Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 18 gennaio 2018, n. 1174

Licenziamento disciplinare - Violazione del principio della immediatezza - Distinzione tra contestazione disciplinare e irrogazione della sanzione disciplinare - Incidenza sul diritto di difesa o utilizzo del potere di recesso ad libitum - Rinuncia implicita al potere sanzionatorio del datore di lavoro - Non sussiste - Utilizzo dell'attività svolta dal dipendente per ridurre l'entità del pregiudizio subito

Fatti di causa

La Corte d'appello di Firenze confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva dichiarato l'illegittimità, per violazione del principio della immediatezza, del licenziamento irrogato il 4/7/2003 dalla Cassa di Risparmio di S.M. s.p.a. al ricorrente, P.B., proprio dipendente, con condanna alla reintegrazione di quest'ultimo nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno ex art. 18 L. 300/70.

Detta pronuncia veniva cassata da questa Corte che, con sentenza n. 1995/2012 rinviava alla Corte d'Appello di Bologna perché valutasse il rispetto del principio di immediatezza, seppure alla luce della correttezza e buona fede, in una prospettiva che tenesse conto dei fatti incontroversi ed ammessi dal B., di avere richiesto all'istituto il differimento della procedura disciplinare per limitare le proprie responsabilità.

La Corte distrettuale adita, con sentenza resa pubblica in data 17/11/2014, rigettava integralmente le domande proposte dal lavoratore e lo condannava alla restituzione del percepito. A fondamento del decisum, premessa la natura relativa del principio della immediatezza, osservava che l'intervallo temporale intercorso fra le difese rassegnate dal lavoratore (24/4/2003) ed il recesso datoriale (4/7/2003), non era di natura tale da configurare una rinuncia implicita al potere sanzionatorio; del pari non configurava un'ipotesi di rinuncia esplicita, non potendo ritenersi espressione di tale volontà, l'utilizzo da parte della società, dell'attività svolta dal dipendente per ridurre l'entità del pregiudizio subito.

Sotto altro versante rilevava che, comprovato l'inadempimento, era onere del prestatore dimostrare l'esistenza di una causa di esonero da responsabilità ex art.1218 c.c., non emersa alla luce dei dati istruttori acquisiti in giudizio.

Avverso tale pronuncia P. B. interpone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, successivamente illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso l'istituto di credito intimato.

 

Ragioni della decisione

 

1.Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 L. 604/1966 in relazione all'art. 360 comma primo n.3 c.p.c..

Si deduce che la Corte distrettuale abbia disatteso il significato precettivo del principio della immediatezza, che risiede innanzitutto, nell'esigenza di evitare uno stato di protratta incertezza sulla risolubilità del rapporto successivamente alla adozione di una contestazione di addebito.

Si argomenta che un intervallo di 74 giorni fra il completamento delle difese del lavoratore e l'adozione del provvedimento sanzionatorio, è già di per sé un tempo molto lungo. Si critica inoltre la sentenza impugnata per il malgoverno dei dati istruttori acquisiti al processo, dai quali era emerso che il licenziamento era "stato ritardato solo per far lavorare ancora il sig. B. sulle medesime posizioni contestate", affinché l'esposizione connessa alle operazioni da lui autorizzate - come ammesso dal medesimo istituto di credito - si riducesse. Si trattava di elementi che andavano a definire un "comportamento concludente tale da evidenziare una rinuncia al potere di recesso, quindi una rinuncia implicita".

2. Il motivo è privo di fondamento.

Al riguardo è, anzitutto, da rimarcare che, in base al sistema di diritto positivo, il giudizio di rinvio si presenta come un "processo chiuso" destinato esclusivamente alla nuova statuizione del giudice di merito in sostituzione di quella cassata; in particolare, la determinazione dei poteri del giudice di rinvio deve essere desunta attraverso l'esame dei limiti entro í quali la Corte di cassazione ha esercitato i suoi poteri di censura sulla sentenza impugnata.

