Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 luglio 2017, n. 18666

Licenziamento - Riduzione di personale ex lege n. 223/1991 - Lavoratori "scomodi" - Criteri di scelta - Violazione

Fatti di causa

1. Con sentenza pubblicata in data 11.5.15 la Corte d'appello di Roma rigettava il gravame (salvo che sul governo delle spese) di B.D., C.G. e M.P. contro la sentenza n. 15014/12 del Tribunale di Roma, che ne aveva respinto l'impugnativa dei licenziamenti loro intimati da P.I. S.r.l. all'esito d'una procedura di riduzione di personale ex lege n. 223/91.

2. Per la cassazione della sentenza ricorrono i suddetti lavoratori affidandosi a quattro motivi.

3. P. I. S.r.l. resiste con controricorso.

4. Le parti depositano memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

 

Ragioni della decisione

 

1.1. Il primo motivo denuncia vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla lamentata scorrettezza della procedura di mobilità, dapprima iniziata per 93 posizioni lavorative, poi ridotte a 41, ma in realtà sostanzialmente finalizzata ad eliminare dalla compagine sociale unicamente i ricorrenti in quanto lavoratori scomodi perché determinati a far valere i propri diritti; in particolare, la riduzione dei lavoratori da porre in mobilità da 93 a 41 aveva fatto sì che la ricollocazione riguardasse 52 lavoratori, mentre essa era stata attuata solo per 20, di guisa che vi sarebbe stato ampio spazio per ricollocare i ricorrenti, anche perché a ciò dovevano aggiungersi 22 volontari accettati in più rispetto alla lista di mobilità; inoltre - prosegue il ricorso - vi era stata comunque un'eccedenza di 5 unità rispetto al preventivato numero, concordato con le organizzazioni sindacali, di 41 esuberi; la sentenza era del pari viziata nella parte in cui aveva ritenuto legittima la scelta dei lavoratori da licenziare, aveva parlato di soppressione di singoli profili, professionali anziché di soppressione del reparto unit business tecnology e aveva asserito l'esistenza d'un andamento aziendale in forte perdita malgrado fatturati di oltre un miliardo di euro.

Il motivo va disatteso perché sostanzialmente sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze processuali affinché se ne fornisca un diverso apprezzamento.

Si tratta di operazione non consentita in sede di legittimità, ancor più ove si consideri che in tal modo il ricorso finisce con il riprodurre (peraltro in maniera irrituale: cfr. Cass. S.U. n. 8053/14) sostanziali censure ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (nel nuovo testo applicabile, ai sensi dell'art 54, comma 3, d.l. n. 83/12, convertito dalla legge n. 134/12, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla pronuncia in questa sede impugnata).

1.2. Il secondo motivo censura la sentenza per omessa motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nel carattere discriminatorio e punitivo dell'espulsione dei ricorrenti, nonostante che essi avessero dimostrato che la società, pur licenziando, alla fine, soltanto 4 dipendenti ritenuti in esubero, aveva contemporaneamente ricercato sul mercato del lavoro (mediante c.d. job posting) 108 nuove posizioni.

Il motivo è infondato perché, in realtà, la sentenza impugnata ha implicitamente risposto nel momento in cui ha considerato non arbitrari né discrezionali i criteri applicati nell'individuare i lavoratori in esubero.

1.3. Con il terzo motivo ci si duole di omessa motivazione in ordine alla mancata ammissione dei mezzi di prova (come i libri paga e matricola, ora LUL) intesi a dimostrare vuoi l'aumento dei ricavi (contrariamente a quanto sostenuto dalla società) vuoi le nuove assunzioni durante l'espletamento della procedura di mobilità in corso di procedura, non potendo la Corte territoriale limitarsi ad affermare che i ricorrenti non avrebbero allegato elementi idonei a smentire la circostanza secondo cui le nuove assunzioni sarebbero state o remote nel tempo rispetto ai licenziamenti de quibus o dirette soltanto a sostituire personale assente per maternità.

Il motivo è inammissibile perché deduce come vizio di motivazione quello che, invece, deve qualificarsi come error in procedendo. In proposito mette conto rimarcare l'insegnamento di Cass. S.U. n. 17931/13, secondo cui il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360, comma 1, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata e inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla norma citata, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o, l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi.

Pertanto, si deve dichiarare inammissibile il gravame che lamenti un vizio di motivazione anziché - come invece avrebbe dovuto - un motivo di nullità della sentenza per violazione di legge processuale, consistente semmai in un'erronea applicazione del principio di non contestazione.

1.4. Il quarto motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell'art. 4 legge n. 223 del 1991 circa le modalità applicative dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e la formazione della relativa graduatoria, avvenuta soltanto con l'attribuzione unilaterale da parte della P. di punteggi ai vari lavoratori in ragione pressoché esclusiva delle esigenze tecnico-organizzative discrezionalmente ravvisate dalla società.

Il motivo, ad onta del richiamo normativo in esso contenuto, sostanzialmente sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze processuali affinché se ne fornisca un diverso apprezzamento, che richiederebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentita in sede di legittimità.

Valgano anche in proposito le considerazioni svolte nel paragrafo che precede sub 1.1.

2.1. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a pagare in favore della controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall'art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.