Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 marzo 2019, n. 6836

Tributi - Reddito d’impresa - Accertamento - Verifica fiscale - Divieto di abuso del diritto

 

Fatti di causa

 

1. La controversia riguarda l'Impugnazione, da parte della R.M. Srl, con sede legale in Ortona, di un avviso di accertamento, emesso dall'Agenzia delle entrate a seguito di verifica fiscale, recante maggiori IRES e IRAP, oltre sanzioni ed interessi, per un ammontare di euro 1.629.108,00, per l'annualità 2004, in ragione di quattro rilievi.

2. La società impugnò l'atto impositivo innanzi alla CTP di Chieti che, con sentenza n. 49/2009, annullò l'avviso limitatamente ai rilievi nn. 1 e 2 e lo confermò per i rilievi nn. 3 e 4.

3. Avverso tale decisione la contribuente ha interposto appello principale, l'Agenzia ha interposto appello incidentale.

La CTR dell'Abruzzo, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale accoglimento dell'appello principale, ha annullato l'avviso quanto al rilievo n. 3 e ha rigettato l'appello principale quanto al rilievo n. 4; inoltre, ha rigettato l'appello incidentale dell'Agenzia.

La CTR, per ciò che ancora interessa (in quanto l'Agenzia ha prestato acquiescenza all'annullamento del rilievo n. 1), ha ritenuto illegittimi: il rilievo n. 2, concernente l'indeducibilità delle spese per sistemazione impianti e per lavori edili di ristrutturazione; il rilievo n. 3, concernente il recupero del costo di interessi passivi per violazione del principio d'inerenza; al contrario, il giudice d'appello ha ritenuto legittimo il rilievo n. 4, relativo al recupero a tassazione degli ammortamenti sull'opificio di cui la contribuente era affittuaria.

4. L'Agenzia ricorre per la cassazione dei capi della sentenza della CTR a sé sfavorevoli (relativi ai rilievi nn. 2 e 3), sulla base di due complessi motivi; la contribuente resiste con controricorso e, a sua volta, propone ricorso incidentale avverso il capo della sentenza della CTR che ha confermato la legittimità del rilievo n. 4, articolando tre motivi, cui resiste l'Agenzia con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo complesso motivo del ricorso principale, sotto la rubrica: «a) violazione e falsa applicazione degli artt. 37 bis e 39 c. 1 lett. d) del d.p.r. n. 600/1973 e 109 c. 5 del TUIR, in combinato disposto con l'art. 2697 del cod. civ., con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c.. b) omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.», con riferimento al rilievo n. 3, l'Agenzia assume che la contribuente aveva maturato un credito per forniture di oltre euro 14 milioni verso la controllante M.A. Spa e, al contempo, per il massiccio ricorso al finanziamento bancario (per un ammontare di oltre euro 5 milioni), nel 2004, aveva sostenuto un costo per "interessi passivi" di euro 307.033,00, che era stato ritenuto indeducibile dall'Ufficio, per difetto d'inerenza e a causa del comportamento antieconomico della società; in sostanza, l'intera operazione era inopponibile all'erario, ai sensi dell'art. 37-bis citato, per la sua finalità elusiva, consistente nell'effettuare un finanziamento gratuito alla capogruppo, trasferendo indebitamente i relativi oneri finanziari (interessi passivi) alla R.M. Srl che, in modo non consentito, li aveva dedotti dal reddito imponibile.

La ricorrente, quindi, si duole, innanzitutto, che la CTR abbia erroneamente negato che l'Ufficio avesse dimostrato, per presunzioni, come consentito dal detto art. 39, comma 1, lett. d, la finalità elusiva dell'intera operazione, in ragione della sua antieconomicità.

Sotto altro profilo, l'Agenzia censura la CTR per avere, al contempo, violato l'art. 2697 cod. civ., trasferendo contra legem l'onere della prova sull'Amministrazione finanziaria, sebbene quest'ultima lo avesse già "perfettamente" assolto coll'allegazione dell'antieconomicità della gestione societaria.

La ricorrente, infine, fa valere il vizio motivazionale della sentenza impugnata che, da un lato, non spiega perché non erano convincenti le prove offerte dall'Ufficio a dimostrazione del comportamento antieconomico ed elusivo della contribuente; dall'altro, non valuta che il costo degli interessi passivi non era "inerente", per essere l'operazione di finanziamento estranea all'oggetto sociale della contribuente, anche perché l'Ufficio aveva prodotto in giudizio una fattura, relativa all'annualità 2005, con la quale veniva regolarizzato il credito nei confronti della capogruppo, coll'applicazione del tasso interbancario del 3,674%, incompatibile con la natura non finanziaria dell'operazione.

