Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 29 novembre 2016, n. 24260

Rapporto di lavoro - Licenziamento - Difetto di proporzionalità - Mancata affissione del codice disciplinare

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 743/2014, depositata il 24 luglio 2014, la Corte di appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Catania, respingeva il ricorso, con il quale V.M., assumendone l'illegittimità per mancata affissione del codice disciplinare e comunque per difetto di proporzionalità rispetto al fatto contestato, aveva impugnato il licenziamento disciplinare intimatogli dall'Ente AS.A. Form Sicilia per avere egli, in data 6/4/2005, nel corso di una riunione sindacale tenutasi a Catania e intervenendo nei lavori, pronunciato frasi lesive della reputazione e del decoro del datore di lavoro.

La Corte osservava, in primo luogo, come fosse incontroverso che il lavoratore aveva effettivamente pronunciato, davanti ad una numerosa platea, le frasi oggetto di addebito disciplinare e come le stesse, costituendo accuse di reati e di violazione delle convenzioni che regolano l'attribuzione dei finanziamenti all'Ente, travalicassero l'esercizio del diritto di critica, integrando espressioni diffamatorie, gravemente lesive dell'onore e del decoro dell'ente, e dando luogo ad una violazione del dovere di cui all'art. 2105 c.c. tale da ledere in modo irrimediabile il rapporto di fiducia che lega le parti del rapporto di lavoro, senza che ai fini della configurabilità della giusta causa di recesso, a fronte - come nella specie - di una lesione dell'immagine del datore di lavoro, dovesse ritenersi necessaria anche l'esistenza di un danno patrimoniale; né, d'altra parte, osservava ancora la Corte, il M. aveva dato prova in giudizio, ininfluenti restando le proposte istanze ex art. 210 c.p.c., della verità dei fatti oggetto delle frasi pronunciate, quale scriminante della condotta illecita che gli era stata contestata, gravando sul datore unicamente la dimostrazione della realtà storica del compimento di essa.

La Corte rilevava, quindi, che il gravame incidentale dell'appellato era inammissibile per mancata notifica della memoria di costituzione all'Ente nel termine di rito e comunque infondato, nella parte in cui aveva sottoposto a critica la pronuncia di primo grado per avere escluso la rilevanza della mancata affissione del codice disciplinare.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il M., con sette motivi, illustrati da memoria; l'Ente ha resistito con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, deducendo la violazione degli artt. 2697 c.c. e 5 I. n. 604/1966, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto circostanze pacifiche che egli avesse effettivamente pronunciato, nel corso della riunione sindacale tenutasi il 6 aprile 2005, le espressioni poi oggetto di addebito e che a tale riunione fossero presenti oltre duecento persone, nonostante che, ancora con la comparsa di risposta in appello, fosse stata ribadita - come già con lettera del proprio legale in pari data e nel corso del primo grado di giudizio - la illegittimità della contestazione disciplinare e, in particolare, ne fosse stata evidenziata la manifesta infondatezza sotto molteplici profili.

Con il secondo motivo il ricorrente si duole, in relazione all'art. 360 n. 4 c.p.c., del difetto assoluto di motivazione della sentenza impugnata, che non avrebbe spiegato in alcun modo le ragioni per le quali, pur a fronte di esplicite e puntuali contestazioni, aveva ritenuto del tutto pacifico il contenuto delle frasi addebitate e le circostanze in cui esse erano state pronunciate.

