Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 settembre 2016, n. 18581

Licenziamento disciplinare - Giornalista - Tutela reale - Deroga - Prova

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 12324/11 il Tribunale di Roma dichiarava illegittimo per violazione dell'art. 7 legge n. 300/70 (omessa contestazione dell'addebito e omessa audizione dell'incolpato) il licenziamento disciplinare intimato il 12.7.06 da S.D.I. S.r.l. al giornalista S. L. e ne ordinava la reintegra ex art. 18 legge n. 300/70, con le relative conseguenze economiche e previdenziali e con detrazione dell'aliunde perceptum e percipiendum.

Con sentenza depositata il 10.5.13 la Corte d'appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame della società, riformava la pronuncia di primo grado - che confermava nel resto - solo mediante quantificazione dell'importo complessivo dell’aliunde perceptum da detrarre dal risarcimento accordato ai sensi del cit. art. 18.

Per la cassazione della sentenza ricorre S.D.I. S.r.l. affidandosi a sette motivi.

S. L. resiste con controricorso.

Le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 18 Stat., 4 legge n. 108/90, 112 e 416 c.p.c. per avere la Corte territoriale omesso di pronunciarsi sulla dedotta inapplicabilità della tutela reale, dovendosi fare luogo, nel caso di specie, a quella meramente obbligatoria vista la natura di organizzazione di tendenza della società ricorrente, essendo la testata in questione organo del partito politico Alleanza Nazionale: in proposito - prosegue il ricorso - erroneamente i giudici di secondo grado hanno ritenuto che quella sollevata dalla società fosse un'eccezione in senso proprio tardivamente sollevata, mentre si trattava d'una circostanza rilevabile d’ufficio.

Il motivo è infondato nei termini che seguono, alla luce dei quali si corregge ex art. 384 ult. co. c.p.c. la motivazione della sentenza impugnata.

Se è vero che quella relativa all'applicabilità dell'art. 4 legge n. 108/90 non è qualificabile come eccezione in senso proprio, bensì come mera difesa, nondimeno per il suo accoglimento non basta alla società ricorrente allegare la propria natura di organizzazione di tendenza: essa avrebbe dovuto allegare e provare gli elementi fattuali da cui desumere tale natura.

Infatti, come questa S.C. ha già avuto modo di statuire con indirizzo cui va data continuità anche nella presente sede, ai fini dell’applicabilità della speciale deroga al regime generale della tutela reale, deroga prevista dall’art. 4 della legge n. 108/90 in favore delle organizzazioni di tendenza, non è sufficiente che il datore di lavoro coincida con una delle organizzazioni indicate dalla norma, essendo necessario che allo stesso tempo manchino scopo di lucro e assetto imprenditoriale secondo criteri di economicità.

Ne consegue che il datore di lavoro, il quale invochi siffatta deroga e, dunque, l'inapplicabilità del regime di cui all’art. 18 legge n. 300/70, deve provare non solo di svolgere una delle attività elencate nel predetto art. 4, ma anche di esercitarla senza fini di lucro e non secondo modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale (Cass. n. 22873/10; Cass. n. 7837/05; in senso conforme v. ancora, più di recente, Cass. n. 4983/14 circa la necessità, a fini di applicazione della mera tutela obbligatoria, che l'organizzazione di tendenza non risulti strutturata a guisa di impresa, secondo criteri di economicità).

Ora, nel caso di specie il ricorso non evidenzia quali siano state le allegazioni in tal senso se non quelle evincibili dall'affermazione - riportata nella memoria difensiva di primo grado - che "quella del S.D.I. era ed è una piccola redazione di un giornale politico con un organico di appena 18 redattorisi tratta, all'evidenza, di allegazioni del tutto insufficienti ai fini de quibus e neppure provate; né il ricorso allega di averne invano chiesto in sede di merito la prova con apposito motivo di gravame.

2- Il secondo mezzo prospetta omessa motivazione su un fatto decisivo consistente nell'essere stata comunque rispettata la previa contestazione con lettera del 17.10.05, con conseguente difesa anche in sede sindacale del lavoratore, Il mezzo è infondato.

