Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 15 ottobre 2018, n. 25662

Tributi - Reddito d’impresa - Accertamento - Riscossione - Rideterminazione del reddito - Documentazione extracontabile

 

Fatti di causa

 

1. L'Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, depositata il 22 settembre 2011, che, accogliendo l'appello proposto da P.M., ha annullato l'avviso di accertamento con cui, relativamente all'anno 2004, erano stati rideterminati il reddito di impresa, il valore della produzione ai fini dell'I.R.A.P. e la maggiore I.V.A. dovuta e recuperate a tassazione le imposte non versate.

2. Dall'esame della sentenza impugnata si evince che la ripresa fiscale muoveva dalla constatazione di una differenza, di rilevante importo, tra le rimanenze contabili esposte in dichiarazione e quelle effettive, nonché dell'esistenza di un immobile, adibito a deposito, per il quale la contribuente non aveva provveduto alle comunicazioni previste dall'art. 35, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

2.1. In essa si dà atto che la Commissione provinciale aveva parzialmente accolto il ricorso della contribuente, rideterminando il reddito di impresa in euro 29.548,00 e confermando il volume d'affari e le imposte accertate relativamente all'I.V.A.

2.2. Il giudice di appello ha accolto il gravame della contribuente, annullando integralmente l'atto impositivo, in ragione della erroneità del metodo utilizzato dall'Ufficio per determinare la percentuale di ricarico applicata e dell'insussistenza dei presupposti per l'operatività della presunzione di cui all'art. 53, d.P.R. n. 633 del 1972.

3. Il ricorso è affidato a tre motivi.

4. Resiste con controricorso P.M..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso l'Agenzia denuncia l'omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione al fatto, affermato nella sentenza impugnata, dell'applicazione di una percentuale di ricarico determinata con il calcolo della media semplice, anziché ponderata.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto in via subordinata, denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 54 e 55, d.P.R. n. 633 del 1972, e 39, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per aver il giudice di appello ritenuto non corretta la rideterminazione del reddito della contribuente mediante applicazione di una percentuale di ricarico individuata con il calcolo della media semplice, anziché ponderata, pur in presenza di una documentazione extracontabile rilevatrice della irregolarità delle scritture contabili e in difetto di prova della natura non omogenea dei prodotti esaminati.

2.1. I motivi, esaminabili congiuntamente, sono fondati.

La Corte territoriale afferma che la percentuale di ricarico applicata è stata determinata mediante il ricorso al criterio della media semplice e non già, come sostenuto dall'Ufficio, della media ponderata, e a fondamento dell'assunto richiama, senza però riprodurle, pagine del ricorso introduttivo e dell'atto di appello proposti dalla contribuente.

Orbene, benché sia sufficiente la motivazione di una sentenza che faccia riferimento al contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e le stesse risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo (cfr. Cass., sez. un., 16 gennaio 2015, n. 642), la mancata riproduzione della parte dell'atto richiamato non consente di ritenere assolto l'onere motivazionale, non permettendo la facile individuazione del percorso logico seguito per giungere alla decisione.

2.2. Con riferimento all'applicazione della percentuale di ricarico, giova rammentare che il ricorso al sistema della media semplice ben può fondare la presunzione di un maggior reddito quando il contribuente non provi, ovvero non risulti in punto di fatto, che l'attività sottoposta ad accertamento ha ad oggetto prodotti con notevole differenza di valore e che quelli maggiormente venduti presentano una percentuale di ricarico molto inferiore a quella risultante dal ricarico medio (cfr. Cass., ord., 10 dicembre 2013, n. 27568; Cass. 16 dicembre 2009, n. 26312).

3. Con l'ultimo motivo la ricorrente si duole della violazione dell'art. 53, d.P.R. n. 633 del 1972, per aver la Corte territoriale escluso l'operatività della presunzione di cessione della merce rivenuta presso un deposito non indicato, nelle dichiarazioni rese ai sensi dell'art. 35 del medesimo decreto, tra i luoghi destinati allo svolgimento dell'attività d'impresa.

