Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 14 ottobre 2016, n. 20817

Licenziamento per giusta causa - Reintegra - Provvedimento cautelare - Ricostituzione "ex tunc" del rapporto di lavoro

 

Svolgimento del processo

 

1. — Con sentenza del 1° ottobre 2014 la Corte di Appello di Messina ha confermato la pronuncia di primo grado che, all'esito di un procedimento regolato dalla I. n. 92 del 2012, aveva ritenuto la legittimità del licenziamento intimato per giusta causa in data 25 novembre 2011 dalla P. Spa nei confronti di G.C.

La Corte ha innanzitutto escluso l'esistenza di una "ragione persecutoria/discriminatoria" a fondamento dell'impugnato licenziamento così come addotta dal C., non potendo essa ancorarsi solo ed esclusivamente alla reiterazione dell'atto risolutorio.

Ha poi ritenuto che la lettera di contestazione degli addebiti del 28 ottobre 2011 era stata comunicata successivamente all'ordinanza del giudice del lavoro di Messina che, in data 23 settembre 2011, aveva ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro del C. in relazione a precedente licenziamento, per cui - secondo la Corte - "è già in quel momento che deve ritenersi ricostituito il rapporto di lavoro", anche tenendo conto della nota del 27 ottobre 2011 con cui la società revocava i precedenti recessi e che era da intendersi come rinuncia a far valere mezzi di impugnazione volti a rimuovere dal mondo giuridico l'ordinanza di reintegra.

La Corte di Appello ha quindi considerato legittimo l'esercizio del potere disciplinare quando il rapporto era stato già ricostituito ed anche caratterizzato da "assoluta consequenzialità e tempestività" dal punto di vista temporale.

Infine, valutando il merito della questione, i giudici distrettuali hanno condiviso il giudizio della sentenza di primo grado nel senso che l'accertato espletamento da parte del C. di una attività di consulente tecnico d'ufficio negli orari di lavoro, con annotazione di dati di terzi sul sistema informatico della società e con uso della posta elettronica aziendale, costituisca giusta causa di licenziamento, anche tenendo conto "del rivendicato ruolo apicale rivestito dal lavoratore che ancor più avrebbe dovuto indurlo al massimo rispetto dei suoi obblighi contrattuali".

2. — Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso G.C. con tre motivi.

Ha resistito con controricorso la società, illustrato da memoria.

 

Motivi della decisione

 

3. — Con il primo motivo di ricorso per cassazione si deduce <nullità della sentenza (360 n, 4 c.p.c.) per omesso integrale esame del primo motivo del trascritto ricorso in appello "il fumus persecutionis e la pretestuosità del licenziamento, artatamente preconfezionato per il C.">.

Il motivo è privo di fondamento.

Dalla lettura della pag. 3 della sentenza impugnata si ricava agevolmente che non solo la Corte territoriale ha individuato tra i motivi di reclamo quello attinente "la natura persecutoria del licenziamento" ma si è anche pronunciata su di esso, escludendo la "addotta ragione persecutoria/discriminatoria".

Il fatto che tale esclusione non corrisponda alle attese del C. evidentemente non rende la pronuncia omessa.

4. — Con il secondo mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della I. n. 300 del 1970 e dell'art. 29 di un CCNL non meglio precisato nel corpo del motivo.

Si sostiene che le contestazioni disciplinari ed il licenziamento sarebbero state irrogate in mancanza di una effettiva ricostituzione del rapporto di lavoro; si deduce che la revoca del licenziamento non può determinare effetto ai fini della ricostituzione del rapporto in assenza di una esplicita accettazione del lavoratore, che nella specie non ci sarebbe stata.

Infine si lamenta violazione del diritto di difesa e del principio di tempestività ed immediatezza della contestazione.

Il motivo, oltre a presentare profili di inammissibilità perché riproposto - secondo le stesse parole del ricorrente - "negli esatti termini nei quali è stato rassegnato" nel ricorso in appello, così trascurando che l'impugnazione per cassazione, dal punto di vista del contenuto a critica vincolata, ha caratteri e regole del tutto diverse rispetto al gravame in grado d'appello, è comunque infondato.

