Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 aprile 2016, n. 6796
Rapporto di lavoro - Ripristino festività nazionale 2 giugno - Ferie - Decurtazione
1 - Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:
<<Con sentenza resa in data 3 dicembre 2012, la Corte di appello di Ancona, nel giudizio di impugnazione proposto A.L. nei confronti della S. S.p.A., in riforma della sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno condannava la società appellata a riconoscere in favore dell’appellante un ulteriore giorno di ferie per ciascun anno di servizio a decorrere dal 2001. Con l’originario ricorso il lavoratore aveva chiesto che fosse accertata l’illegittimità del comportamento datoriale posto in essere a seguito dell’intervenuto ripristino, ad opera della legge n. 336/2000, della festività nazionale del 2 giugno (precedentemente soppressa da altre leggi) e consistito, per l’anno 2001, nella decurtazione di una giornata di ferie (in realtà non goduta) e, per gli anni successivi, nella ricontabilizzazione dei giorni di ferie e permessi retribuiti con decurtazione di una giornata per ciascun anno di servizio (sempre non goduti). Riteneva la Corte territoriale che il diritto al godimento del giorno di ferie aggiuntivo fosse da ricollegarsi all’accordo interconfederale del 27/7/1978 (successivo alla soppressione della festività del 2 giugno ad opera della legge n. 54/1977) la cui validità non poteva ritenersi cessata solo per effetto della reintroduzione della festività del 2 giugno ad opera della successiva legge n. 336/2000.
Avverso tale sentenza la S. S.p.A. propone ricorso affidato a due motivi.
A.L. resiste con controricorso.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 359, 112 e 113 cod. proc. civ.. Si duole del fatto che la Corte territoriale abbia ignorato completamente i motivi di appello ed in particolare ignorato che l’appellante avesse posto alla base del gravame la questione della violazione della presupposizione.
Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque manifestamente infondato.
La censura, invero del tutto generica, è formulata in modo da non consentire alla Corte di legittimità di apprezzare la fondatezza del rilievo.
Anche laddove sia dedotta, come nella specie, la violazione, nel giudizio di merito, dell’art. 112 cod. proc. civ., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di "errar in procedendo" per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente - per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio "per relationem" agli atti della fase di merito - dell’onere di indicarli compiutamente e trasporne il contenuto nella parte in cui esso rileva, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi (così ex plurimis Cass. n. 15367 del 2014, n. 21226 del 2010).
Peraltro, nella specie, l’esame di tutte le questioni poste dall’appellante si evince proprio da quel passaggio motivazionale evidenziato dalla stessa ricorrente nel quale la Corte territoriale afferma che "non è assolutamente il caso di richiamare principi giuridici o argomenti logici che non possono applicarsi al caso".
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione del combinato disposto di cui agli artt. 360, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ. in regione agli artt. 1362 e ss. cod. civ.. Lamenta che la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto la permanenza della validità dell’accordo interconfederale del 27/7/1978 anche dopo il ripristino della festività del 2 giugno ad opera delle leggi successive allo stesso laddove il presupposto di tale accordo era stato proprio quello di regolamentare il regime delle festività soppresse.
Il motivo è innanzitutto improcedibile.
In allegato al ricorso per Cassazione, infatti, non risulta depositato l’accordo interconfederale del 27 luglio 1978 in relazione all’interpretazione del quale fonda le censure.
Inoltre, di tale accordo non è riprodotto il contenuto, neppure nelle parti di interesse a reggere i rilievi, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso.
E’ stato da questa Corte precisato che l’onere di deposito degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o degli accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso, sancito, a pena di sua improcedibilità, dall’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. è, invero, soddisfatto: a) qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di quelle fasi, mediante il deposito di quest’ultimo, specificandosi, altresì, nel ricorso l’avvenuta sua produzione e la sede in cui quel documento sia rinvenibile; b) se il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l’indicazione che lo stesso è depositato nel relativo fascicolo del giudizio di merito, benché, cautelativamente, ne sia opportuna la produzione per il caso in cui quella controparte non si costituisca in sede di legittimità o la faccia senza depositare il fascicolo o lo produca senza documento (cfr. Cass., Sez. Un., 7 novembre 2013, n. 25038).
Nella specie è solo riferito di una avvenuta produzione di tale documento al "n. 5 del fascicolo di primo grado di controparte" ma tale generico cenno non consente a questa Corte neppure di sapere se si tratti dell’intero testo dell’Accordo e di svolgere la funzione nomofilattica che le è propria.
Il motivo è, in ogni caso, manifestamente infondato alla luce delle plurime decisioni di questa Corte intervenute in vicende del tutto analoghe (Cass. 4 settembre 2014, n. 18715; Cass.25 settembre 2014, nn. 20201, 20202, 20203, 20204, 20205, 20206; Cass. 4 settembre 2014, n. 18715).
In tali decisioni è stato innanzitutto evidenziato che si era in presenza di un rapporto asimmetrico tra la legge che aveva eliminato alcune festività e l’Accordo collettivo successivo che aveva previsto un incremento di ferie e permessi numericamente non corrispondente alle soppressioni nel tempo intervenute ma inferiore.
Inoltre è stato precisato che l’evoluzione legislativa intervenuta dopo la stipula dell’Accordo interconfederale che aveva previsto giorni di ferie o permessi aggiuntivi avrebbe potuto (forse dovuto) indurre le parti collettive ad un ripensamento della regolamentazione pattizia ma le organizzazioni datoriali e sindacali che avevano sottoscritto l’accordo non hanno ritenuto di operare una revisione del contenuto dell’atto sulla base delle nuove emergenze legislative. Tale revisione non può operarla il giudice, legittimando l’iniziativa unilaterale di un soggetto privato che non è parte dell’accordo collettivo. Non va dimenticato che parti del contratto collettivo (id est dell’accordo interconfederale) sono le organizzazioni datoriali e dei lavoratori, che avevano tutti i poteri per aggiornare la regolamentazione e non lo hanno fatto. Anzi, pur avendo rinnovato più volte la contrattazione del settore negli anni successivi alle modifiche legislative, hanno omesso di aggiornare e ricalibrare la disciplina di questa materia. Il singolo lavoratore o datore di lavoro aderente alle organizzazioni stipulanti non ha poteri modificativi della regolamentazione collettiva.
In presenza, dunque, di un "atto normativo" con efficacia vincolante per il singolo aderente alle associazioni stipulanti, l’unica via per sottrarsi a tale efficacia è quella del recesso dall’associazione.
In conclusione, non è possibile considerare legittimo il comportamento di una delle parti (non dell’accordo interconfederale, ma) del contratto individuale di lavoro, che, unilateralmente, abbia deciso di disapplicare parzialmente (e quindi modificare) il contenuto dell’accordo medesimo a seguito di (una delle) modifiche legislative in materia di festività, che invece le stesse parti collettive non hanno ritenuto idonee a determinare revisioni della disciplina dell’accordo nazionale da loro sottoscritto.
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5>>.
2 - Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis cod. proc. civ..
3 - Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.
4 - In conclusione il ricorso va rigettato.
5 - La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
6 - Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 del 2012), che ha integrato l’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: "Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso".
Essendo il ricorso in questione integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 2.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%, con attribuzione all’avv.to C.L., antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.