3.1. Il motivo è fondato.

L'art. 53, primo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, prevede che si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività, comprese le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze, stabilimenti, negozi o depositi dell'impresa, né presso i suoi rappresentanti, salvo che sia dimostrato che i beni stessi sono stati utilizzati per la produzione, perduti o distrutti o che sono stati consegnati a terzi in lavorazione, deposito o comodato o in dipendenza di contratti estimatori o contratti di opera, appalto, trasporto, mandato, commissione o altro titolo non traslativo della proprietà.

Il successivo terzo comma, nello specificare i luoghi cui detta norma si riferisce, distingue fra sedi secondarie, filiali e succursali, che debbono risultare iscritte presso la camera di commercio o in altro pubblico registro, e dipendenze, stabilimenti, negozi e depositi, che, per essere considerati pertinenti all'impresa, debbono essere inclusi nelle dichiarazioni di inizio o variazione di attività, di cui all'art. 35, d.P.R. n. 633 del 1972, o nella dichiarazione di cui all'art. 81 del medesimo decreto.

L'art. 1, d.P.R. 10 novembre 1997, n. 441, nel riaffermare la presunzione di cessione per i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti (art. 1, primo comma), dispone che, con riferimento alla disponibilità di sedi secondarie, filiali o succursali, nonché di dipendenze, stabilimenti, negozi, depositi e degli altri locali e dei mezzi di trasporto, la presunzione è evitata qualora la destinazione di tali locali all'attività dell'impresa emerga, oltre che dalla iscrizione al registro delle imprese, alla camera di commercio o da altro pubblico registro, dalla dichiarazione di cui all'art. 35, d.P.R. n. 633 del 1972, nonché da altro documento dal quale risulti la destinazione dei beni esistenti presso i luoghi suindicati, annotato in uno dei registri in uso, tenuto ai sensi dell'articolo 39, d.P.R. n. 633 del 1972.

Tale previsione - cui va riconosciuta una valenza integrativa e ricognitiva della previgente disciplina (cfr. Cass. 11 agosto 2017, n. 20035; Cass. 15 marzo 2005, n. 5558) - nel ribadire, dunque, la presunzione di cessione di cui all'art. 55, d.P.R. n. 633 del 1972, ha, da un lato, eliminato ogni differenza di trattamento tra sedi secondarie, filiali e succursali dell'impresa e altri locali nella disponibilità dell'imprenditore e, dall'altro, ha circoscritto l'operatività della stessa ai soli casi in cui la disponibilità, da parte dell'impresa, di depositi non risultanti dall'iscrizione al registro delle imprese, alla camera di commercio o ad altro pubblico registro o dalla dichiarazione di cui all'art. 35, d.P.R. n. 633 del 1972, non emerga da altro documento dal quale risulti la destinazione dei beni esistenti presso i luoghi suindicati, annotato in uno dei registri di cui all'art. 39 (cfr. Cass. 20 agosto 2008, n. 16838).

Le presunzioni di cessione in esame vanno annoverate tra le presunzioni legali «miste», nel senso che consentono la prova contraria da parte del contribuente, ma solo entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova prefigurati dalle richiamate disposizioni e da queste ultime previste ad evidenti fini antielusivi (cfr. Cass. 19 marzo 2017, n. 6185; Cass. 27 maggio 2015, n. 10915; Cass. 4 febbraio 2015, n. 1976).

3.2. Ciò posto, la Corte territoriale ha escluso l'operatività della presunzione di cessione di beni rivenuti presso un deposito di pertinenza dell'impresa, pur in assenza di una comunicazione, formalmente dichiarata nei modi e nei termini previsti, della destinazione dei locali all'attività di impresa o di fatti o comportamenti concludenti da cui desumere la destinazione dei beni ad uno specifico deposito non dichiarato di pertinenza dell'impresa.

Così facendo, non ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto.

4. La sentenza va, dunque, cassata con riferimento ai motivi accolti e rinviata, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, in diversa composizione.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata con riferimento ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, in diversa composizione.