Non coglie infatti l'effettiva ratio decidendi della decisione impugnata perché si incentra sulla questione della revoca del licenziamento, mentre in realtà la Corte distrettuale ritiene ricostituito il rapporto di lavoro prima della contestazione disciplinare in ragione di un provvedimento giudiziale di reintegra e tale aspetto non viene efficacemente censurato.

Inoltre questa Corte ha affermato "che è possibile il licenziamento del lavoratore che sia stato reintegrato nel posto di lavoro sulla base di un provvedimento cautelare, attesa l’efficacia di siffatto provvedimento, al pari del provvedimento di reintegrazione emesso all'esito del giudizio ordinario, di operare la ricostituzione "ex tunc" del rapporto di lavoro da considerarsi, pertanto, privo di soluzione di continuità" (Cass. n. 19104 del 2013). In tale pronuncia si afferma altresì che quello sulla ricostituzione del rapporto a seguito di ordinanza cautelare è un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità; nella specie il giudizio della Corte territoriale di avvenuta ricostituzione del rapporto di lavoro regge non solo sul provvedimento giudiziale ma anche sul comportamento della società che disponeva la revoca di precedenti recessi "da intendersi come rinuncia a far valere mezzi di impugnazione volti a rimuovere dal mondo giuridico l'ordinanza di reintegra".

Quanto alla doglianza circa la violazione del principio dell'immediatezza, a parte la sua genericità, occorre rammentare che "la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato" (Cass. n. 5546 del 2010; Cass. n. 29480 del 2008; Cass. n. 14113 del 2006).

Ma il vizio attinente a tale giudizio di merito, riguardando la ricostruzione dei fatti e la loro valutazione, essendo tipicamente sussumibile nel paradigma dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., per i giudizi di appello instaurati successivamente al trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, non può essere denunciato, rispetto ad un reclamo proposto il 14 luglio 2014 dopo la data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.). Ossia II vizio di cui all'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme (v. Cass. n. 23021 del 2014).

La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dall'art. 1, commi da 58 a 60, della legge n. 92/2012, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso Cass. n. 23021 del 2014; conforme: Cass. n. 4223 del 2016), per cui l'invocato sindacato sul giudizio di merito circa la tempestività della contestazione disciplinare, espresso concordemente nel doppio grado ad esso riservato, è precluso a questa Corte.

5. — Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. per "inidoneità degli addebiti ad assurgere a giusta causa". Si lamenta che "in nessuna delle fattispecie previste dal CCNL vigente alla data del rapporto di lavoro rientrano le presunte violazioni contestate tanto da giustificare il licenziamento come provvedimento, ed è evidente una sproporzione tra la sanzione e gli addebiti''.

Orbene questa Corte insegna che anche il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003).

La Corte di Appello di Messina, condividendo sul punto il giudizio espresso in prime cure, ha considerato che l'accertato espletamento da parte del C. di una attività di consulente tecnico d'ufficio negli orari di lavoro, con annotazione di dati di terzi sul sistema informatico della società e con uso della posta elettronica aziendale, costituisca "grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario", anche tenendo conto "del rivendicato ruolo apicale rivestito dal lavoratore che ancor più avrebbe dovuto indurlo al massimo rispetto dei suoi obblighi contrattuali", atteso che "maggiori poteri, invero, presuppongono una maggiore intensità della fiducia e uno spazio più ampio ai fatti idonei a scuoterla".

Il motivo in esame invoca genericamente una rinnovazione inammissibile del giudizio di merito già esercitato con una "doppia conforme" dai giudici al cui dominio è istituzionalmente riservato, per cui ogni ulteriore sindacato è precluso in questa sede di legittimità per le ragioni processuali già esposte nel paragrafo che precede.

6. — Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Poiché il ricorso per cassazione risulta nella specie notificato in data 1° dicembre 2014 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1, co. 17, L. n. 228 del 2012.

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.100,00, di cui euro 100 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.