Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 novembre 2016, n. 23435

Licenziamento - Reintegrazione - Risarcimento del danno - Retribuzione globale di fatto - Differenze retributive

Svolgimento del processo

 

Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 20 maggio 2010, accertava l'illegittimità del licenziamento intimato da E.C. s.r.l. a S.S. con lettera del 24/1/2007 e, ritenuto che la società dalla quale il lavoratore formalmente dipendeva e A. Telecomunicazioni s.r.l. costituissero un unico soggetto giuridico, ordinava alle due società in solido tra loro la reintegrazione del S. del posto di lavoro. Rilevato che il lavoratore, nonostante l'invito espresso dalla società con lettera del 5/6/2007 a riprendere servizio, non vi aveva provveduto, limitava il risarcimento dei danni alla misura minima di cinque mensilità di retribuzione. Riteneva poi che l'istruttoria non avesse dimostrato i presupposti per il riconoscimento del diritto alle rivendicate differenze retributive, né la condotta datoriale vessatoria e ritorsiva posta dal lavoratore a sostegno della domanda di risarcimento dei danni.

All'esito dell'appello principale proposto dal S. e di quello incidentale proposto dalle società inizialmente convenute, la Corte d'appello di Palermo con la sentenza n. 2136 del 2013 riconosceva il risarcimento del danno conseguente all'illegittimo licenziamento nella misura pari alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento sino al pagamento dell'indennità sostitutiva della reintegra, per la quale il S. aveva optato, confermando nel resto l'impugnata sentenza.

La Corte territoriale argomentava che la missiva di E.C. del 5/6/2007, pur dichiarando privo di effetti il precedente licenziamento, nulla specificava circa il ristoro economico che avrebbe fatto seguito all'illegittimo atto di recesso, sicché non ricorreva l'ipotesi di revoca del licenziamento idonea ad escludere il diritto al riconoscimento integrale del risarcimento. Aggiungeva che la ricostruzione istruttoria effettuata dal Tribunale a sostegno del rigetto delle ulteriori domande meritava conferma, anche alla luce delle sopravvenienze processuali concernenti il teste B., che aveva riportato condanna per il delitto di falsa testimonianza, e della scarsa attendibilità degli ulteriori testi indicati dal lavoratore (dei quali l'uno risultava avere avuto un contenzioso con la società e l'altro era cognato della parte), nonché dell'irrisolto contrasto delle loro deposizioni con quelle degli altri testimoni addotti dalle resistenti.

Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso principale E.C. s.r.l., A. s.r.l. in liquidazione, nonché E.C. e A.C., quali unici soci della A. Telecomunicazioni s.r.l. in liquidazione, formulando due motivi illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c. S.S. ha resistito con controricorso ed ha proposto altresì ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.

 

Motivi della decisione

 

1. Preliminarmente, il ricorso principale e quello incidentale avverso la medesima sentenza sono stati riuniti ex art. 335 c.p.c.

2. I motivi del ricorso principale possono essere così riassunti:

2.1. Con il primo, le società deducono violazione e falsa applicazione delle disposizioni in materia di interpretazione dei negozi giuridici (artt. 1324 e 1362 ss. c.c.) e contestano la motivazione della Corte d'appello laddove ha ritenuto che la missiva del 5 luglio 2007 non costituisse una revoca del licenziamento e non fosse pertanto idonea al ripristino del rapporto. Riferiscono che tale missiva recitava testualmente: "deve intendersi come mai irrogato il licenziamento disciplinare. Ella è invitato a riprendere servizio presso la sede sociale". Riferiscono che la dichiarazione manifestava l'intento di considerare il rapporto di lavoro come mai risolto e che pertanto essa costituiva una revoca a tutti gli effetti di legge. Aggiungono che S. neppure aveva diritto al pagamento dell'indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, in quanto la revoca era intervenuta prima ancora che egli depositasse presso il Tribunale di Palermo il ricorso per l'impugnativa del licenziamento.