1.1. Preliminarmente è da disattendere l'eccezione della contribuente di inammissibilità dell'asserita violazione del combinato disposto degli artt. 37-bis, 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973, in quanto, come la società assume di avere dedotto nel giudizio d'appello, quelle violazioni - che non erano riportate nell'avviso di accertamento, nel quale si contestava solo l'indeducibilità dei costi per difetto d'inerenza - sono state inammissibilmente aggiunte in sede processuale.

Recentemente questa Corte, tornando ad affrontare il tema del contendere, già oggetto di precedenti arresti (Cass. 16/03/2016, n. 5155), ha, in tale modo, composto il quadro dell'abuso di diritto e dell'elusione fiscale: «In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente.» (Cass. 23/11/2018, n. 30404).

Orbene, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la fattispecie dell'abuso del diritto e la sua valutazione da parte del giudice nazionale rappresenta un principio generale vigente nell'ordinamento italiano, con radici comunitarie e costituzionali (art. 53 Cost.), che non trova di per sé ostacolo nella mancata allegazione di tale situazione da parte dell'Amministrazione finanziaria e può, quindi, essere rilevato d'ufficio in sede giurisdizionale (Cass. 25/11/2015, n. 24024, in senso conforme: Cass. n. 5380/2015).

Svolta questa premessa, per la quale l'abuso del diritto e il carattere elusivo delle prescrizioni fiscali che connotano una certa operazione sono rilevabili d'ufficio dal giudice, ne consegue che è ammissibile che l'Amministrazione finanziaria faccia valere, per la prima volta durante il giudizio tributario, l'abuso del diritto o la condotta elusiva del contribuente, non contestati nell'atto impositivo.

1.2. Il complesso motivo è infondato.

Per un verso, con riferimento al profilo di critica riguardante la violazione di legge, è il caso di ricordare il fermo indirizzo della Corte, espresso in relazione all'art. 75, comma 5, TUIR (attuale art. 109 TUIR), a cui s'intende aderire, in mancanza di ragioni ostative, per il quale: «Ai fini della determinazione del reddito d'impresa, gli interessi passivi, ai sensi dell'art. 75, comma 5, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ed a differenza della precedente normativa contenuta nell'art. 74, del d.P.R. 20 settembre 1973, n. 597, sono sempre deducibili, anche se nei limiti di cui all'art. 63 (ora 96) del detto d.P.R. n. 917 del 1986, che indica misura e modalità del calcolo degli interessi passivi deducibili in via generale, senza che sia necessario operare alcun giudizio di inerenza» (Cass. 14/05/2014, n. 10501).

Il giudice d'appello, conformandosi a questo principio di diritto, ha qualificato come legittima la deduzione degli interessi passivi.

Alla stregua di un apprezzamento di fatto - sindacabile, da parte di questa Corte, solo dal punto di vista del vizio di motivazione -, la CTR ha anche negato che l'Amministrazione finanziaria, gravata del relativo onere probatorio, avesse dimostrato che il ricorso al credito bancario, da parte della contribuente, celasse, con finalità elusiva, un'operazione di finanziamento a favore della capogruppo.

In altri termini, a giudizio della CTR, il finanziamento bancario non era un mero artificio, un espediente, privo di una propria sostanza economica, finalizzato, essenzialmente, a realizzare un indebito vantaggio fiscale.

Il ragionamento della Commissione tributaria regionale segue la scia della giurisprudenza di legittimità che, occupandosi del tema delle operazioni aventi finalità elusive, ha affermato che: «In materia tributaria, costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicché il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe, sull'Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale» (Cass. 26/02/2014, n. 4603 e di Cass. 23/11/2018, n. 30404).

Per altro verso, con riferimento al profilo di critica rivolto alla motivazione della sentenza impugnata, costituisce ius receptum che il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., vigente ratione temporis, di: «omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione» attiene necessariamente a un: «fatto controverso e decisivo per il giudizio», ossia a un fatto storico-naturalistico, principale o secondario, risultante dalla sentenza o dagli atti processuali, dedotto con un'esposizione chiara e sintetica, in relazione al quale si assume un vuoto argomentativo (omessa motivazione), oppure la carenza della trama argomentativa che la renda inidonea a dare conto delle ragioni della decisione (insufficiente motivazione) o, infine, un percorso argomentativo incomprensibile per l'insuperabile contrasto tra asserzioni inconciliabili (motivazione contraddittoria) (cfr., ex multis, Cass. 29/07/2015, n. 15997; Cass. 29/07/2011, n. 16655).

