Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 23 settembre 2016, n. 18715

Licenziamento - Per giusta causa - Grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro - Sussistenza - Lesione del vincolo fiduciario - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

1. - Con sentenza del 10 febbraio 2015 la Corte di Appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza del locale Tribunale circa la legittimità del licenziamento intimato per giusta causa dalla U.B.C. Spa nei confronti di C.C. in data 12 giugno 2012.

La Corte territoriale, uniformemente al giudizio già espresso in primo grado sia nella fase sommaria che nella fase di opposizione del rito di cui all'art. 1, commi 47 e ss., I. n. 92 del 2012, ha ritenuto la sussistenza dell'addebito contestato in data 16 maggio 2012 e riferito a numerose condotte per le quali la dipendente era stata rinviata a giudizio in data 12 aprile 2012, imputata innanzitutto di associazione a delinquere per avere - come riportato dalla sentenza impugnata - "assicurato, assieme al figlio D., quest'ultimo in stretto contatto con M.P., la disponibilità a trattare, omettendo i dovuti controlli, le pratiche di finanziamento che venivano presentate dal predetto M. e altri parenti e accoliti alla B.C., fornendo costantemente informazioni circa i rischi derivanti da ispezioni e controlli e assicurando pertanto i profitti dei crediti erogati".

2. - Per la cassazione di tale sentenza C.C. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. La B.C. Spa ha resistito con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

3. - I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati.

Con il primo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione, al sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell'art. 37 del CCNL per i Quadri Direttivi e Personale Dipendenti Imprese creditizie, finanziarie e strumentali nonché vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n, 5, c.p.c., per avere la Corte di Appello ritenuto legittima e conforme alla norma predetta la condotta della Banca concretizzatasi nel non aver mai manifestato per iscritto la volontà di attendere gli esiti del procedimento penale, omettendo allo stesso tempo di contestare gli addebiti alla Cartella a ridosso dei fatti e tenendo, nelle more, una condotta illegittima e gravemente lesiva dell'affidamento e del diritto di difesa della lavoratrice; conseguente violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. per aver ritenuto la condotta della Banca conforme ai generali criteri di correttezza e buona fede ed aver considerato tempestiva e non lesiva del diritto di difesa, ai sensi dell'art. 7 della I. n. 300 del 1970, la contestazione disciplinare e il successivo licenziamento, in relazione alle circostanze concrete della fattispecie in esame.

Con il secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., degli artt. 2106 e 2119 c.c., art. 7 I. n. 300/70, per non avere la Corte territoriale ravvisato una grave incoerenza del licenziamento consistente nell'essere inflitta una sanzione conservativa ad altro dipendente al quale era stato contestato, in qualità di concorrente, il medesimo illecito disciplinare, in mancanza e/o insufficienza di specifiche ragioni di diversificazione, per cui sarebbe "logicamente e giuridicamente da escludersi una gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva con conseguente illegittimità e grave sproporzione del licenziamento".

Con il terzo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 7 della I. n. 300/70, dell'art. 2119 e dell'art. 2697 c.c. nonché vizio di motivazione ex art. 360, co. 1, n, 5, c.p.c. per avere la Corte di Appello ritenuto "provati, imputabili e tempestivi gli addebiti mossi alla lavoratrice" oltre che supportati dal necessario elemento psicologico.

Con il quarto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell'art. 2104 e 2119 c.c. nonché vizio di motivazione per avere la Corte di Appello affermato, ai fini della valutazione della giusta causa di licenziamento, la doverosità di controlli ulteriori a quelli prescritti nelle disposizioni regolamentari della Banca e/o inesigibili perché in contrasto con la normativa aziendale se non addirittura aver considerato legittimo il recesso nonostante fossero state contestate alla lavoratrice delle condotte estranee alla sua stessa competenza funzionale e propriamente esorbitanti le sue mansioni precipue o non avere considerato adeguatamente che le erano state condotte poste in essere da altri gestori in sua assenza per ferie e/o comunque inesigibili e sproporzionate ai fini espulsivi.

