Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 17 luglio 2017, n. 17700

Lavoro - Contratti interinali - Indicazione della causale - Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato

Rilevato

che il Tribunale di Roma, ritenuta l'illegittimità del ricorso alla fornitura di lavoro temporaneo, dichiarò la sussistenza tra I.V. e la P. & G. spa di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 1.4.2004, con obbligo per la società di ripristino del rapporto e condanna a titolo risarcitorio delle retribuzioni maturate sin dal 13.1.2011, oltre accessori di legge; che, con sentenza del 22.10.2015, la Corte di appello di Roma, in riforma parziale della decisione di primo grado, riduceva il risarcimento come sopra determinato ad una somma pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto e condannava l'appellato a restituire la differenza tra quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado e detta minor somma;

che avverso tale sentenza ha proposto ricorso la società affidato a sei motivi, al quale ha opposto difese lo I.;

che la proposta del relatore, ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale la società ha depositato memoria;

 

Considerato

 

1. che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata,

2. che vengono denunziati: 1) violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1372 e 2697 c.c., nonché degli artt. 117 e 420 cpc in relazione all'inerzia del lavoratore, sintomatica, unitamente ad altri elementi rivelatori, della volontà contraria a quella di proseguire il rapporto di lavoro; 2) violazione e falsa applicazione dell'art. 3, comma 3, della L. 196/97 e dell'art. 10 della stessa legge, ritenendosi che ai sensi di tali disposizioni doveva ritenersi consentita la instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato unicamente con la società fornitrice, 3) violazione e falsa applicazione dell'art. 1, commi 2 lett. a) e 5, e dell'art. 10 L. 196/1997, contestandosi il fondamento giuridico della ritenuta necessità di specificazione della causale nel contratto di fornitura di lavoro temporaneo; 4) violazione e falsa applicazione dell'art. 10 L. 196/1997 e della legge 1369/1960, con riferimento alla erroneità della disposta costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l'utilizzatore, quale effetto sanzionatorio della ritenuta illegittimità del ricorso al lavoro temporaneo; 5) violazione e falsa applicazione dell'art. 32 l. 183/2010, in relazione alla determinazione dell'indennità forfetaria nella misura massima; 6) omesso esame del documento allegato al ricorso in appello relativo all'importo percepito dallo I. in esecuzione della sentenza di primo grado, richiedendosi decisione nel merito nel senso della restituzione della somma che dalla società era stata riconosciuta a tale titolo pari alla somma netta, e non lorda, di euro 18.235,02;

3. che ritiene il Collegio si debbano ritenere manifestamente infondati i primi cinque motivi di ricorso e inammissibile il sesto;

3.1. che, invero, questa Corte ha costantemente affermato che il mutuo consenso sullo scioglimento del rapporto deve essere espresso, oppure, salvo che non sia richiesta la forma scritta ad substantiam, deve essere desumibile da comportamenti concludenti (Cass. 26 ottobre 2015, n. 21764, nonché Cass. 15264 del 2006), essendo la mancata protratta inerzia del lavoratore rispetto ad una tardiva e posticipata instaurazione del giudizio per azionare i diritti nella fattispecie per cui è causa, al pari dell'ipotesi in cui si faccia valere la nullità della clausola del termine apposto al contratto, considerata indicativa della volontà di estinguere il rapporto di lavoro tra le parti a condizione che la durata di tale comportamento omissivo sia particolarmente rilevante e che concorra con altri elementi convergenti, ad indicare, in modo univoco ed inequivoco, la volontà di estinguere ogni rapporto di lavoro tra le parti;

che il relativo giudizio attiene al merito della controversia (da ultime, Cass. 1 gennaio 2016, n. 1841 e 11 febbraio 2016, n. 2732, cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti, nonché Cass. s. u. 23226/2016) e che nel caso in esame la Corte d'appello, con giudizio di merito che non può essere riaperto e riformulato in sede di legittimità, ha applicato i principi di diritto fissati dalla giurisprudenza di legittimità, considerando la durata del comportamento omissivo e la consistenza e convergenza degli altri elementi e ritenendo, con valutazione congruamente motivata, che la presenza di un reiterato protrarsi di assunzioni in forme precarie dello I. e dell'affidamento riposto dal predetto nei riguardi di future assunzioni non consentissero di valorizzare nei sensi pretesi dalla società gli ulteriori elementi fatti oggetto di valutazione (lasso temporale di non attuazione del rapporto, percezione del t.f.r. senza riserve e ipotetiche prestazioni lavorative presso terzi);

