Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 gennaio 2017, n. 1587

Società - Sindaco - Controllo bilancio - Compenso - Tariffa professionale

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 25 novembre 2011- 7 dicembre 2011, la Corte d'appello di Torino, in accoglimento dell'appello proposto dalla s.p.a. A. T. I.V.A. nei confronti di P.N., ha respinto la domanda del P. e condannato questi alle spese dell'intero giudizio.

Il P. aveva ottenuto decreto ingiuntivo nei confronti della società dell'importo di euro 25.735,86, a titolo di compenso per l'attività di controllo sul bilancio consolidato, svolta quale sindaco effettivo nel triennio 2000-2002; proposta opposizione dalla società, il Tribunale aveva revocato il decreto ingiuntivo e condannato la società al pagamento della somma di euro 18.588,77, oltre contributo previdenziale ed Iva, nonché euro 455,04 a titolo di rimborso spese per la liquidazione della parcella, con interessi dall'11/3/2004.

La Corte del merito, per quanto ancora rileva, ha ritenuto fondato il primo motivo di gravame, da cui l'assorbimento delle ulteriori censure, considerato che la misura del compenso era stata fissata dall'assemblea mediante il rinvio al massimo della tariffa professionale previsto per le attività demandate ai sindaci, non prevedendo alcun compenso specifico per l'attività di controllo del bilancio consolidato, già all'epoca rientrante tra i compiti dei sindaci della società controllante e non precipuamente indicata nel d.p.r. 645/94, da ciò conseguendo che con la delibera assembleare del 4/5/2000 erano state considerate tutte le specifiche, varie attività svolte dai sindaci, con riferimento a quanto previsto nella tariffa professionale, ed il comportamento successivo delle parti confermava che questa fosse la volontà espressa dall'assemblea accettata dai sindaci.

Ricorre avverso detta pronuncia il P., con ricorso affidato a tre motivi, il primo articolato sotto quattro profili.

Si difende con controricorso la società.

Il ricorrente ha depositato la memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1.1. - Col primo motivo, il ricorrente si duole della pronuncia impugnata sotto i seguenti quattro profili:

1) per l'insufficienza e contraddittorietà della motivazione in relazione all'interpretazione della volontà delle parti e circa il fatto controverso e decisivo per il giudizio: sostiene che il Giudice del merito ha tenuto conto solo della tesi della società, omettendo di esaminare convenientemente il verbale assembleare del 4/5/00 ed i documenti prodotti dal P., neppure menzionati;

2) per la violazione delle norme di cui alla tariffa professionale dei dottori commercialisti e per vizio motivazionale: il compenso per il controllo e la relazione del bilancio consolidato è stato determinato con apposita circolare dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti per analogia ex art. 16 d.p.r. 645/1994, richiamando i criteri di cui al terzo e quinto comma dell'art. 37 d.p.r. cit., e tale interpretazione deve ritenersi l'autentica volontà del legislatore, che erroneamente la Corte di merito ha ritenuto "non pertinente"; e l'art. 10 della tariffa emessa con il d.m. 169/2010 conferma detta interpretazione, specificando al punto a) che il compenso deve essere adeguato e rapportato alle ore necessarie per la verifica dei rischi inerenti al consolidamento dei dati delle società di gruppo;

3) per l'omessa e/o erronea applicazione delle norme relative all'interpretazione dei contratti: la Corte d'appello avrebbe dovuto interpretare il negozio inter partes secondo buona fede ex art. 1366 c.c., il P., diversamente da quanto ritenuto dal Giudice del merito, non era presente all'assemblea del 4/5/2000 e quando sottoscrisse l'accettazione si ritenne tutelato dalla tariffa professionale; il Giudice del merito ha implicitamente ritenuto che l'art.37 della tariffa professionale prevedesse dei minimi e dei massimi, mentre i parametri contenuti in detto articolo sono solo degli scaglioni di riferimento a componenti positivi di reddito lordi o patrimoniali, non ha quindi indagato quale fosse la comune intenzione delle parti e neppure ha esaminato il senso letterale delle parole del verbale di nomina né ha tenuto conto del comportamento successivo della società, poi modificatosi con la nuova proprietà ed il nuovo Cda; inoltre, è stato violato l'art. 1370 c.c., applicabile nella specie, dovendo ritenersi il verbale assembleare quale documento "predisposto da una delle parti";

