Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 giugno 2017, n. 14453

Licenziamento per giusta causa - Illegittimità - Obbligo di recarsi sul posto di lavoro con il veicolo aziendale - Utilizzo di mezzo proprio - Allontanamenti dal luogo di lavoro - Numerosi precedenti disciplinari - Circostanze confermative della significatività di altri addebiti

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 5841/2015, depositata il 7 luglio 2015, la Corte di appello di Napoli respingeva il reclamo proposto da A.C. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli che aveva confermato il rigetto del ricorso per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento allo stesso intimato per giusta causa da A.S.I.A. Napoli - Azienda Servizi Igiene Ambientale S.p.A. per avere il ricorrente, in data 10/5/2014, assegnato al servizio di spazzamento in una zona della città, con turno 6.30-12.30, fatto uso della propria vettura per recarsi sul luogo di lavoro, benché più volte reso edotto dell'esistenza di un divieto assoluto in tal senso, ed inoltre per essere risultato assente dalle ore 7.45 alle ore 8.15 e dalle ore 10.30 sino a fine turno.

1.1. La Corte riteneva, in primo luogo, compiutamente accertate entrambe le condotte oggetto di contestazione, sottolineandone la natura di grave inadempimento rispetto agli obblighi di diligenza e cooperazione incombenti sul prestatore di lavoro.

1.2. La Corte riteneva altresì proporzionata la sanzione inflitta, attesa, in particolare, l'intenzionalità degli allontanamenti, agevolati dall'utilizzo della vettura di proprietà, la necessità che il datore di lavoro possa fare affidamento sulla effettiva presenza del dipendente nella zona assegnatagli e l'esistenza di numerosi precedenti disciplinari, idonei, se pure non costituenti recidiva in senso tecnico, a caratterizzare la gravità della condotta.

2. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il C. con cinque motivi; la società ha resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, deducendo omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello, omettendo di esaminare lo specifico motivo di gravame sul punto, proceduto, a sua volta, come già il giudice di primo grado, a introdurre nella propria motivazione elementi tali da integrare violazioni non contestate né dedotte.

Con il secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all'art. 112 c.p.c.), il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere violato il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, in particolare introducendo un nuovo elemento della condotta (la "preordinata volontarietà di non rimanere presente nella zona assegnata per tutta la durata del turno") che non aveva formato oggetto di contestazione e che era estraneo all'oggetto della controversia.

Con il terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione di norma di diritto, il ricorrente censura nuovamente la sentenza per avere introdotto e fondato la propria decisione su questioni di fatto non sollevate dalle parti e comunque irrilevanti ai fini della legittimità del licenziamento e per avere ritenuto lecito, siccome espressione del potere di organizzazione del datore di lavoro, imporre al prestatore l'obbligo di recarsi sul posto di lavoro con il veicolo aziendale e non con un'auto propria.

Con il quarto motivo il ricorrente deduce contraddittoria valutazione delle prove ed omessa motivazione con riguardo all'ora del secondo allontanamento dal luogo di lavoro.

Con il quinto motivo, infine, deducendo violazione e falsa applicazione di norma di legge, il ricorrente censura la sentenza per avere la Corte di appello, nel giudizio di proporzionalità della sanzione inflitta, tenuto conto dei precedenti disciplinari a carico del lavoratore, sebbene non oggetto di riferimento nella contestazione disciplinare e anteriori di oltre un biennio alla condotta addebitata.

2. Il ricorso deve essere respinto.

3. Il primo e il quarto motivo, con i quali il ricorrente deduce il vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c., risultano inammissibili.

Essi, infatti, non si conformano al modello del nuovo vizio "motivazionale", quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella I. 7 agosto 2012, n. 134, pur a fronte di sentenza depositata il 7 luglio 2015, e, pertanto, in epoca successiva all'entrata in vigore (11 settembre 2012) della novella legislativa.

Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l'art. 360 n. 5 c.p.c., come riformulato a seguito dei recenti interventi, "introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)"; con la conseguenza che "nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie".

4. Risultano altresì inammissibili il secondo e il terzo motivo.

4.1. Quanto al secondo, si deve, in primo luogo, rilevare che la violazione dell'art. 112 c.p.c. può essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 4), dello stesso codice; ne consegue che "è inammissibile il motivo di ricorso con il quale siffatta censura sia proposta sotto il profilo della violazione di norme di diritto (riconducibile al n. 3 del citato art. 360) ovvero come vizio della motivazione, incasellabile nel n. 5) dello stesso art. 360" (cfr., fra le altre, Cass. n. 1196/2007). D'altra parte, la violazione della regola di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato è correlata al principio della domanda, di cui rappresenta lo sviluppo nella dinamica del processo, disciplinando il contenuto del potere/dovere del giudice che sorge quale conseguenza della concreta proposizione di essa; mentre nella specie il ricorrente si duole, in sostanza, della ricostruzione fattuale operata nella sentenza con riferimento all'oggetto della contestazione disciplinare.

4.2. Quanto al terzo, ne è palese l'inammissibilità, poiché il motivo in esame, pur denunciando la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c.), omette di indicare le norme che il ricorrente assume violate dal giudice di appello; né l'esposizione successiva, che ripropone in sostanza anch'essa censure di merito, consente comunque di individuare tali norme e di delimitare le questioni su cui la Corte è chiamata a pronunciarsi (cfr., fra le molte, Cass. n. 15263/2007).

5. Il quinto motivo è infondato.

La Corte si è, infatti, uniformata al consolidato e risalente principio, per il quale "in tema di licenziamento disciplinare il principio di cui all'art. 7, ultimo comma, della legge n. 300 del 1970, secondo il quale non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione, non vieta di considerare fatti non contestati, e collocantisi a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell'imprenditore" (Cass. n. 6523/1996 e successive numerose conformi).

6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.