Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 15 settembre 2017, n. 21506

Licenziamento per giusta causa - Minacce ed ingiurie ad uno dei titolari - Danno per l'immagine aziendale - Proporzione della sanzione espulsiva

 

Fatti di causa

 

Con sentenza n. 11/2015, depositata il 26 gennaio 2015, la Corte di appello di Catania respingeva il gravame di G.C. e confermava la sentenza di primo grado che ne aveva rigettato la domanda di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla P. S. s.r.l. per avere il dipendente, in data 14/8/2009, rivolto ad uno dei titolari minacce ed ingiurie alla presenza di clienti in sala e di colleghi, con grave danno per l'immagine aziendale.

La Corte, esaminate le risultanze istruttorie, considerava dimostrati i fatti oggetto di contestazione e proporzionata la sanzione espulsiva, avuto riguardo alla reazione avuta dal lavoratore a seguito di diverbio originato dalla consegna di un assegno bancario, quale retribuzione del precedente mese di luglio, solo nel pomeriggio di venerdì 14 agosto, a banche ormai chiuse.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il lavoratore, affidandosi a due motivi, illustrati da memoria; la società ha resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Con il primo motivo viene dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 7 I. n. 300/1970 per avere la Corte di appello di Catania ritenuto specifica la contestazione disciplinare, nonostante che essa, mediante il riferimento alle "minacce e ingiurie", che sarebbero state rivolte dal dipendente ad uno dei titolari della società, si fosse limitata ad una descrizione di natura meramente formale della condotta addebitata, inidonea a chiarirne, per la mancanza di più precisi elementi temporali e fattuali, l'effettiva portata lesiva del vincolo fiduciario; e, sotto altro profilo, per non avere rilevato che alla base del provvedimento datoriale di recesso erano stati posti anche "pregressi comportamenti ed atteggiamenti" del lavoratore, peraltro non meglio specificati e comunque non oggetto di preventivo addebito.

Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 cod. civile e inoltre violazione e/o falsa applicazione dell'art. 146 CCNL di settore per avere la Corte territoriale omesso di svolgere un compiuto esame, necessario al fine di stabilire il nesso di proporzionalità tra fatto e sanzione, delle circostanze, di natura sia oggettiva che soggettiva, che avevano connotato il comportamento del lavoratore, in particolare trascurando di valutare il grave ritardo, con il quale era stato disposto il pagamento della retribuzione del precedente mese di luglio, l'atteggiamento provocatorio e discriminatorio posto in essere dal datore di lavoro e la durata trentennale del rapporto.

Il primo motivo risulta inammissibile.

Al riguardo si deve anzitutto rilevare come la decisione di primo grado, nella parte in cui il Tribunale di Catania ha escluso la genericità della contestazione disciplinare, non risulta avere formato oggetto di motivo di gravame (cfr. sentenza impugnata, p. 4, là dove la Corte esamina le doglianze sottoposte alla sua cognizione); cosi come non risulta essere stata materia di discussione, né in primo grado né in grado di appello, la (concettualmente diversa) questione, pur sollevata entro lo stesso motivo ora in esame, della relazione di identità che deve esistere tra i fatti posti a sostegno del licenziamento e quelli indicati nella lettera di addebito.

D'altra parte, deve essere ribadito l'orientamento, secondo il quale "l'accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un'indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito" (Cass. n. 7546/2006): verifica che peraltro il ricorrente non ha sollecitato, mediante la deduzione del motivo di cui al n. 5 dell'art. 360 (e pur entro il diverso perimetro assegnato al nuovo vizio "motivazionale" dalla riforma introdotta nel 2012), diversamente formulando, nei confronti della sentenza impugnata, una censura di violazione e/o falsa applicazione di norma di diritto con riferimento all'art. 7 I. n. 300/1970.

Quanto al secondo motivo, si osserva, in primo luogo, che lo stesso è improcedibile, nella parte in cui viene dedotta la violazione dell'art. 146 del CCNL di settore, posto che il ricorrente, nell'inosservanza dell'art. 369, comma 2°, n. 4 cod. proc. civ., non ha depositato copia del contratto collettivo, su cui il motivo si fonda, né ha indicato il luogo preciso in cui esso fu depositato nei gradi di merito.

Nel resto, il motivo è infondato.

La Corte di merito è pervenuta, infatti, a ritenere la sussistenza della giusta causa di licenziamento e della proporzionalità tra fatto e sanzione espulsiva sulla base di un'ampia e articolata ricostruzione della fattispecie concreta (cfr. sentenza, pp. 5- 7), prendendo in esame e valutando sia gli elementi oggettivi dell'episodio (e così entrambe le condotte, del Costanzo e del datore di lavoro, nel loro dinamico e reciproco svolgersi e nel loro rispettivo profilo di volontarietà e intenzionalità); sia l'antefatto dell'episodio stesso (e cioè le modalità e circostanze del pagamento della retribuzione del mese di luglio, al ricorrente e agli altri dipendenti); sia anche, con riferimento al giudizio ex art. 2106 cod. civ., il fattore potenzialmente "mitigante" di una lunga anzianità di servizio: ricostruzione da cui la Corte di merito ha tratto la motivata conclusione di una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario che deve permanere tra datore di lavoro e lavoratore (per essere risultata, alla stregua delle circostanze del caso concreto, "intollerabile la reazione scomposta" del Costanzo, "le ingiurie, le minacce di scontro fisico rivolte al titolare in presenza di colleghi e clienti, con grave danno all'immagine della datrice di lavoro" nel contesto in cui opera: p. 6) e di un particolare "disvalore ambientale" riconoscibile nella condotta addebitata, in quanto "idonea ad assurgere" per i dipendenti più giovani "a modello diseducativo e disincentivante dall'adempimento degli obblighi di lavoro e di reciproco rispetto" (p. 7).

In tale indagine la Corte di merito si è attenuta al risalente e consolidato principio di diritto, per il quale "il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e licenziamento disciplinare non va effettuato in astratto, bensì con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, all'entità della mancanza (considerata non solo da un punto di vista oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva e in relazione al contesto in cui essa è stata posta in essere), ai moventi, all'intensità dell'elemento intenzionale e al grado di quello colposo; tale giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata e logica motivazione" (cfr. Cass. n. 4881/1998 e successive numerose conformi).

Il ricorso deve conclusivamente essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

Il ricorrente, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, non è tenuto, nonostante il rigetto dell'impugnazione, al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (cfr., fra le altre, Cass. 2 settembre 2014, n. 18523).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.