2.2. Come secondo motivo, deducono violazione o falsa applicazione dell'articolo 1272 c.c. e dell'articolo 18 della L.n. 300 del 1970 ed addebitano alla Corte d'appello di avere violato le norme in materia di lavorativa, come a lui richiesto con la missiva del 5/6/2007, sicché il danno da lui subito era da imputarsi ad inadempimento addebitabile al medesimo.

2.4. Come quarto motivo, deducono violazione o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c. e dell'articolo 18 della L. n. 300 del 1970 e sostengono che il rifiuto del S. di riprendere servizio era contrario a buona fede, sicché non poteva essergli riconosciuto alcun risarcimento ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1227 secondo comma c.c., avendo egli stesso concorso a causare il danno.

2.5. Come quinto motivo, le società deducono la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112, 115 e 183 c.p.c., omessa pronuncia sulle istanze istruttorie dirette a dimostrare l'aliunde perceptum, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. Ricordano che sin dal primo grado di giudizio E.C. aveva eccepito l'aliunde perceptum, depositando una memoria nella quale si esponeva che S. aveva trovato altro lavoro; aveva depositato altresì la relazione di un investigatore privato con la relativa documentazione fotografica e chiesto l'ammissione di prova per testi e di interrogatorio formale. Tale eccezione era stata reiterata in appello, unitamente alle istanze istruttorie. E.C. aveva articolato pure richiesta di informazioni all'Inps. Ingiustificatamente quindi la Corte d'appello aveva ritenuto che l'eccezione non avesse trovato alcun riscontro di carattere documentale.

3. Il primo motivo di ricorso non è fondato.

Questa Corte - con riguardo alla normativa anteriore alla L. n. 92 del 2012, che con I'art. 1, comma 42, lett. b) ultimo comma, ha tra l'altro modificato il regime della revoca del licenziamento - ha in più occasioni ribadito che a seguito del licenziamento, il rapporto di lavoro si risolve; e, poiché come per la costituzione, anche per la ricostituzione del rapporto è necessario il consenso del lavoratore, la revoca dell'atto non può avere, di per sé, l'effetto di ricostituire il rapporto stesso. D'altro canto, nell'ambito della predetta obbligazione con facoltà alternativa (a favore del lavoratore), la scelta (fra reintegrazione od indennità sostitutiva) non potrebbe essere esercitata dal debitore della prestazione. Da ciò la giurisprudenza deduce che la revoca del licenziamento non determina l'estinzione dell'obbligazione in esame; la facoltà di chiedere l'indennità sostituiva può essere pertanto esercitata anche ove il licenziamento sia stato revocato dal datore, purché alla revoca non sia seguito il ripristino del rapporto (Cass. sez. lav., 13.6.2002 n. 8493; Cass. sez. lav., 12.6.2000 n. 8015; Cass. sez. lav., 5.12.1997 n. 12366, n. 36 del 03/01/2011, n. 8493 del 2002).

4. Il secondo motivo è invece fondato, nel senso che si va ad illustrare.

Le Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 18353 del 27/08/2014, a composizione di un precedente contrasto, hanno chiarito che in caso di licenziamento illegittimo, ove il lavoratore, nel regime della cosiddetta tutela reale (nella specie, quello, applicabile "ratione temporis", previsto dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo anteriore alle modifiche introdotte con la legge 28 giugno 2012, n. 92), opti per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, avvalendosi della facoltà prevista dall'art. 18, quinto comma, cit., il rapporto di lavoro, con la comunicazione al datore di lavoro di tale scelta, si estingue senza che debba intervenire il pagamento dell'indennità stessa e senza che permanga - per il periodo successivo in cui la prestazione lavorativa non è dovuta dal lavoratore né può essere pretesa dal datore di lavoro - alcun obbligo retributivo. Ne consegue che l'obbligo avente ad oggetto il pagamento della suddetta indennità è soggetto alla disciplina della "mora debendi" in caso di inadempimento, o ritardo nell'adempimento, delle obbligazioni pecuniarie del datore di lavoro, con applicazione dell'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., salva la prova, di cui è onerato il lavoratore, di un danno ulteriore. La giurisprudenza successiva si è adeguata a tale soluzione interpretativa (conf. n. 9765 del 13/05/2015, ord., n. 20317 del 09/10/2015).