Tanto premesso sul piano dei canoni giuridici, venendo alla controversia tributaria in esame, la CTR ha illustrato, con chiarezza, senza incorrere in aporie logico-giuridiche, le ragioni della deducibilità, da parte della contribuente, degli oneri (interessi passivi) derivanti dal ricorso al credito bancario.

2. Con il secondo complesso motivo, sotto la rubrica: «a) omessa e/o insufficiente motivazione su fatto decisivo e controverso, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Fatto controverso: rilievo n. 2 IRES e IRAP - indebita deduzione integrale per l'anno 2004 di spese di manutenzione straordinaria relative ad opere edili volte a migliorare la funzionalità dell'immobile di terzi, b) violazione e falsa applicazione degli articoli 108, 109 e 110 del TUIR 917/86 e dell'articolo 21 del d.P.R. n. 633/1972, con riferimento all'articolo 360, comma 1, n. 3 c.p.c.», l'Agenzia premette che, nel 2004, la contribuente aveva imputato a costi di esercizio spese di manutenzione su immobili locati per un totale di euro 343.468,14 che, quali spese di straordinaria amministrazione, volte a migliorare la funzionalità dell'immobile, erano costi pluriennali che, interessando più esercizi, non potevano essere interamente dedotte nell'esercizio (2004) in cui erano state sostenute, ma dovevano essere ripartite per tutti gli esercizi di utilizzo.

La ricorrente, quindi, lamenta che la CTR, testualmente: «ha erroneamente considerato che la ripresa fiscale non trova fondamento nella ritenuta natura di manutenzione straordinaria delle spese affrontate» (cfr. pag. 20 del ricorso per cassazione).

Sotto altro profilo, si fa valere l'insufficiente motivazione della sentenza impugnata, nella quale non sarebbe stato rilevato che i lavori in oggetto erano sicuramente classificabili come "opere di manutenzione straordinaria", in quanto tali insuscettibili di essere integralmente dedotti nell'esercizio 2004.

2.1. La doglianza riguardante la violazione di legge è inammissibile.

In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (Cass. 30/12/2015, n. 26110).

Nel caso in esame, è evidente che la critica attiene alla ricostruzione della fattispecie concreta e, in particolare, all'asserito vizio di motivazione che la CTR avrebbe commesso nel qualificare come spese di ordinaria amministrazione (integralmente deducibili nell'esercizio 2004), anziché di straordinaria amministrazione (solo parzialmente deducibili nell'esercizio 2004), le spese per sistemazioni impianti e per lavori edili di ristrutturazione.

2.2. La doglianza riguardante l'insufficiente motivazione è infondata.

A giudizio di questa Corte, diversamente da quanto prospetta l'Agenzia, la CTR, con motivazione priva di aporie o incongruenze sul piano logico-giuridico, ha esposto con chiarezza le ragioni che l'hanno indotta a qualificare le spese in questione come spese ordinarie, anziché come spese straordinarie.

3. Con il primo motivo del ricorso incidentale, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 14, del d.P.R. n. 42/1988, 102, comma 8, TUIR, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la contribuente premette che, con riferimento al rilievo n. 4, la CTR ha stabilito che la società, avendo preso in affitto uno stabilimento, si era avvalsa della disposizione di cui all'art. 67, comma 9, TUIR, in base alla quale gli ammortamenti delle immobilizzazioni materiali sono posti a carico dell'affittuario e non del concedente e, ancora, richiamando l'art. 14, comma 1, del d.P.R. n. 42/1988 (in base al quale - secondo la sintesi esposta in sentenza - le quote di ammortamento sono commisurate al costo originario dei beni risultante dalla contabilità della concedente e sono deducibili fino alla concorrenza del costo non ancora ammortizzato, ovvero, considerando già dedotte le quote relative al periodo di ammortamento, al 50% del loro ammontare), per poi negare la deducibilità dell'ammortamento, anche nella misura del 50%, in quanto la società non aveva fornito i dati relativi al costo originario dei beni ammortizzati, risultante dalla contabilità della concedente, ma aveva determinato gli ammortamenti sul valore dei beni risultante da una perizia di stima.

Fatte queste precisazioni, la contribuente censura la CTR per l'erronea applicazione delle disposizioni normative che precedono in ragione della possibilità, della stessa società, di dedurre gli ammortamenti dei cespiti condotti in affitto, potendosi desumere dalle scritture contabili della concedente il costo originario dei beni concessi in affitto, e risultando dimostrata la corretta individuazione del costo originario dei medesimi cespiti ammortizzabili, in base ad una perizia di stima redatta in occasione del conferimento realizzativo di un ramo d'azienda a favore della concedente.

