Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 gennaio 2017, n. 1552

Contratti di lavoro - Nullità termini - Rapporto di lavoro subordinato - Genericità delle causali

 

Svolgimento del processo

 

1. Con la sentenza n. 1415/2012 la Corte d'appello di Milano ha confermato la pronuncia n. 76/2010 del Tribunale di Varese con cui, per la parte che interessa in questa sede, in accoglimento delle domande proposte da P.L. e C.N.N., aveva dichiarato la nullità dei termini apposti ai, contratti di lavoro stipulati da questi con la W.E. srl, accertando la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato con decorrenza dalla data dei contratti impugnati e condannando la società al ripristino del rapporto di lavoro con pagamento delle retribuzioni non corrisposte dal 6.8.2007 oltre accessori, mentre aveva respinto le domande proposte da O.D. (così rettificato l'originario nome K.J. O.D. come precisato nella memoria ex art. 378 cpc) e A.P. con riferimento alle dedotte nullità dei contratti a termine da loro stipulati rispettivamente il 25.8.2004 ed il 14.6.2004.

2. La Corte territoriale, in sintesi, ha rilevato la genericità delle causali indicate nei contratti di lavoro a termine relativamente alle posizioni di P.L. e C.N.N., mentre ha ritenuto risolti per mutuo consenso quelli stipulati dalla società con O.D. e A.P.

3. Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione sia i suddetti O.D. e A.P., con due motivi, che la W.E. srl, con cinque motivi.

4. I rispettivi intimati, rispetto ai ricorsi ex adverso proposti, hanno resistito con controricorso.

5. In data 5.10.2016 è stato depositato verbale di conciliazione intercorso tra P.L. e la W.E. srl.

6. Sono state depositate memorie ex art. 378 cpc.

 

Motivi della decisione

 

7. Preliminarmente osserva il Collegio che, quanto alla posizione di P.L., deve dichiararsi cessata la materia del contendere.

8. Dal verbale di conciliazione prodotto risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua e, quindi, essendosi dato atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio, idoneo a determinare la cessazione della materia del contendere, deve disporsi in tali sensi (in questi termini Cass. n. 17918/2016; Cass n. 16150/2010; Cass. n. 2063/2014).

9. Le spese tra le parti vanno compensate come tra le stesse concordato nel suddetto verbale.

10. Con il primo motivo A.P. e O.D. lamentano la nullità della gravata sentenza per carenza di motivazione ex art. 360 comma 1 n. 4. In particolare evidenziano che la Corte territoriale, dopo avere richiamato alcuni fatti che il giudice di primo grado aveva ritenuto considerevoli per la decisione, in ordine alla rilevata risoluzione per mutuo consenso (e, cioè, il tempo trascorso tra la cessazione del rapporto di lavoro a termine e l'impugnazione della nullità dell'apposizione del predetto termine; la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato impugnati e la pluralità di rapporti di lavoro intrattenuti da essi successivamente alla scadenza dell'illegittimo termine) improvvisamente era giunta alla conclusione che i rapporti si fossero risolti senza esplicitare in alcun modo l'iter logico che l'aveva portata alla conferma della pronuncia di 1° grado, neanche sotto il profilo della motivazione per relationem.

11. Con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione e falsa applicazione dell'art. 1372 comma 1 cc, artt. 1422 cc, art. 1227 cc, art. 1362 cc, artt. 4, 35 e 36 Costituzione, art. 1 D.lvo n. 368/2001, ex art. 360 comma 1 n. 3 cpc, in quanto la Corte milanese non avrebbe spiegato perché e in che senso gli elementi posti a base della statuizione sulla risoluzione per mutuo consenso del rapporto lavorativo sarebbero stati pienamente concordanti e come e perché essi avrebbero evidenziato in modo del tutto univoco il disinteresse per la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

12. Le censure di cui al primo e secondo motivo, che per la loro connessione possono essere esaminate congiuntamente, non sono fondate.

13. Va condiviso l’orientamento di questa Corte (Sez. Un. n. 24148/2013) secondo cui la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l'obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese e alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest'ultimo tesa all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione.

14. Nel caso in esame, l'iter logico seguito dalla Corte territoriale risulta esplicitato perché, dopo avere riportato gli elementi di fatto ritenuti decisivi, il giudice di seconde cure ha sottolineato che la pluralità dei comprovati indici, tra loro pienamente concordanti, era nel senso di considerare in modo del tutto univoco il disinteresse per la costituzione del rapporto di lavoro, da parte dei due dipendenti, per la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

15. Ciò è sufficiente, sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, perché il convincimento è stato realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti, considerati nel loro complesso, e senza che fosse necessario una esplicita confutazione di altri elementi non menzionati.

