Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 dicembre 2016, n. 25189

Licenziamento - Per giustificato motivo soggettivo - Inosservanza dell'orario di lavoro - Contestazioni plurime

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 745/2015, depositata il 21 luglio 2015, la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Milano, dichiarava inefficace il licenziamento intimato il 24 giugno 2013 ad E.N. dalla G.L.S.C. (poi in liquidazione coatta amministrativa) per giustificato motivo soggettivo in relazione a plurime contestazioni per inosservanza dell'orario di lavoro, comportamento scorretto verso i superiori e inesatta esecuzione del servizio; dichiarava altresì risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento.

La Corte rilevava, a sostegno della decisione, che non vi era prova che il datore di lavoro avesse comunicato al dipendente incolpato la data dell'incontro dal medesimo richiesto per fornire le proprie giustificazioni con l'assistenza dell'organizzazione sindacale, con la conseguenza che era da ritenersi violato l'art. 7, comma 2°, I. n. 300/1970 e che il provvedimento di licenziamento era privo di efficacia.

Osservato, quindi, come il reclamante non avesse impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva accertato la sussistenza dei fatti materiali posti a base del recesso, con conseguente formazione del giudicato sul punto, la Corte considerava operanti la disciplina di cui al comma 6 dell'art. 18 I. n. 300/1970, esclusa peraltro ogni pronuncia di condanna al pagamento dell'indennità risarcitoria, posto che la società era stata posta in liquidazione coatta amministrativa.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il N. con tre motivi, illustrati da memoria; la G.L. soc. coop. in liquidazione coatta amministrativa è rimasta intimata.

 

Motivi della decisione

 

Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Con il primo motivo, deducendo violazione degli artt. 7 e 18 I. n. 300/1970 e dell'art. 66 CCNL 20/7/2012 della Mobilità/Area Contrattuale Attività Ferroviarie ex art. 360 n. 3 c.p.c., violazione dell'art. 112 c.p.c. e nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 n. 5, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello, configurando una mera irregolarità formale del licenziamento, disposto l'applicazione dei rimedi, di natura puramente risarcitoria, previsti dal comma 6 dell'art. 18, in luogo della tutela reale, pur avendo rilevato che il provvedimento di recesso datoriale era stato comunicato a procedimento ormai estinto per decorso del termine contrattuale, con la conseguenza che, privi i fatti contestati di rilievo disciplinare, era da escludere che nella specie ricorressero gli estremi del giustificato motivo soggettivo.

Con il secondo motivo, deducendo violazione dell'art. 7, comma 2°, e dell'art. 18 I. n. 300/1970 in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente ritenuto la natura procedurale, e non di norma imperativa, della disposizione che impone al datore di lavoro di ascoltare a difesa il dipendente incolpato, così erroneamente applicando la tutela risarcitoria invece di quella prevista dai commi 1° e 4° dell'art. 18.

Con il terzo motivo, deducendo violazione dell'art. 112 c.p.c. ex art. 360 n. 4 e omessa pronuncia su di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 n. 5, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte ritenuto che il reclamante non avesse impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva accertato la sussistenza dei fatti disciplinari posti a giustificazione del licenziamento, con conseguente formazione del giudicato sul punto.

Il primo motivo è inammissibile.

Con tale motivo, infatti, viene dedotto un cumulo di censure, sia per violazione di norme di legge (artt. 7 e 18 I. n. 300/1970) e di contratto collettivo (art. 66 CCNL applicabile nella fattispecie), sia per violazione di norme processuali (art. 112 c.p.c.), sia infine per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti, senza peraltro che - al di là della compresenza nella rubrica di plurimi riferimenti a vizi diversi, che di per sé non costituirebbe ragione di inammissibilità dell'impugnazione - sia dato comunque cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l'esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (cfr. Sezioni Unite, 6 maggio 2015 n. 9100).