4. Con il secondo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 14, comma 1, del d.P.R. n. 42/1988, nel testo vigente ratione temporis, nella parte in cui disponeva la deducibilità del 50% dell'ammontare delle quote relative al periodo di ammortamento decorso, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la contribuente censura la CTR per avere ritenuto che l'integrale o la parziale indeducibilità delle quote di ammortamento discendesse dalla carenza di idonea documentazione.

5. Con il terzo motivo, sotto la rubrica: «Omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia inerente l'esclusione della possibilità di ammortamento - sia esso integrale e/o parziale ed in virtù della normativa oggetto dei motivi di ricorso incidentale che precedono - delle immobilizzazioni materiali, in relazione al disposto di cui all'art. 360 1 comma n. 5 c.p.c.», la contribuente censura il vizio della trama argomentativa della sentenza della CTR, che ha negato che la società avesse provato l'ammontare del costo originario dei beni ammortizzati, escludendo che esso potesse essere desunto da una perizia di stima, con ciò trascurando una serie di elementi probatori, addotti dalla società, decisivi ai fini della legittima deduzione degli ammortamenti.

5.1. I tre motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono fondati.

Vale la regola di diritto, stabilita in passato dalla Corte, per la quale: «In tema di determinazione del reddito d’impresa, le quote di ammortamento delle aziende date in affitto (o in usufrutto), ai sensi degli artt. 67, comma 9, del d.P.R. n. 917 del 1986 [attuale art. 102, comma 8, TUIR], e 14, comma 2, del d.P.R. n. 42 del 1988, sono deducibili dal reddito dell’affittuario (o dell’usufruttuario), non da quello del concedente [...]». (Cass. 10/08/2010, n. 18537).

L'art. 102, comma 8, TUIR, con riferimento al trattamento fiscale delle quote di ammortamento delle aziende date in affitto (o in usufrutto), dispone che esse sono deducibili "nella determinazione del reddito dell'affittuario", il che significa che le stesse quote debbono essere dedotte dall'utilizzatore e non dal proprietario dei beni aziendali.

La norma aggiunge che le quote di ammortamento sono commisurate al costo originario dei beni, risultante dalla contabilità del concedente, e sono deducibili fino a concorrenza del costo non ancora ammortizzato, ovvero, se il concedente non ha tenuto regolarmente il libro dei beni ammortizzabili (o altro libro o registro regolarmente tenuti), considerando già dedotto il 50% delle quote relative al periodo d'ammortamento già decorso.

Tanto premesso, nella specie la CTR non ha fatto corretta applicazione di queste norme, e, senza approfondire adeguatamente il proprio ragionamento - il che vale al fine di riconoscere il vizio di motivazione, connesso alla dedotta violazione di legge, prospettato dalla contribuente -, ha reputato contra legem che la società, quale affittuari dell'azienda, avesse illegittimamente dedotto le quote d'ammortamento dei cespiti (ammortizzabili), sebbene il dato, preliminare e indispensabile, del costo storico di tali componenti, risultasse dalla contabilità della concedente e, in particolare, dal libro giornale e dal bilancio.

A ciò si aggiunga che, quale riscontro del costo storico del bene ammortizzabile, attestato dalla contabilità, l'interessata aveva anche indicato il suo valore di mercato, risultante da una perizia di stima eseguita all'epoca del conferimento dell'azienda a favore della concedente.

Per le stesse ragioni ha errato la CTR nell'escludere la possibilità d'ammortamento, per così dire, parziale, dei beni aziendali, da parte dell'affittuario, prevista dall'art. 102, comma 8, cit., nel caso in cui il concedente non abbia tenuto regolarmente il libro dei cespiti ammortizzabili, perché anche questa seconda ipotesi (esattamente come la prima, che si verifica in caso di regolare tenuta, da parte del concedente, del medesimo libro contabile), postula la conoscenza del costo originario del cespite, quale dato contabile, nella specie, (come suaccennato) sussistente.

6. Alla stregua di queste considerazioni, rigettato il ricorso principale e accolto il ricorso incidentale, la sentenza impugnata è cassata, in relazione al ricorso incidentale accolto, con rinvio alla CTR dell'Abruzzo, sezione staccata di Pescare, in diversa composizione, alla quale è demandato di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso incidentale accolto, rinvia alla Commissione tributaria regionale dell'Abruzzo, sezione staccata di Pescara, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.