Con il terzo motivo, deducendo il vizio di cui all'art. 360 n. 4 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza per avere ritenuto non esaminabile, in conseguenza della mancata notifica nei termini dell'appello incidentale, la riproposta censura relativa alla mancata affissione del codice disciplinare e ciò peraltro in violazione dell'art. 346 c.p.c., in forza del quale le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado debbono essere semplicemente riproposte, senza alcuna necessità di renderle oggetto di specifico gravame incidentale. Con il quarto motivo, deducendo la violazione degli artt. 2697 c.c., 210 e 437 c.p.c., 24 Costituzione e 6 CEDU, con riferimento all'art. 360 n. 4 c.p.c., il ricorrente si duole che il giudice di secondo grado, pur osservando che il dipendente avrebbe potuto superare le censure sull'eccesso di critica solo mediante la dimostrazione della veridicità di quanto asserito, abbia poi negato ingresso all'istanza di ordine di esibizione (dei registri dei corsi di formazione professionale tenuti dall'Ente) riproposta in sede di appello, e cioè all'unico mezzo che gli avrebbe consentito di assolvere l'affermato onere probatorio, né abbia ritenuto di avvalersi dei propri poteri istruttori d'ufficio.

Con il quinto motivo, deducendo la violazione degli artt. 416 e 437 c.p.c., con riferimento all'art. 360 n. 4 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto l'esistenza di un danno all'immagine del datore di lavoro, quale effetto delle dichiarazioni del dipendente, nonostante che tale danno non fosse stato neppure allegato nel primo grado di giudizio, così che la sua deduzione (per la prima volta) in appello era da ritenersi inammissibile allegazione di un fatto nuovo.

Con il sesto motivo, deducendo la violazione degli artt. 111 Costituzione e 6 CEDU, ancora con riferimento all'art. 360 n. 4, il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere la Corte in alcun modo motivato sulle ragioni per le quali non aveva rilevato l'inammissibilità dell'allegazione in appello, come fatto nuovo, del danno all’immagine, limitandosi ad affrontare il profilo della prova della sussistenza astratta di tale danno. Con il settimo motivo, deducendo la violazione degli artt. 2105 e 2119 c.c. nonché dell'art. 3 I. n. 604/1966, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza di secondo grado nella parte in cui ha ritenuto giustificata la massima sanzione espulsiva del licenziamento in tronco, senza considerare la mancanza di precedenti disciplinari in un lungo periodo di lavoro, il contenuto e la portata effettiva delle singole frasi addebitate e l'assenza di alcun danno economico.

Il primo e il secondo motivo possono essere trattati congiuntamente, in quanto connessi. Con tali motivi viene sottoposta a critica la lettura (unitamente ai suoi riflessi sul piano motivazionale) che il giudice del merito ha dato della memoria difensiva in appello, in cui il ricorrente, nuovamente richiamata la lettera del proprio legale in data 6/4/2005 ed i rilievi nella medesima contenuti, ha ribadito l'infondatezza sotto molteplici profili della contestazione disciplinare.

Peraltro, la censura così svolta, risolvendosi nella denuncia di un'interpretazione dell'atto difensivo non corrispondente al fatto processuale e, di conseguenza, in una operazione ermeneutica di sostanziale travisamento di esso, avrebbe dovuto trovare formulazione nel vizio di cui all'art. 360 n. 4, anziché nella violazione delle norme di legge richiamate.

I motivi primo e secondo risultano, pertanto, inammissibili.

Egualmente inammissibile risulta il terzo motivo di ricorso.

Al riguardo si deve, infatti, osservare che la Corte territoriale, nel prendere cognizione del gravame incidentale del lavoratore appellato, ne ha, sotto un primo profilo, rilevato l'inammissibilità (per mancata notifica della memoria di costituzione alla controparte nel termine di rito), per poi "in ogni caso" esprimere la valutazione che la critica sul punto della rilevanza (esclusa dal Tribunale) della mancata affissione del codice disciplinare era da ritenersi infondata e ciò sulla base della considerazione (cfr. sentenza, pag. 6, ultimo cpv.) che l'affermazione, da parte del primo giudice, dell'irrilevanza del tema di indagine circa la mancata affissione del codice disciplinare "nei casi, quale quello di specie, di violazione di doveri fondamentali del lavoratore, non costituisce rilievo di un ‘fatto’ materiale, necessariamente riservato all'eccezione di parte, ma mera presa d'atto della insussistenza, in diritto, della violazione dell'art. 7 St. lav. prospettata in ricorso": considerazione, questa, che configura una seconda e ulteriore ragione decisoria, idonea in via autonoma a sostenere il decisum, e non oggetto di impugnazione da parte del ricorrente.

