Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 02 dicembre 2016, n. 24684

Rapporto di lavoro - Vestizione e svestizione - Tempo di lavoro - Retribuzione

 

Svolgimento del processo

 

D'A. M. e S. S. si rivolgevano al Tribunale di Roma ed esponevano di essere dipendenti della S. Italia s.p.a. a far tempo dal 1/6/2000, la prima con mansioni di addetta al servizio mensa della sede Rai, il secondo quale magazziniere.

Deducevano di essere tenuti ex art. 32 c.c.n.l. Turismo Pubblici servizi e dell'art. 42 d.p.r. n. 327/80 ad usare una divisa da indossare all'interno del luogo di lavoro in appositi spogliatoi predisposti dal datore. Precisavano di provvedere a timbrare il cartellino e successivamente alla vestizione, sino al 15/3/2005; da tale data, per disposizione aziendale, erano tenuti a timbrare il cartellino dopo la vestizione ed, al termine dell'orario di lavoro, prima dell'ingresso in spogliatoio. Sul rilievo che il tempo di vestizione fosse qualificabile come tempo di lavoro, convenivano in giudizio la S. Italia s.p.a. chiedendone la condanna al pagamento dei compensi per il lavoro straordinario prestato per il titolo descritto. La società si costituiva resistendo alla domanda e chiedendone la reiezione. Il giudice adito accoglieva il ricorso, con pronuncia che veniva riformata dalla Corte distrettuale.

I giudici dell'impugnazione, a fondamento del decisum, deducevano, in estrema sintesi, la necessità - affinché il tempo dedicato alla vestizione e svestizione potesse essere ritenuto lavoro effettivo - che l'obbligo eccedesse i canoni di "normalità" e riguardasse particolari protezioni tecniche o implicasse una impegnativa cura dell'immagine, ovvero che, pur riguardando normali divise, dovesse essere adempiuto nel rispetto di precise disposizioni imposte dal datore sui tempi e luoghi dell'adempimento, tali da comportarne una eterodirezione.

Nello specifico erano carenti entrambi i presupposti, non avendo i ricorrenti allegato l'esistenza di obblighi aggiuntivi rispetto a quelli che discendono dalla legge (art. 42 d.p.r. 327/80), né sussistendo il requisito della eterodirezione della attività di vestizione, giacché questa si svolgeva presso la sede Rai ma non nei locali adiacenti a quelli utilizzati per la preparazione e somministrazione degli alimenti, quindi al di fuori di un diretto controllo da parte datoriale. Sotto altro versante, neanche risultava imposta da parte datoriale alcuna prescrizione circa l'impegno temporale da dedicare alla attività preparatoria, ovvero predisposte modalità di controllo del tempo medesimo, di guisa che doveva escludersi che l'attività di vestizione e svestizione, collocate in momenti antecedenti e successivi all'arco temporale in cui il datore di lavoro poteva disporre delle energie lavorative del prestatore, fossero svolte sotto il diretto controllo datoriale. Avverso tale decisione interpongono ricorso per cassazione i lavoratori, sostenuto da un motivo.

Resiste la società intimata con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. Con unico motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 42 d.p.r. n. 327/80, 3 d. Igs. n. 155/97, 1362 c.c. e degli artt.127 e 134 c.c.n.l. Turismo Pubblici Esercizi ex art. 360 n. 3, nonché omessa e contraddittoria motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio.

Deducono che la Corte distrettuale, pur muovendo dal corretto presupposto giuridico secondo cui l'atto di indossare la divisa, in quanto 'antecedente l'inizio della prestazione lavorativa in senso proprio, ma funzionale alla sua corretta esecuzione, va inquadrato non nelle pause lavorative ma nelle attività preparatorie che possono essere ricompresse nel concetto di lavoro effettivo di cui al r.d. 692/23 a secondo dell'atteggiarsi della singola fattispecie concreta, sia giunta a conclusioni non coerenti con le premesse enunciate. Ha infatti ritenuto che nella specie, non sussistesse una rigorosa eterodeterminazione anche nei tempi della vestizione, benché tale attività dovesse essere svolta nell'immediatezza dell'inizio del turno di lavoro.

2. La censura è infondata.

La consolidata giurisprudenza di questa Corte ritiene che al fine di valutare se il tempo occorrente per indossare e dismettere gli indumenti di lavoro e, più in generale, la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica. In particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli indumenti, la relativa operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale il tempo necessario per il suo compimento non deve essere retribuito. Se, invece, le modalità esecutive di detta operazione sono imposte dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, l'operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito (vedi ex plurimis, Cass. S.U. 16/5/13 n. 11828, Cass. 10/9/10 n. 19358, Cass. 9/9/06 n. 19273).