In realtà a pag. 3 dell'impugnata sentenza risulta che la Corte territoriale ha espressamente esaminato - e motivatamente negato - la dedotta possibilità di qualificare la lettera del 17.10.05 come una sostanziale contestazione disciplinare, sicché non vi è stato alcun omesso esame a riguardo.

3- Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e 3 legge n. 604/66 e omesso esame d'un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, per avere la gravata pronuncia disatteso il concorrente motivo di licenziamento, ravvisabile nell'abituale comportamento del lavoratore che, ove non identificabile come mancanza disciplinare, nondimeno sarebbe stato suscettibile di essere valutato sotto il profilo del giustificato motivo oggettivo di recesso (per incompatibilità ambientale, nel caso di specie), come affermato da Cass. n. 11556/03.

Il motivo va disatteso per difetto di autosufficienza, atteso che il ricorso non trascrive II contenuto dell'appello nella parte in cui avrebbe devoluto alla Corte territoriale - e in che termini - la questione d'una ulteriore causale di licenziamento.

Peraltro, è appena il caso di notare che il riferimento a Cass. n. 11556/03 appare fuorviante, nel senso che tale precedente aveva ad oggetto, in realtà, un'ipotesi di licenziamento per giusta causa a cagione d’una mancanza disciplinare o, in subordine, per giustificato motivo in considerazione dei numerosi precedenti disciplinari del lavoratore.

Nella vicenda in esame, al contrario, la società ricorrente cerca di avvalorare l'esistenza d'un concorrente giustificato motivo oggettivo di licenziamento per asserita incompatibilità ambientale dell'odierno controricorrente, di per sé ontologicamente inconciliabile con i concetti di giustificato motivo soggettivo o giusta causa, che per loro stessa natura si identificano pur sempre (fatta salva l’ipotesi d'una giusta causa riferibile a condotta extra lavorativa, che qui non ricorre) con un inadempimento.

4- Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2118 c.c. nella parte in cui la sentenza impugnata non ha considerato, nel determinare il risarcimento del danno alla luce dell'art. 1227 c.c., il colpevole atteggiamento conflittuale e ostruzionistico del dipendente che era stato alla base del suo licenziamento, contegno pur accertato dal giudice di prime cure.

Il motivo è infondato.

In ordine alla rilevanza, ai fini d'una eventuale applicazione dell'art. 1227 co. 1° c.c., d'un concorso colposo del creditore consistito nel porre in essere condotte lavorative suscettibili di dare luogo a responsabilità disciplinare, basti notare che la sentenza di primo grado non ha affatto accertato una responsabilità disciplinare dell'odierno controricorrente, né avrebbe potuto farlo, giacché un’affermazione del genere sarebbe stata comunque inidonea - in presenza della preliminare illegittimità del licenziamento per violazione dell'art. 7 Stat. - a dare luogo a un giudicato sul punto.

Infatti, in assenza d'un qualche effetto giuridico riconnesso a tale ipotetico concorso colposo dell’odierno controricorrente, un’affermazione del genere avrebbe avuto il valore d'un mero obiter dictum.

Invero, non ogni asserzione contenuta nella motivazione d'una sentenza è suscettibile di integrare autonoma statuizione suscettibile di passare in giudicato se non impugnata (v. art. 329 cpv. c.p.c.), ma soltanto quella caratterizzata dalla sequenza logica "fatto norma - effetto giuridico" attraverso la quale si afferma l'esistenza d'un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico (cfr. Cass. n. 14670/15; Cass. n. 4572/13; Cass. n. 16583/12; Cass. 29.7.2011 n. 16808; Cass. n. 27196/06; Cass. 29.10.98 n. 10832; Cass. 10.7.98 n. 6769).