3.2. che la tesi posta a base del secondo, del terzo e del quarto motivo è destituita di giuridico fondamento, atteso che la ritenuta possibilità di non indicare ragioni specifiche per il ricorso al lavoro interinale è stata ritenuta priva di fondamento da numerose sentenze dì questa Corte, alle quali si rinvia (Cass. 23684/2010; Cass. 13960/2010; Cass. 232/2012, che, in particolare, ha affermato "in materia di contratto di lavoro interinale, la mancata o la generica previsione, nel contratto intercorrente tra l'impresa fornitrice ed il singolo lavoratore, dei casi in cui è possibile ricorrere a prestazioni di lavoro temporaneo, in base ai contratti collettivi dell'impresa utilizzatrice, spezza l'unitarietà della fattispecie complessa voluta dal legislatore per favorire la flessibilità dell'offerta di lavoro nella salvaguardia dei diritti fondamentali del lavoratore e fa venir meno quella presunzione di legittimità del contratto interinale, che il legislatore fa discendere dall'indicazione nel contratto di fornitura delle ipotesi in cui il contratto interinale può essere concluso");

che, occupandosi di contratti interinali in cui l'indicazione della causale era, come in quello in esame, di mero e generico rinvio alla contrattazione collettiva, questa Corte ha affermato che "il contratto, invece di specificare la causale all'interno delle categorie consentite dalla legge, si limita a riprodurre il testo dell'art. 1, lett. a) della legge, senza compiere alcuna specificazione (...) La genericità della causale rende il contratto illegittimo, per violazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, commi 1 e 2, che ne consente la stipulazione solo per le esigenze di carattere temporaneo rientranti nelle categorie specificate nel comma 2, esigenze che il contratto di fornitura non può quindi omettere di indicare, né può indicare in maniera generica e non esplicativa, limitandosi a riprodurre il contenuto della previsione normativa". Nella specie il richiamo al ceni è effettuato solo ai fini dell'inquadramento e della retribuzione del lavoratore e, come correttamente evidenziato dalla Corte del merito, il riferimento generico contenuto nel contratto di fornitura all' "altro incremento temporaneo dell'attività produttiva", come al punto 3 dell'accordo interconfederale del 16.4.1998 escludeva che la causale fosse stata indicata con sufficiente determinatezza;

che le medesime sentenze hanno precisato che, quando il contratto di lavoro che accompagna il contratto di fornitura è a tempo determinato, alla conversione soggettiva del rapporto, si aggiunge la conversione dello stesso da lavoro a tempo determinato in lavoro a tempo indeterminato, per intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal D.L.gs. n. 368 del 2001, o dalle discipline previgenti, a cominciare dalla forma scritta, che ineluttabilmente in tale contesto manca con riferimento al rapporto tra impresa utilizzatrice e lavoratore (sul punto, v. anche: Cass. 1148 del 2013 e Cass. 6933 del 2012);

che, infatti, l'art. 10, comma 1, collega alle violazioni delle disposizioni di cui all'art. 1, commi 2, 3, 4 e 5 (cioè violazioni di legge concernenti proprio il contratto commerciale di fornitura), le conseguenze previste dalla legge 1369 del 1960, consistenti nel fatto che "i prestatori di lavoro sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell'imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni", in tal senso questa Corte espressasi, in modo univoco e costante, con una pluralità di decisioni, a cominciare da Cass. 23 novembre 2010 n. 23684; Cass. 24 giugno 2011 n. 13960; Cass. 5 luglio 2011 n. 14714 alle cui motivazioni si rinvia per ulteriori approfondimenti;

che a tale ricostruzione si è attenuta la Corte d'appello di Roma nella sentenza qui impugnata;

3.3. che, quanto al quinto motivo, la Corte di merito ha indicato le ragioni per le quali ha ritenuto di determinare in 12 mensilità la indennità di cui all'art. 32 cit. individuandole da una parte nel numero dei contratti e delle relative proroghe intervenuti per un arco temporale di oltre quattro anni, dall'altra, nelle dimensioni nazionali della società datrice di lavoro, con ciò facendo una corretta applicazione dei criteri di cui al citato art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 involgente, peraltro, valutazioni di merito che non possono essere sindacate in questa sede (cfr. Cass., n. 21932/2014).

3.4. che vanno ravvisati evidenti profili di inammissibilità del sesto motivo, in relazione alla circostanza che il dispositivo della pronunzia impugnata prevede la restituzione della differenza tra quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado e la minor somma determinata in 12 mensilità, sicché è priva di ogni riferimento allo stesso la richiesta, con decisione nel merito, di restituzione dell'intero importo (al netto), considerato anche che la condanna è generica e che pertanto occorre avere riguardo, in sede esecutiva, a gli elementi ed ai parametri desumibili dagli atti indicati nella pronunzia;

4. che, per le considerazioni svolte, non colgono nel segno i rilievi svolti dalla società nella memoria;

5. che pertanto, in adesione alla proposta del relatore, deve pervenirsi al complessivo rigetto del ricorso;

6. che, quanto alle spese del giudizio di legittimità, le stesse sono regolate, in base alla regola della soccombenza, come da dispositivo, con attribuzione al difensore dichiaratosene antistatario;

7. che sussistono le condizioni di cui all'art. 13, comma 1 quater, Dpr 115 del 2002;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in curo 200,00 per esborsi, euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%, con attribuzione all'avv. M.S..

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell'art.13, comma ibis, del citato D.P.R..