16. Con il primo motivo del suo ricorso la W.E. srl denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1 del D.lgs n. 368/2001 ex art. 360 n. 3 cpc in quanto la gravata sentenza, nel ritenere che le causali dei contratti stipulati con i signori P. e C. non fossero dotate dei requisiti di specificità richiesti dalla legge, era in contrasto con le previsioni di cui all'art. 1 del D.lgs n. 368/2001 che non impone al datore di lavoro oneri di specificazione aggiuntivi tantomeno nei termini rigorosi prospettati dalla Corte di appello di Milano.

17. Con il secondo motivo la società lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 1 del D.lgs n. 368/2001 per avere la Corte territoriale ritenuto la necessità di desumere dalla causale la natura temporanea delle relative esigenze e per avere ritenuto generica, sotto tali profili, la dizione delle causali apposte ai contratti stipulati con i lavoratori.

18. Con il terzo motivo si censura la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cc e degli artt. 115 e 116 cpc, per error in iudicando, perché era stato affermato che la società non avesse dimostrato o offerto di dimostrare la sussistenza delle esigenze, anche per quanto riguardava il profilo della temporaneità, richiamate nei contratti di

 

assunzione quando, invece, dalla documentazione prodotta e dalla prova testimoniale offerta, era stato provato l'incremento della produzione nei periodi in cui i lavoratori avevano operato presso la società in forza dei contratti in esame.

19. Con il quarto motivo la W.E. srl sostiene la erroneità della gravata sentenza, per violazione e falsa applicazione dell'art. 1372 cc, per essere la pronuncia impugnata viziata da error in iudicando nel capo in cui aveva ritenuto non sussistente la risoluzione per mutuo consenso dei rapporti intercorsi con i signori P. e N., poiché era stato escluso che la sola mera inerzia del lavoratore fosse sostanzialmente irrilevante quando, invece, nel caso di specie, tale comportamento era di per sé significativo e sufficiente a configurare il totale interesse alla prosecuzione del rapporto.

20. Con il quinto motivo, invece, si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 32, commi 5 e 7, legge 183/2010 e dell'art. 112 cpc, per essere la Corte di appello di Milano incorsa in error in iudicando laddove, posta la illegittimità dei contratti a termine, aveva ritenuto di non applicare alla fattispecie in esame l'art. 32 legge 183/2010 già vigente all'epoca della pronuncia della sentenza gravata (3.10.2012). Precisamente si censura l'argomentazione del giudice di seconde cure circa la mancata richiesta, da parte di essa società, relativamente alla causa n. 1309/09 instaurata mediante appello proposto nei confronti di P. e N., dell'applicazione dell'art. 32 legge 183/2010 (invocata in via subordinata solo nella memoria difensiva depositata nel giudizio 2071/2010 nei confronti degli appellanti K., A. e A.).

21. Con il sesto motivo si eccepisce, infine, sempre la violazione e falsa applicazione dell'art. 32 commi 5 e 7 legge 183/2010 e dell'art. 437 cpc essendo la Corte territoriale incorsa in un evidente error in procedendo per non avere concesso alle parti, in considerazione dello ius superveniens, i termini per integrare le domande di cui all'art. 32 comma 7 legge 183/2010.

22. Osserva il Collegio che anche il primo e secondo motivo della W.E. srl devono essere trattati congiuntamente per la loro connessione ed il loro esame va limitato alla posizione di C.N.N. avendo P.L. transatto la controversia.

23. Le censure sono infondate.

24. Invero, è principio consolidato presso questa Suprema Corte (Cass. Sez. Lav. n. 1931/2011; n. 10033/2010) che, in tema di apposizione del termine al contratto di lavoro, il legislatore ha imposto, con l'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001, un onere di specificazione delle ragioni giustificatrici "di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo" del termine finale, che debbono essere sufficientemente particolareggiate così da rendere possibile la conoscenza della loro effettiva portata e il relativo controllo di effettività, dovendosi ritenere tale scelta in linea con la direttiva comunitaria 1999/70/CE e con l'accordo quadro in esso trasfuso, come interpretata dalla Corte di Giustizia, la cui disciplina non è limitata al solo fenomeno della reiterazione dei contratti a termine ma si estende a tutti i lavoratori subordinati con rapporto a termine indipendentemente dal numero di contratti stipulati dagli stessi, rispetto ai quali la clausola 8 n. 3 (cosiddetta clausola di non regresso) dell'accordo quadro prevede - allo scopo di impedire ingiustificati arretramenti di tutela nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di armonizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto di lavoro e sicurezza per i lavoratori - che l'applicazione della direttiva "non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori dell'ambito coperto dall'accordo".