4. - Il ricorso non può trovare accoglimento.

I motivi, che possono essere valutati congiuntamente per reciproca connessione, oltre ad essere inammissibilmente formulati in modo promiscuo denunciando violazioni di legge o di contratto e vizi di motivazione senza che nell'ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell'uno o dell'altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l'operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v., in particolare, Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella sostanza contestano l'accertamento operato dai giudici del merito in ordine alla ritenuta legittimità del licenziamento, criticando per vari profili la valutazione da costoro compiuta con doglianze intrise di circostanze fattuali, mediante un pervasivo rinvio a deposizioni testimoniali e documenti.

Si trascura però di considerare che il presente giudizio di cassazione, ratione temporis, è sottoposto alle nuove regole imposte dall'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione secondo cui le sentenze possono essere impugnate "per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti", e dall'art. 348 ter, ult. co. c.p.c., secondo cui il vizio di cui innanzi comunque non può essere proposto con il ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado, ossia non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme (v. Cass. n. 23021 del 2014; Cass. n. 4223 del 2016).

Tale ultima disposizione è applicabile anche al reclamo che ci occupa disciplinato dall'art. 1, commi da 58 a 60, della legge n. 92/2012, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso Cass. n. 23021 del 2014; conforme: Cass. n. 4223 del 2016).

Non hanno dunque ingresso in questa sede tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica come operata dai giudici di merito, anche relative alla tempestività della procedura disciplinare, e che lamentano una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla valutazione giudiziale delle risultanze di causa, sia perché formulate in modo difforme dai principi enunciati da Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014, che ha rigorosamente interpretato il novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., sia laddove attingono questioni di fatto in cui la sentenza di appello ha confermato la pronuncia di primo grado.

Quanto alle censure con cui, in varie forme, si denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell'art. 2119 c.c., anche in collegamento con gli artt. 2104 e 2106 c.c., occorre ribadire i confini del sindacato di questa Corte a mente dell'art. 360, co, 1, n. 3, c.p.c., ove si controverta della giusta causa di licenziamento.

In generale l'attribuzione di un contenuto precettivo ad una norma, compreso in un intervallo di interpretazioni plausibili, è operazione che compie ogni giudice nell'assegnare un significato alla disposizione interpretata, ma che compete a questa Corte precisare progressivamente mediante puntualizzazioni, a carattere generale ed astratto, sino alla formazione del cd. diritto vivente (cfr. Cass. n. 18247 del 2009).

Tale operazione di attribuzione di significato non è logicamente dissimile per le norme contenenti le cd. clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati, anche se non se ne possono negare le peculiarità legate alla circostanza che in tali disposizioni si richiamano concetti elastici, che necessitano di una integrazione che accentua lo spazio lasciato all'interprete, delegato ad effettuare un giudizio di valore che concretizza la norma oltre i rigidi confini dell'ordinamento positivo.

Tanto accade anche per la giusta causa o, con diversità solo di grado, per il giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Si tratta di disposizioni di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nei tempo, mediante la valorizzazione sia di principi che la stessa disposizione richiama sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero al rispetto di criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare, anche collettiva, in cui si colloca la disposizione.

Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (tra le innumerevoli: Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010); dunque non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell'individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, "tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento" (per tutte v. Cass. N. 434 del 1999), traducendosi in un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).

Tuttavia è stato evidenziato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005).

Invece, nella specie, parte ricorrente non identifica quali siano i parametri integrativi della clausola generale che sarebbero stati violati dai giudici di merito, limitandosi esclusivamente a ribadire che secondo il suo giudizio - che è solo quello personale della parte che vi ha interesse - il fatto addebitato non costituirebbe giusta causa di licenziamento, per cui, anche per questo profilo, la sentenza impugnata non risulta efficacemente censurata.