Nello specifico nel giudizio rescindente, questa Corte aveva rimarcato "che quello della correttezza e della buona fede è principio che va valutato in funzione della immediatezza L. n. 300 del 1970, ex art. 7 ossia dell'arco di tempo che trascorre tra la contestazione ed il licenziamento. Più in dettaglio, la violazione del suddetto principio, per acquisire rilevanza in punto di immediatezza del licenziamento, deve incidere sul diritto di difesa, nel senso che artatamente si sia procrastinata la scansione temporale del momento del recesso rendendo più difficoltosa la difesa del lavoratore od anche, secondo altra prospettiva, anch'essa inclusa nella ratio del principio di immediatezza, deve configurare un esercizio del potere datoriale diretto a servirsi ad libitum dell'arma del recesso, tenendo "in pugno" il lavoratore a tempo indeterminato...". Aveva quindi ritenuto erroneo l'iter argomentativo percorso dalla Corte fiorentina secondo cui l'avere assecondato la richiesta del lavoratore, ancorché per un proprio eventuale vantaggio, integrerebbe la violazione del principio di correttezza e buona fede da parte datoriale, perché avrebbe allungato i tempi per il licenziamento, nonostante l'iniziativa fosse ascrivibile al lavoratore.

3. La Corte di merito, nella rinnovata valutazione dei dati acquisiti al processo, si è collocata nell'alveo della pronuncia rescindente e dei principi dalla stessa enunciati, che riecheggiano del resto, l'insegnamento di questa Corte secondo cui ai fini della valutazione della tempestività della sanzione espulsiva, deve distinguersi tra la contestazione disciplinare, che deve avvenire a ridosso dell'infrazione o del momento in cui il datore ne abbia notizia, e l'irrogazione della sanzione disciplinare, che può avvenire anche a distanza di tempo, ma pur sempre nel rispetto del principio della buona fede, che è matrice fondativa dei doveri sanciti dall'articolo 7 dello statuto dei lavoratori e dall'art. 2106 del codice civile in materia di esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (cfr. Cass. 9/5/2007 n. 10547).

Ha infatti affermato, che "l'intervallo di tempo intercorso tra le difese rassegnate dal receduto in data 24/4/03 ed il recesso comminato in data 4/7/03 e perfezionatosi in data 7/7/03, non è di entità tale da configurare una rinuncia implicita al potere sanzionatorio", con la precisazione che detto intervallo neanche realizzava "una rinuncia esplicita, atteso che l'eventuale essersi avvalsa la pregressa datrice del facere del receduto ai fini di ridurre l'entità del pregiudizio, non è idonea, ad avviso della Corte, a configurarla".

4. Il percorso motivazionale a sostegno del decisum, in merito alla sussistenza del requisito dell'immediatezza del licenziamento disciplinare, appare congruo ed esente da lacune di ordine logico-giuridico, avendo la Corte ritenuto con adeguata motivazione, che il comportamento datoriale non avesse vulnerato il principio di correttezza e buona fede cui deve essere conformato. Il tempo intercorso fra le rassegnate giustificazioni e irrogazione del provvedimento espulsivo, anche mediante l'adibizione del dipendente, in siffatto periodo, alle mansioni a lui ascritte, è stato infatti ritenuto non incompatibile con la ratio sottesa ai summenzionato requisito, che ha lo scopo di non protrarre l'incertezza sulla sorte del rapporto, onde la statuizione, congrua e completa per quanto sinora detto, in quanto riservata alla valutazione del giudice di merito (vedi ex plurimis Cass. 12/1/2016 n. 281), si sottrae alla censura all'esame.

5. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1218 c.c. e degli artt. 1 e 3 l. 604/1966, ex art. 360 comma primo n.3 c.p.c..

Deduce che le proprie condotte cessano di essere rimproverabili sotto il profilo delle disposizioni richiamate, "nel momento in cui, nel porre in essere determinati atti, egli risulti avere agito come mero esecutore di una linea di condotta creditizia proveniente dagli organi direttivi della Cassa o, in ogni caso, conosciuta ed approvata da essi". Evidenzia come già il 28/2/2003 data della prima operazione contestata in favore del cliente V., il Consiglio di Amministrazione avesse deliberato un affidamento di euro 4.000.000 poi elevato ad euro 4.480.000, e che l'aumento dell'affidamento era il segno che il cliente era ritenuto meritevole dell'ampliamento dei fidi da parte della società, perfettamente edotta delle anomalie registrate, sin dal marzo 2003, come desumibile dai rilievi svolti dal CTP della Cassa.