25. Nella fattispecie in esame, pertanto, la Corte territoriale correttamente si è attenuta a tale principio e condivisibilmente ha ritenuto generiche le locuzioni, adottate nei contratti del dipendente N., mancando la specificazione di elementi idonei e concreti comprovanti il necessario nesso di causalità tra il termine apposto al contratto e le esigenze di "temporanea necessità di incremento della produzione di nuovi modelli ed alla loro conseguente immissione del flusso di distribuzione alla rete commerciale per un opportuno approvvigionamento" (contratto del 24.5.2004) e la "definizione di una nuova strategia che mira all'acquisizione di nuove quote di mercato attraverso un aumento dell'indice di penetrazione di vendita dei prodotti, pertanto, si ravvisa la necessità di incrementare l'intensità della produzione" (contratto del 6.4.2005).

26. Il terzo motivo è inammissibile nella parte in cui si chiede una rivalutazione nel merito della documentazione prodotta, che è una operazione non consentita innanzi a questa Suprema Corte. E', invece, infondato nella parte in cui si lamenta che la Corte di merito avrebbe errato nel non consentire alla società di dimostrare, con la prova testimoniale offerta, la sussistenza dell’elemento di fatto costituito dall'incremento della produzione. Invero, il giudice di seconde cure, con argomentazioni logiche e convincenti, nell'esercizio dei propri poteri istruttori ha specificato che le istanze di prova orale formulate erano ininfluenti perché dirette a dimostrare una tendenza costante e continuativa dell'attività che non poteva giustificare i contratti a termine con durata più ridotta rispetto al periodo in cui si registrava l'incremento di produzione (anni 2003, 2004 e 2005).

27. Anche il quarto motivo è infondato.

28. L'indirizzo consolidato di questa Sezione (Cass. Sez. Lav. n. 5887/2011; n. 23057/2010; 26935/2008; n. 17150/2008) è nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé insufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicché la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistano vizi logici o errori di diritto.

29. La Corte di appello di Milano ha fatto corretta applicazione di tali principi e della normativa di riferimento precisando che la società, cui incombeva il relativo onere probatorio, non aveva addotto altri elementi, se non la mera inerzia temporale, idonei a supportare l'eccezione in esame di risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso.

30. Sono, invece, fondati il quinto ed il sesto motivo di ricorso della società.

31. L'art. 32 della Legge n. 183/2010 è entrato in vigore il 4 Novembre 2010.

La sentenza della Corte territoriale è stata emessa il 3.10.2012. L'appellante di seconde cure (odierna ricorrente in cassazione) aveva impugnato la parte della sentenza relativa alle conseguenze economiche per cui sul punto non si era formato un giudicato interno che avrebbe reso inammissibile l'applicazione della nuova disposizione.

Inoltre, vi è l'interesse ad agire in quanto è stato riconosciuto, a titolo risarcitorio, un importo superiore al massimo che poteva essere liquidato in applicazione dell'art. 32.

32. Rileva il Collegio che non è condivisibile l'argomento della Corte territoriale circa la mancata richiesta, nell'atto di appello della società, dell'applicazione dell'art. 32 legge 183/2010 perché il gravame è stato redatto nel maggio del 2010, prima dell'entrata in vigore della norma.

Deve, poi, darsi atto che, nella impugnata sentenza, al punto 7 delle conclusioni del procedimento n. 1309/2009, era stata chiesta comunque l'applicazione dell'art. 32 comma 5 legge 183/2010, da parte degli appellanti P. e N., di talché la questione risarcimento, in quanto ancora fluida, era entrata nel thema decidendum del giudizio ed imponeva che il giudice tenesse conto dello ius superveniens.

Invero, lo ius superveniens rende proponibile una domanda nuova in appello, allorquando si tratti di una regolamentazione giuridica nuova di una situazione di fatto già dedotta in primo grado (Cass. n. 32/1970).