La Corte territoriale avrebbe quindi dovuto valorizzare l'opzione formulata dal lavoratore nella suddetta nota del 11/6/2007, traendone le conseguenze sopra indicate al fine di determinare l'ammontare dell'indennità risarcitoria.

5. Il terzo e quarto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, non sono fondati.

L'opzione per l'indennità sostitutiva è stata esercitata dal S. in data 11.6.2007, mentre il licenziamento è stato intimato in data 24.1.2007. Il risarcimento quindi nel caso è contenuto nell'importo minimo di cinque mensilità di retribuzione, il quale, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (v. da ultimo Cass. n. 22050 del 17/10/2014 e precedenti ivi citati), rappresenta una parte irriducibile dell'obbligazione risarcitoria complessiva conseguente all'illegittimo licenziamento (nel regime operante ratione temporis). Detto importo minimo è dovuto quindi anche ove la reintegra, o l'esercizio dell'opzione, intervengano a meno di cinque mesi dal licenziamento invalido; la predeterminazione di un risarcimento minimo, spettante in ogni caso di licenziamento invalido od inefficace, costituisce espressione del legittimo esercizio di discrezionalità politica da parte del legislatore (v. Corte Cost. n. 178 del 1975) e determina che non possa incidere in senso riduttivo neppure un eventuale concorso colposo del lavoratore nella produzione del danno, danno che trova la sua fonte nell'illegittimità del licenziamento.

6. A sostegno del ricorso incidentale, S.S. deduce vizio di motivazione della sentenza per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove decisive e dei documenti allegati e rilevanti, nonché di prove chieste (anche in merito al confronto tra testi ed all’acquisizione di documenti rilevanti). Addebita alla Corte d'appello di avere basato il proprio giudizio di rigetto della domanda avente ad oggetto le retribuzioni non corrisposte ed il risarcimento del danno ex art. 2087 c.c. da atteggiamento vessatorio nel luogo di lavoro, sulla mera in attendibilità dei testi del ricorrente. Riferisce il contenuto delle deposizioni degli stessi e sostiene che il giudice di merito avrebbe dovuto valorizzarle ai fini della decisione, anche in considerazione della non decisività delle risultanze contrarie. Aggiunge che la Corte d'appello aveva errato nel non voler acquisire le note di lavorazione degli apparecchi dei tecnici riparatori, al fine di acclarare l'orario di cessazione dell'attività, come richiesto in sede d'appello.

7. La censura si traduce all'evidenza nella richiesta di riesame dell'intero materiale probatorio, che è stato già valutato dalla Corte di merito nella motivazione, e della sua sufficienza ai fini della decisione.

Il ricorso risulta di conseguenza inammissibile, specie considerato che al presente giudizio si applica ratione temporis la formulazione dell'art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introdotta dall'art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che ha ridotto al "minimo costituzionale" il sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso chiarito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 2014, secondo il quale la lacunosità e la contraddittorietà della motivazione possono essere censurate solo quando il vizio sia talmente grave da ridondare in una sostanziale omissione, né può fondare il motivo in questione l'omesso esame di una risultanza probatoria, quando essa attenga ad una circostanza che è stata comunque valutata dal giudice del merito.

8.  Segue la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto ed il rinvio, anche per le spese, alla Corte d'appello di Palermo in diversa composizione.

9. L'inammissibilità del ricorso incidentale determina la sussistenza dei presupposti previsti dal primo periodo dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dal comma 17 dell'art. 1 della Legge 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato dovuto per il ricorso stesso.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo del ricorso principale, assorbito il quinto, e rigetta gli altri motivi; dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Palermo in diversa composizione.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.