6. Anche detto motivo va disatteso.

Al di là di ogni considerazione sul difetto di specificità della censura che non reca una riproduzione dei documenti cui fa riferimento (rilievi del CTP della cassa contenuti anche nella relazione di CTU), va rimarcato che per il tramite della violazione di legge, essa tende a pervenire ad una rivisitazione dell'iter motivazionale seguito dalla sentenza impugnata, inammissibile nella presente sede di legittimità.

Va infatti rimarcato che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione (cfr. ex plurimis, Cass. 11/1/2016 n. 195, Cass. 16/7/2010 n. 16698).

La doglianza tende a stigmatizzare l'impugnata sentenza per il malgoverno dei dati istruttori acquisiti, così pervenendo ad una revisione delle valutazioni e del convincimento della Corte di merito per il conseguimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini dei giudizio di cassazione (vedi Cass. 4/4/2014 n.8008, Cass. SS.UU. 25/10/2013 n.24148);

Peraltro, non può sottacersi che il giudice del gravame ha specificamente argomentato in ordine al corretto operato dell'Istituto di credito, sul rilievo che il dipendente aveva dato atto di avere effettivamente superato i limiti di affidamento a lui riconosciuti, sia pur ritenendo di avere nel corso delle successive operazioni, l'assenso degli organi sovraordinati. La Corte ha quindi precisato, con apprezzamento del tutto corretto sul piano logico, che non poteva ritenersi sufficiente alla dimostrazione di tale assenso, "il mero aumento dell'affidamento, atteso, che il contestato superamento è relativo alla nuova e più elevata misura deliberata. E lo stesso sistema informatico interno non poteva che rilevare le operazioni ex post e non già ex ante, onde la mera inerzia non può costituire nemmeno una prova presuntiva dell'esistenza di una autorizzazione implicita".

La fattispecie delibata, è stata oggetto di adeguato scrutinio sotto tutti i profili considerati dalla censura in oggetto, sicché la pronuncia impugnata, in parte qua, resiste alla censura all'esame.

7. Con il terzo motivo si denuncia omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 comma primo n.5 c.p.c.. Si stigmatizza la sentenza impugnata per avere tralasciato di considerare taluni dati essenziali ai fini del decidere, quali la sottoposizione delle operazioni gestite dal B. alla speciale attenzione della Banca d'Italia e della Direzione dell'istituto, sin da epoca anteriore ai fatti di causa, come emerso dalla relazione di CTU in atti.

Il motivo non è rispettoso dei detta:mi sanciti dall'art. 360 n.5, come novellato dal d.l. 22/6/12 n. 83 conv. in L. 7/8/12 n. 134.

Deve al riguardo considerarsi che il nuovo testo dell'art. 360 cod. proc: civ., n.5 applicabile nella fattispecie, introduce nell'ordinamento un vizio specifico che concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

La parte ricorrente deve dunque indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), - il "fatto storico", i cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui ne risulti l'esistenza, il "come" e il "quando" (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la "decisività" del fatto stesso" (Cass. sez. un. 22/9/2014 n. 19881, Cass. sez. un. 7/4/2014 n.8053). Nella riformulazione dell'art. 360 c.p.c., n.5 è dunque scomparso ogni riferimento letterale alla "motivazione" della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d'ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per "mancanza della motivazione".

Pertanto, l'anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all'esistenza della motivazione in sé, e si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili", nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile".

L'iter motivazionale che innerva l'impugnata sentenza, come riferito nello storico di lite, non risponde infatti ai requisiti dell'assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l'esercizio del sindacato di legittimità, onde la pronuncia si sottrae alla censura all'esame.

8. In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso è rigettato.

Per il principio della soccombenza, le spese del presente giudizio si pongono a carico del ricorrente nella misura in dispositivo liquidata.

Si dà atto, infine, della sussistenza delle condizioni richieste dall'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, per il versamento da parte ricorrente, a titolo di contributo unificato, dell'ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell'art.13 comma 1 quater d.p.r. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.