Su tale premessa deve essere ribadito il costante orientamento di questa Corte, per il quale (cfr. da ultimo e fra le molte Cass. n. 4293/2016) "il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione".

Il quarto motivo è inammissibile.

La Corte di appello ha invero chiaramente precisato come il lavoratore avesse inteso offrire la prova in relazione a circostanze (esiguo numero degli iscritti ai corsi e difetto nei formatori delle competenze e qualità professionali necessarie) che non avrebbero potuto togliere rilevanza alla gravità dell'accusa, rivolta all'Ente, di organizzare "corsi fantasma", per tali dovendosi ritenere, secondo la Corte, la quale richiama in proposito la comune accezione del termine, quelli del tutto inesistenti nella realtà.

Come più volte affermato da questa Corte, il rigetto da parte del giudice del merito dell'istanza di disporre l'ordine di esibizione al fine di acquisire al giudizio documenti ritenuti indispensabili dalla parte "non è sindacabile in cassazione, perché, trattandosi di strumento istruttorio residuale utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile aliunde e l'iniziativa non presenti finalità esplorative - ravvisabili allorquando neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento e del suo contenuto per verificarne la rilevanza nel giudizio - la valutazione della relativa indispensabilità è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il mancato esercizio di tale potere non essendo sindacabile neppure sotto il profilo del difetto di motivazione": Cass. n. 23120/2010 (ord.).

E' stato altresì precisato che "nel rito del lavoro, l'esercizio di poteri istruttori d'ufficio, nell'ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità, involge un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, che può essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto come vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., qualora la sentenza di merito non adduca un'adeguata spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione": Cass. n. 12717/2010.

Il quinto e il sesto motivo, che possono esaminarsi congiuntamente, in quanto connessi, risultano infondati.

Al riguardo si osserva che il giudice del merito - accertata la veridicità della condotta addebitata in sede disciplinare (e cioè che le frasi riportate nella lettera di contestazione, costituenti gravi accuse, anche di fatti penalmente rilevanti, erano state effettivamente pronunciate dal M. e di fronte ad una numerosa platea composta da circa duecento persone) - ne ha valutato l'attitudine a integrare una giusta causa di recesso datoriale, alla stregua del principio, secondo il quale l'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore, che non si contenga entro i limiti del rispetto della verità oggettiva e si traduca in una condotta lesiva del decoro dell'impresa, costituisce violazione del dovere di cui all'art. 2105 c.c. ed è comportamento idoneo a ledere definitivamente il rapporto di fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro.

Ne consegue che la lesività della condotta posta in essere dal dipendente, che attribuisca al datore di lavoro e ai suoi dirigenti comportamenti illeciti o non corretti (come nel caso in esame, in cui il M. ha parlato di "corsi fantasma" e, quanto ai dirigenti, ha imputato loro di assumere nell'Ente i propri figli), rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio, su di esso misurandosi l'eventuale inadempimento dell'obbligo di fedeltà e il permanere del vincolo fiduciario, e, in quanto tale, presente ab origine nella domanda per la declaratoria di illegittimità dell'intimato licenziamento. Risulta infine palesemente inammissibile il settimo motivo di ricorso, con il quale sub specie di violazione di norme di legge, si tende a sollecitare a questa Corte di legittimità, attraverso una rivalutazione del comportamento contestato e, in particolare, della sua proporzionalità in rapporto alla sanzione inflitta, un nuovo apprezzamento di fatto, peraltro di competenza esclusiva del giudice del merito.

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi euro 4.100,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.