E sicuramente rientra in questa fattispecie la mera precisazione quantitativa del petitum dipendente da un fatto sopravvenuto nelle more del giudizio come la nuova determinazione legislativa delle conseguenze patrimoniali sanzionatorie in ipotesi di nullità del contratto di lavoro a termine.

In ogni caso l'impugnazione della parte della sentenza riguardante l'illegittimità del termine esprimeva la volontà di caducare pure la parte sul risarcimento del danno per cui la Corte milanese avrebbe potuto fissare, qualora l'avesse ritenuto necessario, anche un termine per l'eventuale integrazione della domanda ex art. 32 n. 7 legge n. 183/2010 e per l'esercizio dei poteri istruttori ex art. 421 cpc.

33. Ciò premesso sotto il profilo procedurale, nel merito va menzionato il principio di questa Corte (Cass. Sent. N. 6735/2014; n. 3056/2012; 14996/2012), che questo Collegio condivide, secondo cui l'art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010, come interpretata autenticamente dall'art. 1 comma 13 della legge n. 92/2012, è applicabile ai giudizi in corso in materia di contratti a termine dovendosi escludere che la disciplina dell'indennità risultante dal combinato disposto delle due norme incida su diritti acquisiti dal lavoratore poiché è destinata ad operare su situazioni processuali ancora oggetto di giudizio, non comporta un intervento selettivo in favore dello Stato e concerne tutti i rapporti di lavoro subordinati a termine. Né può ritenersi che l'adozione della norma interpretativa costituisca una indebita interferenza sull'amministrazione della giustizia o sia irragionevole ovvero, in ogni caso, realizzi una violazione dell'art. 6 CEDU, poiché il legislatore ha recepito, nel proposito di superare un contrasto di giurisprudenza e di assicurare la certezza del diritto a fronte di obiettive ambiguità dell'originaria formulazione della norma interpretata, una soluzione già fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, senza che - in linea con l'interpretazione dell'art. 6 CEDU operata dalla Corte EDU (sentenza 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri contro Italia) - l'intervento retroattivo abbia inciso su diritti di natura retributiva e previdenziale definitivamente acquisiti dalle parti.

34. Né, l'art. 32 citato si pone in contrasto con la direttiva 1999/70/CE, come eccepito dal resistente, nella parte in cui ha effettuato la sostituzione del regime risarcitorio di diritto comune derivante dalla nullità della apposizione del termine con l'indennità commisurata da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilità.

In primo luogo, deve precisarsi che la legge n. 183/2010 non è stata emanata per conformare il nostro ordinamento a quanto previsto dall'accordo quadro né ha inciso sulla disciplina del d.lgs n. 368/2001 con la conseguenza che non era inibito al legislatore di modificare la normativa in senso peggiorativo pur nel rispetto dei requisiti minimi richiesti dalla direttiva.

In secondo luogo, va osservato che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 303/2011 e la successiva ordinanza n. 112/2012, ha escluso ogni profilo di contrasto dell'art. 32 citato con la clausola 5 dell'accordo quadro evidenziando che la prevenzione e la repressione degli abusi, nella reiterazione dei contratti a termine, risultano assicurate anche all'esito del nuovo intervento legislativo dalla sanzione più incisiva che l'ordinamento possa predisporre e, cioè, la conversione del rapporto a tempo indeterminato.

In terzo luogo, con la decisione n. 361/2013 la Corte di Giustizia ha escluso anche l'ipotizzato contrasto dell'art. 32 legge 183/2010 con la clausola 4 dell'accordo quadro, sottolineando che il principio della parità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e indeterminato non può invocarsi tra situazioni non comparabili, come per esempio, tra le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla illegittima apposizione del termine e quelle previste per l'ipotesi del licenziamento intimato in assenza dei presupposti di legge.

35. In relazione ai motivi di ricorso sopra scrutinati, la sentenza va, quindi, cassata con rinvio alla Corte di appello di Milano in diversa composizione che valuterà, alla luce dei criteri dettati dalla legge 183 del 2010 quale debba essere la misura dell'indennità risarcitola da liquidarsi e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

36. Le spese del presente giudizio di legittimità, con riferimento al ricorso proposto da A.P. e O.D., seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara cessata la materia del contendere relativamente al rapporto processuale tra P.L. e la W.E. srl compensando tra le parti le spese di lite. Rigetta il ricorso da A.P. e O.D. e li condanna a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 5.100,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali, iva e cpa, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei suddetti ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. Accoglie il quinto e sesto motivo del ricorso di W.E. srl, respinti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Milano in diversa composizione.