Le Sezioni Unite di questa Corte, poi, insegnano (sent. n. 5 del 2001) che il controllo di legittimità non si esaurisce in una verifica dell'attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva di una norma, ma il vizio di cui al n. 3 dell'art. 360, co. 1, c.p.c. comprende anche l'errore di sussunzione del fatto nell'ipotesi normativa.

Tale vizio, sovente inteso come falsa applicazione di legge, si riferisce ad un momento successivo a quello concernente la ricerca e l'interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e che investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nell'affermazione erronea dell'esistenza o dell'insussistenza di una norma, ovvero della attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata (violazione di legge in senso proprio); la falsa applicazione consiste invece o nell'assumere la fattispecie concreta sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista - pur rettamente individuata e interpretata - non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (in termini chiari così Cass. n. 18782 del 2005; v. pure Cass. n. 15499 del 2004).

Il vizio di sussunzione è ipotizzabile naturalmente anche nel caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici indeterminati ma, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimità, è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito; altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell'accertamento di fatto di competenza di detti giudici.

Orbene, in ordine agli elementi fattuali che il giudice deve valutare per verificare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente che, per stabilire in concreto l’esistenza di una "causa che non consenta alla prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro" e che deve dunque rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali di tale rapporto, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità del fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.

L'accertamento in ordine alla ricostruzione di detti fatti e del come si siano realizzati nella vicenda storica che origina la controversia compete ai giudici di merito. Ad essi spetta anche la valutazione di tali fatti al fine di esprimere un giudizio complessivo dei medesimi che spieghi le ragioni per cui da essi si sia tratto il convincimento circa la sussistenza o meno della giusta causa di licenziamento.

Trattandosi di giudizi di fatto questa Corte può sottoporli a sindacato nei limiti consentiti - come innanzi già precisato - da una prospettazione del vizio di cui all'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione tempo per tempo vigente.

Inoltre il giudice di legittimità, sempre nei limiti di una censura appropriata, può sindacare la sussunzione operata dall'impugnata sentenza della fattispecie concreta nell'alveo dell'art. 2119 c.c. correttamente interpretato.

Resta fermo però che i dati fattuali dì partenza devono essere quelli accertati e valutati dal giudice del merito: rispetto ad essi può essere verificata in sede di legittimità la corretta riconduzione alla fattispecie astratta.

Poiché, come abbiamo visto, gli elementi da valutare ai fini dell'integrazione della giusta causa di recesso sono molteplici occorre guardare, nel sindacato di questa Corte, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza della sussunzione nell'ambito della clausola generale.

Trattandosi di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento.

Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l'esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell'integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità; ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di applicabilità dell'art. 360, co. 1, n. 5, con tutti i limiti innanzi ricordati, e solo successivamente potrà essere eventualmente argomentato che l'errata ricostruzione in fatto della fattispecie concreta, determinata dall'omesso esame di un parametro decisivo, ha cagionato altresì un errore di sussunzione rilevante a mente dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per falsa applicazione di legge.

Nella specie, invece, parte ricorrente, oltre a contestare inammissibilmente - per quanto innanzi detto - l'accertamento degli addebiti come operato dai giudici di merito, in alcun modo specifica perché quanto accertato e ritenuto da costoro non sarebbe sussumibile nell'ambito dell'art. 2119 c.c.; piuttosto si limita ad indicare taluni elementi, tra i quali la pretesa incoerenza aziendale nell'avere inflitto ad altro dipendente una sanzione conservativa per il medesimo illecito contestato alla Cartella di certo non rilevante per la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 16682 del 2015; Cass. n. 2018 del 1995), che non sarebbero stati correttamente valutati dai giudici territoriali, ma nessuno di detti fatti, anche per la loro stessa pluralità, può ritenersi autonomamente decisivo nel senso sopra specificato, sicché le doglianze in proposito nella sostanza prospettano una generica rivisitazione del giudizio di merito, evidentemente non consentita in questa sede.

5. - Per tali ragioni il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Poiché il ricorso per cassazione risulta nella specie notificato in data 11 aprile 2015 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% nonché accessori secondo legge.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n, 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.