Il motivo risulta, in ogni caso, inconferente rispetto alla decisione impugnata, la quale ha statuito l'inefficacia del licenziamento, sull'accertato presupposto della violazione dell'art. 7, co. 2°, I. n. 300/1970, nella parte in cui è stabilito che il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza averlo sentito a sua difesa, non rilevando altre considerazioni, pur svolte in motivazione, in quanto non attinenti al percorso logico-giuridico che ha portato il giudice di merito alla statuizione adottata.

Il secondo motivo è infondato.

La I. 28 giugno 2012, n. 92, di cui non è contestata l'applicabilità al caso di specie, ha disposto, nel modificare il regime delle tutele di cui all'art. 18 I. n. 300/1970, che la violazione "della procedura di cui all'art. 7" della stessa legge n. 300 dia luogo alla dichiarazione di inefficacia del licenziamento e all'applicazione di un'indennità risarcitoria "attenuata", di importo compreso tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Non può, d'altra parte, dubitarsi della natura "procedurale" della norma che fa carico al datore di lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa, rappresentando tale obbligo, quale presupposto necessario per l'eventuale adozione del provvedimento, uno snodo essenziale della sequenza procedimentale delineata dall'art. 7 citato.

Una diversa conclusione avrebbe l'effetto, contrario alla chiara opzione prescelta dal legislatore entro il disegno complessivo di una ricomposizione e diversificazione delle tutele, di amputare la disciplina di cui al comma 6 dell'art. 18 di larga parte dell'area di applicabilità cui la stessa si riferisce, posto che le ragioni a sostegno di essa potrebbero convalidarne l'estensione ad ogni altra disposizione compresa nell'art. 7; né la qualità di norma imperativa, che può riconoscersi alla norma violata nella presente fattispecie, come ad altre rientranti nella regolamentazione procedurale del sistema delle sanzioni disciplinari, siccome poste a presidio di rilevanti interessi del lavoratore e della stessa funzionalità dell'impresa, potrebbe determinarne l'automatico trasferimento nell'ambito di tutela delineato nel comma 1 dell'art. 18, il quale riguarda specifiche e ben individuate ipotesi di nullità operanti sul piano della protezione di valori sostanziali ovvero altre ipotesi purché espressamente dichiarate tali nel particolare contesto normativo e in ragione degli speciali interessi in ciascuna coinvolti.

Non può trovare accoglimento neppure il terzo motivo di ricorso.

Si deve invero osservare, in primo luogo, come né l'una né l'altra delle questioni, che il ricorrente lamenta essere state disattese dal giudice di primo grado e di cui ha rinnovato la proposizione in sede di reclamo, varrebbe a contrastare l'accertamento, compiuto dal giudice del gravame, circa la formazione del giudicato interno sul punto della sussistenza dei fatti posti a fondamento del licenziamento disciplinare, denunciandosi con le stesse la valutazione di gravità delle condotte ed il nesso di proporzionalità rispetto alla misura espulsiva applicata e la decisione del primo giudice di fondare il proprio convincimento sul materiale probatorio acquisito nella fase sommaria, decisione tuttavia legittima alla stregua del principio di unicità del grado di giudizio.

Quanto, poi, alla censura ex art. 360 n. 5 c.p.c., ne è palese l'inammissibilità, posto che il motivo, per la parte in esame, non si conforma, pur in presenza di una pronuncia di secondo grado depositata in epoca successiva all'11 settembre 2012, al nuovo assetto del vizio "motivazionale", quale configurato dalla novella del 2012 e dalle sentenze di questa Corte a Sezioni Unite n. 8053 e n. 8054 del 2014.

Il ricorso deve conseguentemente essere respinto.

Peraltro il ricorrente, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, non è tenuto, nonostante il rigetto dell'impugnazione, al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall'art. 13, co. 1 quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (cfr., fra le altre, Cass. 2 settembre 2014 n. 18523).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; nulla per le spese.