4) violazione dell'art.32 Cost., del d.p.r. 645/1994 e dell'art. 2233 c.c., per avere la Corte del merito implicitamente affermato il principio, del tutto illogico, secondo cui il P., revisore professionista, iscritto negli albi dei dottori commercialisti e dei revisori contabili, avrebbe inteso prestare gratuitamente la propria attività in relazione al bilancio consolidato; infine, se fosse fondata l'interpretazione della Corte d'appello, si sarebbe dovuto applicare l'art. 2233, 1° comma, c. c.

1.2.- Col secondo motivo, il ricorrente si duole dell'omessa valutazione delle proprie difese e dei documenti prodotti (verbale assemblea 2000, bilancio consolidato 2002, CTU, mail dott. C., direttore amministrativo A.T.I.V.A.): nel bilancio per l'esercizio del 2002 vennero iscritte maggiori competenze per i sindaci, pari ad euro 87.000, e l'assemblea, con l'approvazione senza riserve, ha ammesso lo stanziamento della maggior somma; il dott. C., a richiesta del sindaco dott. T., inviava il 24/3/2003 il conteggio di tutte le spettanze dei sindaci con la dicitura "conguaglio presenze e relazione al consolidato", e non compariva ivi il compenso per il bilancio consolidato 2002, perché ancora in corso di esecuzione; la volontà della società di riconoscere l'emolumento si riscontra nell'apposito stanziamento in bilancio in aggiunta agli altri emolumenti professionali;

4) col quarto motivo, si duole della violazione degli artt.115 e 116 c.p.c. e della insufficiente motivazione sui documenti fondamentali (lettera P.-A.T.I.V.A.; mail del direttore amministrativo; bilancio 2002).

2.1. - I quattro motivi di ricorso, strettamente collegati, vanno valutati unitariamente e sono da ritenersi in parte inammissibili ed in parte infondati.

E' bene riportare la chiara ratio decidendi della pronuncia impugnata.

La Corte del merito, considerata la deliberazione dell'assemblea del 4/5/2000, di "determinare gli onorari, le indennità ed i rimborsi ai componenti il Collegio Sindacale nella misura massima prevista dal D.P.R. 10 ottobre 1994 n.645, tenuto conto della specificità della varietà e complessità delle questioni che si pongono agli istituti e agli organi sociali", e quindi ritenuto in tal modo determinato il compenso ai sindaci, dagli stessi accettato, ha interpretato la volontà delle parti nel senso della determinazione onnicomprensiva di tutte le specifiche, varie e complesse attività, che i sindaci avrebbero dovuto svolgere, nella misura massima prevista dalla tariffa.

Ciò posto, è di chiara evidenza la non pertinenza del richiamo da parte dei ricorrenti alla circolare del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, come espressiva della volontà del legislatore, visto che la Corte del merito ha ritenuto la determinazione convenzionale del compenso, secondo il primo dei criteri fissati dall'art.2233 c.c.

Il Giudice del merito si è posto quindi la quaestio facti della interpretazione della deliberazione assembleare in oggetto, accettata dai sindaci, ed ha interpretato la volontà delle parti alla stregua del riferimento letterale alle attività specifiche, varie e complesse che i sindaci avrebbero svolgere, ed alla misura massima prevista dal d.p.r. 645/94, da cui la determinazione onnicomprensiva secondo quanto previsto da detta tariffa, trovando conferma di detta interpretazione nel successivo comportamento nel corso del mandato sindacale.