Nell'interpretare il R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3, a norma del quale "è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un'occupazione assidua e continuativa", è stato, dunque, affermato che tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo e che esso debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datare di lavoro che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione (vedi Cass. 7/6/2012 n. 9215).

3. Il rinnovato quadro normativo di riferimento, non può dirsi abbia immutato i principi enunciati in proposito da questa Corte. Non consente una siffatta conclusione la L. n. 196 del 1997, art. 13, che nello stabilire al comma 1, che "l'orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali", non reca alcun contributo alla soluzione del problema, dovendosi pur sempre stabilire, in casi simili a quello in esame, se le attività preparatorie rientrino o meno nell'orario "normale". Ed altrettanto è da dirsi in relazione al D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale, all'art. 1, comma 2, definisce "orario di lavoro" "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni"; e nel sottolineare la necessità dell'attualità dell'esercizio dell'attività o della funzione lascia in buona sostanza invariati - come osservato in dottrina - i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l'integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere eccessivamente generico della definizione testè riportata.

4. I principi sinora enunciati e che vanno qui ribaditi, si pongono in linea con gli approdi ai quali è pervenuta anche la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (vedi Corte Giust. UE 9 settembre 2003, causa C-/02, sentenza Dellas e a., C-14/04, punto 48, nonché ordinanze Vorel, C-437105, punto 28, e Grigore., C-258/10, punto 63, Corte di Giustizia UE 10 settembre 2015 in C-266/14).

Il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale - secondo la giurisprudenza comunitaria - rientra nell'orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro, ovverosia se il lavoratore sia obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest'ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (cfr. Cass. 28/1/2016 n. 1352).

Da tale compendio emerge, dunque, che la eterodirezione appare elemento qualificante, unitamente alla circostanza che si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell'attività lavorativa.

5. Tale essendo il quadro normativo di riferimento nell'interpretazione resane da questa Corte, va rimarcato come il giudice dell'impugnazione abbia elaborato un iter motivazionale del tutto congruo nei suoi passaggi logici, e corretto sul piano giuridico, perché conforme ai suesposti principi, che si sottrae alle censure all'esame.

E' stato chiarito invero, come nello specifico, "nessuna prescrizione fosse stata imposta da parte aziendale circa l'impegno temporale da dedicare alla attività preparatoria, né fossero state predisposte modalità di controllo del tempo medesimo", oltre al fatto che detta attività si svolgeva presso gli spogliatoi della sede della società committente, al di fuori di un diretto controllo datoriale.

Orbene, pur tenendo conto della peculiarità della fattispecie che attiene ad un rapporto di lavoro avente ad oggetto un servizio oggetto di contratto di appaltato, non può prescindersi dal rilievo, bene formulato dalla Corte di merito, circa la carenza, in ogni caso, degli elementi qualificativi della attività di vestizione e vestizione in termini di etero direzione.

6. E' sufficiente al riguardo la considerazione della assoluta carenza di una previa determinazione dei tempi entro i quali detta attività dovesse esplicarsi, condizione imprescindibile per la qualificazione della stessa in termini di lavoro effettivo che vada come tale, retribuito.

E' stato ritenuto, infatti, in numerosi arresti, che l'attività consistente nell'indossare e dismettere la divisa aziendale rientra nella categoria del tempo di lavoro retribuibile nel caso in cui si svolga in locali aziendali prefissati, ed in tempi delimitati non solo - ad esempio - dal passaggio in successivi tornelli azionabili con il badge (posti all'ingresso dello stabilimento ed all'ingresso del reparto), ma anche dal limite stabilito dalla parte aziendale prima dell'inizio del turno, secondo obblighi e divieti sanzionati disciplinarmente, stabiliti dal datore di lavoro e riferibili all'interesse aziendale, senza alcuno spazio di discrezionalità per i dipendenti (vedi in motivazione, ex plurimis, Cass. 13/4/2015 n. 7397, Cass. 13/4/2015 n. 7396).

Si tratta di elementi tutti, in base ai quali è declinato il concetto di eterodirezione della prestazione lavorativa che, per quanto innanzi detto, come rimarcato dalla Corte di merito, non risultano ravvisabili nella fattispecie qui scrutinata e non consentono di includere l'attività considerata nell'ambito del lavoro effettivo suscettibile di precipua remunerazione.

In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Le spese del presente giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico dei ricorrenti, nella misura in dispositivo liquidata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15%, ed accessori di legge.