Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 dicembre 2016, n. 25054

Professionisti - Avvocato - Illeciti disciplinari - Violazione codice deontologico - Condotta truffaldina

 

Fatto

 

L'avvocato G.S. è stato ritenuto colpevole dal Consiglio dell'ordine degli avvocati di Udine degli illeciti disciplinari contestatigli (condotta truffaldine ai danni di una propria cliente incapace di intendere e di volere, pur se non interdetta, accertati in sede penale con sentenza irrevocabile di condanna).

Per tali illeciti gli è stata comminata la sanzione della radiazione.

L'interessato ha proposto ricorso al Consiglio nazionale forense che con sentenza n. 128/2015 lo ha rigettato ritenendo non operante la legge n. 247/2012, quanto alla prescrizione, individuando la corrispondenza degli illeciti contestati nelle disposizioni del nuovo codice deontologico e rilevando che i fatti, nella loro materialità, erano state accertate in sede penale e che, comunque la sanzione applicata scaturiva da un'autonoma, condivisa, valutazione della rilevanza disciplinare delle condotte contestate, congrua rispetto alla gravità delle condotte stesse.

Il S. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi.

Il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Udine si è costituito con controricorso. L'istanza di sospensione della sanzione veniva respinta con ordinanza n. 13374/16. Il ricorrente presentava memoria.

 

Motivi della decisione

 

1. Col primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce la violazione degli artt. 54, 56 e 65 della I. 31.12.2012 n. 247 (Nuova disciplina dell'ordinamento delle professioni forensi) lamentando l'erroneità della mancata applicazione del comma 1 dell'art. 56 I. 247/2012 che prevede che "l'azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto" e del comma 3 stesso articolo che sancisce che "in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può essere prolungato di oltre 1/4, con conseguente durata massima del procedimento in anni 7, mesi 6, ampiamente decorso nella fattispecie in esame.

Il Consiglio Nazionale Forense ha escluso l’applicabilità della nuova disciplina della prescrizione, emergente dall’art. 56 della L. n. 247 del 2012, sia sulla base dell'applicazione del principio del c.d. favor rei, sia sulla base della irretroattività della norma di cui all'art. 65, comma 5, della I. n. 247 del 2012, del 2012.

In disparte la valutazione sul "favor rei" della nuova disciplina della prescrizione rispetto alla precedente, appare assorbente di ogni altra valutazione il consolidato orientamento di questa Corte, a cui si intende dare continuità, secondo cui «In tema di azione disciplinare nei confronti degli avvocati, il nuovo e più mite regime della prescrizione di cui alla I. n. 247 del 2012 non si applica ai procedimenti in corso, giacché il principio di retroattività della lex mitior non riguarda il termine di prescrizione, ma solo la fattispecie incriminatrice e la pena» (Cass. Sez. U. Sentenza n. 14905 del 16/07/2015, cfr anche Cass. Sez. U. nn. 23364 e 23836 del 2015)

La stessa Consulta ha affermato, al riguardo, che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all'ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità; sicché, il principio di retroattività non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perché si produca l'effetto estintivo del reato (Corte cost. n. 236 del 2011)

2. Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. nuovo testo, "l'omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti", lamentando la mancata valutazione dell'attività professionale svolta, di un non meglio individuato ravvedimento, della mancata comminazione in sede penale di sanzioni accessorie e interdittive e della "specchiata condotta" dell'incolpato "prima e dopo i fatti contestati", assumendo che la loro valutazione avrebbe almeno potuto incidere sull'individuazione della sanzione e sulla sua entità; in realtà viene dedotta l'omessa valutazione di una pluralità di fatti.

Il motivo è inammissibile sotto un duplice aspetto.

Va premesso che il vizio così denunciato deve trovare inquadramento nella nuova disciplina dell'art. 360, 1° co. n. 5 cod. proc. civ.; come introdotta dal d.l. 83/12 convertito con modificazioni nella legge 134/12 (sentenza di appello pubblicata dopo l’11 settembre 2012); disciplina in base alla quale la sentenza può essere impugnata, in sede di legittimità, non più per "omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia" (previgente formulazione del n. 5 dell'articolo 360 in esame), bensì nei ben più ristretti limiti "dell'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

In ordine a tale nuova formulazione si è affermato (Cass. Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014) che: "la riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione" (cfr Cass. n. 12928/14; Cass, ord. n. 21257/14; Cass. 2498/15).

Va detto che anche sotto la vigenza del "vecchio" art. 360 n. 5) il vizio di motivazione veniva ancorato a ristretti limiti applicativi, volti ad evitare che, attraverso la censura motivazionale, la corte di legittimità venisse investita di una nuova valutazione del fatto (di terzo grado). Sicché era orientamento costante che la legge non attribuisse alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare - sotto il profilo logico -formale e della correttezza giuridica - l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento.

Con la nuova formulazione così come interpretata dall'indicate sentenze delle SS.UU. - il legislatore è intervenuto, anche in funzione deflattiva, per ridurre ulteriormente, e drasticamente, l'ambito di rilevanza del vizio di motivazione.

E ciò è stato fatto secondo le seguenti direttrici:

- riconduzione di tale vizio, ex art. 12 prel., al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso che è rilevante solo quel vizio che si concreti nella violazione dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali ex art. 111 Cost., come attuato in via ordinaria dall'articolo 132 n. 4) cod. proc. civ.;

- conseguente riferibilità del vizio non più alle ipotesi di "insufficienza" della motivazione, ma soltanto a quelle di "inesistenza" della medesima, in quanto appunto rivelatrice "dell'omesso esame" circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; in maniera tale che, nella nuova formulazione, il vizio motivazionale si restringe in quello di violazione di legge, quest'ultima individuata proprio nel suddetto articolo 132 cod. proc. civ., che impone al giudice di redigere la sentenza indicando "la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione";

- individuazione delle ipotesi di "inesistenza" della motivazione, considerate a tal punto radicali da determinare la nullità della sentenza, non soltanto in senso "fisico" o "documentale" ("mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico"), ma anche logico-funzionale; nel senso di doversi reputare "inesistente", ai fini in oggetto, anche la motivazione materialmente esistente, e però connotata da "mera apparenza", dal "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili", da un ragionamento "perplesso ed obiettivamente incomprensibile"; poiché in tutte queste ipotesi la motivazione offerta viene svolta in modo talmente carente o incoerente da non poterla individuare come giustificazione o ragione del decisum e, per ciò soltanto, da risolversi in una "non motivazione" su una quaestio facti decisiva, il cui esame viene pertanto omesso;

- l'imputazione dell'omissione ad un fatto storico (principale o secondario) la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); non può invece rilevare l’omesso esame di elementi istruttori, allorquando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia poi dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

I fatti asseritamente non valutati non rientrano nel paradigma di quelli riconducibili alla dedotta violazione esulando del tutto dai limiti per il quale è previsto il controllo di legittimità in base al novellato art. 360 n. 5 c.p.c., richiedendosi di fatto alla Corte di cassazione il riesame degli elementi probatori emersi agli atti ed un nuovo e favorevole giudizio sul merito della controversia; senza, peraltro, soddisfare gli oneri di specificità e di autosufficienza (in particolare, il ricorrente non ha indicato, ai fini del rispetto dell'art. 366 n. 6 c.p.c., se e dove i suddetti fatti fossero stati introdotti in funzione dell'esame del giudice disciplinare nel relativo giudizio).

Va, conseguentemente, rigettato il ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in €.4000 per compensi professionali, oltre € 200 per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1, quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.