Secondo l'univoca giurisprudenza di questo giudice dì legittimità, l'interpretazione dei contratti e degli atti negoziali in genere, in quanto accertamento della comune volontà delle parti in essi espressasi, costituisce attività propria ed esclusiva del giudice di merito, dovendo il sindacato in proposito riservato al giudice di legittimità limitarsi alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (nonché, secondo la giurisprudenza anteriore alla modifica dell'art. 360 n 5 c.p.c., al controllo della coerenza e logicità della motivazione). Deve pertanto escludersi che il ricorrente in cassazione possa di fatto, sotto le spoglie di una denuncia per violazione di legge (artt. 1362 e seguenti c.c.), chiedere al giudice di legittimità di procedere ad una nuova interpretazione dell'atto negoziale, ovvero cercare di far valere pretesi vizi logici della motivazione che sostiene l'accertamento in fatto operato dal giudice di merito in ordine alla volontà delle parti espressasi nell'atto negoziale. Secondo la concorde giurisprudenza di questo giudice di legittimità, inoltre, qualora deduca la violazione dei citati canoni interpretativi, il ricorrente deve precisare in quale modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, non essendo sufficiente un astratto richiamo ai criteri asseritamente violati e neppure una critica della ricostruzione della volontà dei contraenti che, benché genericamente riferibile alla violazione denunciata, si riduca alla mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza impugnata (v. le pronunce 25728 del 2013 e, tra le altre, 1754 del 2006).

Ciò posto, sì deve escludere la violazione del canone interpretativo di cui all'art. 1366 c.c., che il ricorrente deduce prospettando un elemento del tutto estrinseco alla sentenza e legato, in tesi, ad un atteggiamento soggettivo (il convincimento, all'atto della sottoscrizione dell'accettazione, di essere "tutelato" dalla tariffa professionale), mentre la deduzione della violazione dell'art. 1370 c.c., oltre ad essere nuova e quindi inammissibile, non sarebbe in ogni caso prospettabile, visto che la pattuizione di cui alla delibera assembleare accettata non può equipararsi alle clausole contenute in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti.

Quanto all'addebito, relativo all'implicita errata interpretazione dell'art. 37 della Tariffa, come contenente dei minimi e dei massimi, lo stesso è infondato, atteso che detta norma prevede, all'interno delle fasce del valore di riferimento i minimi ed i massimi.

Anche la dedotta violazione del criterio del comportamento successivo delle parti è infondato, atteso che il ricorrente vorrebbe far valere a riguardo l'appostazione al bilancio 2002 di somma maggiore di quella dell'anno precedente per il compenso ai sindaci (ma anche per gli amministratori), senza che risulti in alcun modo che tale maggiorazione fosse dovuta proprio come compenso per il controllo e la redazione del bilancio consolidato (la parte vorrebbe a proposito far valere l'affermazione del C.T.U. di primo grado, che ATIVA non aveva prospettato una diversa ragione, così richiedendo inammissibilmente a questa Corte un chiaro giudizio di merito).

Nel resto, le doglianze motivazionali vanno respinte, richiamandosi il principio reiteratamente affermato, secondo il quale il vizio di motivazione deducibile con il ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile, anteriore alla modifica di cui al d.l. 83/2012, non può consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte: in quanto sono riservati esclusivamente a quest'ultimo l'individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, potendo egli privilegiare, in via logica, alcuni mezzi di prova e disattenderne altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l'unico limite della adeguata e congrua motivazione del criterio adottato.

Ed è meramente impressionistica la prospettazione secondo la quale, in mancanza del riconoscimento del compenso aggiuntivo per il bilancio consolidato, si finirebbe con pretendere la prestazione gratuita da parte del sindaco, volta che la Corte del merito ha ritenuto la determinazione convenzionale del compenso onnicomprensivo, e quindi anche per detta attività.

3.1. - Conclusivamente, va respinto il ricorso; le spese di lite seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso; condanna il ricorrente alle spese, liquidate in euro 7000,00, oltre euro 200,00 per esborsi; oltre spese forfettarie ed accessori di legge.