Ciò posto, in assenza d'un accertamento in tal senso contenuto nella pronuncia di primo grado, la società oggi ricorrente avrebbe dovuto, nel proprio atto d'appello, accompagnare la richiesta di ridurre il risarcimento ex art. 1227 co. 1° c.c. mediante istanza di assunzione della prova (del cui onere era gravata) atta a dimostrare tale concorso colposo del lavoratore, il che non è avvenuto.

Da ultimo, è appena il caso di notare che il precedente di Cass. n. 21538/08 invocato in ricorso non è conferente, perché in esso ci si limita a ribadire l'applicabilità, anche al licenziamento, dell'esonero da responsabilità risarcitoria ove l’inadempimento del datore di lavoro sia derivato da causa a lui non imputabile.

Nel caso in esame la violazione dell'art. 7 Stat. su cui si sono basate le pronunce di merito è, all'evidenza, imputabile solo al datore di lavoro, non essendovi a riguardo neppure l'allegazione di altra diversa causa, certamente non essendo tale la condotta disciplinarmente rilevante addebitata all'odierno controricorrente.

5- Il quinto motivo deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2227 c.c. (rectius: 1227 c.c.) per avere la Corte territoriale disatteso l'eccepita tardività dell'impugnazione giudiziale del licenziamento ad opera dell’odierno controricorrente, tardività che sarebbe stata idonea a determinare quanto meno una riduzione del risarcimento dei danni che il lavoratore avrebbe potuto evitare mediante ordinaria diligenza, ossia agendo tempestivamente in giudizio.

Il motivo è infondato.

Quanto al co. 2° dell'art. 1227 c.c., se è vero che l’obbligo del creditore di cooperazione e di attivazione secondo l'ordinaria diligenza volto ad evitare l’aggravarsi del danno riguarda solo le attività non gravose, né eccezionali, o tali da non comportare notevoli rischi o sacrifici, è però altrettanto indiscutibile che non sono imputabili al lavoratore le conseguenze dannose derivanti dal tempo che abbia impiegato per attivare la tutela giurisdizionale (che si tratti di inerzia endo o preprocessuale) tutte le volte che le norme attribuiscano poteri paritetici al datore di lavoro per la tutela dei propri diritti e la riduzione del danno (giurisprudenza costante: cfr., ex aliis, Cass. n. 4865/16; Cass. n. 9023/12; Cass. n. 7344/10).

E nel caso in esame ben avrebbe potuto anche la società ricorrente adire il giudice, in via di azione di accertamento positivo della legittimità del licenziamento.

A tale principio si è correttamente attenuta la gravata pronuncia.

La giurisprudenza richiamata in ricorso non è conferente, perché relativa alla diversa questione dell'accertamento d'ufficio del concorso di colpa del lavoratore, ove dedotto dal datore di lavoro, consistente nel non essersi attivato con l'ordinaria diligenza nella ricerca di nuova occupazione.

6- Con il sesto motivo ci si duole di omesso esame d'un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti, consistente nell'avere la gravata sentenza trascurato, ai fini dell’aliunde perceptum, il fatto che S. L. poco dopo il licenziamento avesse cominciato l’attività di amministratore unico di una S.r.l. di proprietà della moglie.

Il motivo è infondato.

A pag. 5 della sentenza impugnata si legge che la società non ha provato gli ulteriori redditi oltre a quelli percepiti dall'INPGI, quindi l'esame del fatto decisivo e controverso vi è stato: solo che se ne è esclusa l'avvenuta dimostrazione.

7- Il settimo motivo denuncia che erroneamente la sentenza impugnata non ha considerato come condanna in via generica quella emessa in prime cure, il che avrebbe imposto un nuovo giudizio e non la quantificazione in appello dell'aliunde perceptum.

Anche quest’ultimo motivo va disatteso, non avendovi interesse la società ricorrente.

Infatti, secondo quel che si legge a pag. 4 della sentenza impugnata, la stessa S.D.I. S.r.l. aveva, in appello, chiesto la quantificazione dell'aliunde perceptum, sicché non può - ora - dolersene.

8- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 4.600,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 co. l qua ter d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall'art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma deI co, 1 bis dello stesso articolo 13.