dunque, non sia argomentabile l'estensione interpretativa prima sostenuta.

7. Peraltro, nelle decisioni di questa Corte sopra richiamate, si è opportunamente messo in evidenza che anche nella vigenza della L. n. 1204 del 1971, l'orientamento di legittimità non era univoco. La sentenza n. 1334 del 1992 aveva infatti affermato che le disposizioni della L. 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 2 che prevedono entro limiti precisi e circoscritti deroghe al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre dall'inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, riferibili a casi in cui l'estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato, non possono essere interpretate in senso estensivo. Pertanto la disposizione della lett. b) del citato articolo - che nel periodo suddetto consente al datore di lavoro di recedere dal rapporto nel caso di cessazione dell'attività dell'azienda - non può essere intesa come comprensiva del caso di cessazione dell'attività di un singolo reparto dell'azienda, seppur dotato di autonomia funzionale, atteso che il legislatore ha considerato tale articolazione dell'azienda solo nell'ultimo comma dello stesso art. 2, disponendo che nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo che sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto al quale la medesima è addetta, sempreché il reparto abbia autonomia funzionale ( in tal senso sono state richiamate anche Cass n. 1334/92; n. 6236 del 1986).

8. Da quanto sin qui espresso emerge con chiarezza che l'aver chiuso e cessato l'attività del solo contact center di l'Aquila, ove la Evangelista prestava attività - non può integrare in favore della società ricorrente il presupposto della cessazione dell'attività aziendale che avrebbe reso inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre.

9. Il secondo profilo del motivo del ricorso - che verte sulla dimostrazione della effettiva cessazione dell'attività della sede di l'Aquila - presuppone l’adesione al diverso orientamento secondo cui il caso della cessazione dell'attività dell'azienda, in relazione al quale il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b), - al pari della L. 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 2, comma 3, lett. b), - prevede l'inapplicabilità del divieto di licenziamento della lavoratrice, è integrato anche dalla soppressione di un reparto organizzato avente autonomia funzionale, qualora la lavoratrice ad esso addetta non sia più utilmente collocabile in un reparto diverso. In ogni caso, pure ove di accedesse a tale interpretazione, il motivo sarebbe inammissibile.

Premesso che grava sul datore di lavoro l'onere di fornire la prova dell'impossibilità di ogni altra utile collocazione della lavoratrice in altri rami dell'azienda diversi da quello la cui attività sia cessata (cfr. in tal senso, Cass. 16 novembre 1985 n. 5647, 26 marzo 1982 n. 1897, 11 dicembre 1982 n. 6806), la censura con cui la società ricorrente investe la decisione per non avere approfondito tali aspetti (vedi punto 21 del ricorso) è del tutto generica ed inidonea ad incrinare la logicità e coerenza della motivazione . Invero, si trattava di dare dimostrazione di un fatto negativo come quello che costituiva oggetto dell'onere probatorio gravante sul datore di lavoro per cui lo stesso avrebbe dovuto offrire prova di fatti positivi, come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo lasso di tempo non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica (Cass. 13 novembre 2001, n. 14093 e 9 settembre 2003 n. 13187).

9. Le spese relative al giudizio di legittimità sono a carico della ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza.

Sussistono le condizioni per il versamento da parte della ricorrente principale del doppio contributo previsto dall'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115/2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15 per cento e spese accessorie.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.