Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 21 giugno 2017, n. 15382

Lavoro - Direttore amministrativo - Compenso - Gratuità dell'incarico - Clausola dello statuto della società

 

Fatti di causa

 

Con sentenza n. 7242/2011, depositata il 16 novembre 2011, la Corte di appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Rieti che aveva respinto il ricorso di V.C. volto ad ottenere il pagamento di quanto dovutogli per lo svolgimento, nel periodo dal 25/10/1995 al 9/2/1996, dell'attività di direttore amministrativo della società C. (Costruzioni Generali e Ferroviarie) S.r.l. ed inoltre volto ad ottenere il pagamento del compenso per l'incarico di amministratore unico svolto per la medesima società nel periodo dal 10/2/1996 al 10/8/2000.

La Corte rilevava che il diritto dell'amministratore al compenso è disponibile e può anche essere derogato da una clausola dello statuto della società che stabilisca la gratuità dell'incarico, come nella specie; né poteva rilevare in senso diverso il verbale dell'assemblea del 10/8/2000, con l'indicazione all'o.d.g. della "quantificazione degli emolumenti ancora dovuti all'amministratore uscente e le modalità di pagamento degli stessi", o il contenuto delle lettere inviate dal legale della società in risposta alle sollecitazioni dell'appellante, o, ancora, l'effettiva erogazione di importi, a titolo di compenso, limitatamente ad alcuni anni.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il C., con tre motivi, assistiti da memoria; la società ha resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 1372 c.c. e omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che la previsione statutaria della gratuità escludesse il diritto al compenso ex art. 2389 c.c., senza peraltro avere accertato la qualità di socio in capo al soggetto con funzioni di gestione: ove, infatti, tale qualità fosse risultata esistente, l'amministratore sarebbe stato contrattualmente vincolato dalle clausole dell'atto costitutivo e dello statuto sociale (anche dalle clausole che avessero disposto dei diritti dell'amministratore stesso, come quello al compenso), diversamente dovendo la Corte territoriale ritenere sussistente il diritto ex lege.

Con il secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 434, 416, 115 c.p.c.e 2697 c.c., nonché delle norme e dei principi in tema di specificità dei motivi di appello e di non contestazione, oltre a omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte di merito posto a fondamento della propria decisione la clausola statutaria di gratuità dell'incarico di amministratore pur in difetto di produzione dello statuto e sull'erroneo rilievo della mancata contestazione di quella parte della sentenza di primo grado, in cui il Tribunale aveva affermato che "la società aveva stabilito che la prestazione dell'amministratore fosse gratuita", quando, invece, l'atto di appello si era confrontato con la questione dell'onerosità dell'incarico, anche se non facendo la sentenza del primo giudice oggetto di un'analitica (e peraltro neppure necessaria) contestazione, e l'aveva positivamente risolta attraverso il richiamo al verbale di assemblea in data 10/8/2000, a talune lettere del legale della società e al fatto che una parte, sia pure insufficiente, dei compensi era stata corrisposta.

Con il terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. e omessa motivazione su un fatto decisivo, il ricorrente censura la sentenza, sotto un primo profilo, per avere ritenuto, in violazione del criterio ermeneutico del senso letterale delle parole adoperate, che la clausola statutaria, come trascritta, si riferisse all'amministratore unico (anziché ad una pluralità di amministratori); sotto altro profilo, per non avere ricercato la comune volontà delle parti mediante la valutazione del loro comportamento successivo, quale risultante dalle circostanze già indicate nel secondo motivo di ricorso.

Il primo motivo è infondato.

Al riguardo, si deve innanzitutto rilevare che la questione della titolarità, in capo al ricorrente, della qualità di socio costituisce questione nuova, non risultando dedotta nei gradi di merito, e, pertanto, inammissibile nella presente sede di legittimità. Essa, d'altra parte, non è conferente rispetto alla decisione impugnata.

Come già precisato da questa Corte con pronuncia risalente ma a cui si ritiene di dare continuità, "l’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l'attività svolta in esecuzione dell'incarico affidatogli. Tale diritto, peraltro, è disponibile, e può anche essere derogato da una clausola dello statuto della società, che condizioni lo stesso al conseguimento di utili, ovvero sancisca la gratuità dell'incarico" (Cass. n. 243/1976, già richiamata nella sentenza di appello).

Ne consegue che, formando il compenso ex art. 2389 c.c. oggetto di un diritto avente natura disponibile, resta indifferente la circostanza che l'amministratore non rivesta la qualità di socio.

Non potrebbe, in ogni caso, riconoscersi all'amministratore un diritto ex lege al compenso, come sembrerebbe indicare il ricorrente nello sviluppo del motivo in esame, atteso che l'amministratore, che è organo al quale sono affidati poteri di gestione della società, è legato a questa da un rapporto di tipo societario che si caratterizza essenzialmente per l'immedesimazione organica, così da escludere la sussistenza (anche) di un rapporto contrattuale: rapporto che, ove per ipotesi ricostruibile come di prestazione d'opera in regime di c.d. parasubordinazione ex art. 409 n. 3 c.p.c. (contra peraltro la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 1545 del 2017), non darebbe comunque luogo all'applicazione dell'art. 36 Cost., relativo al diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, la cui portata applicativa è limitata al lavoro subordinato; e che, ove ricostruibile, ancora per ipotesi, come di lavoro professionale autonomo, non attribuirebbe, anche in questo caso, un diritto al compenso, l'onerosità non costituendo requisito indispensabile dell'attività prestata in tale forma, rispetto alla quale, per comune opinione, è perfettamente configurabile la gratuità (Cass. n. 2769/2014).

Il secondo e il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente, sono inammissibili per difetto di specificità.

Ed invero, a fronte del rilievo della Corte, per il quale, in sede di gravame, non era stato contestato dall'appellante l'accertamento del primo giudice in ordine al fatto che la società aveva stabilito che la prestazione dell'amministratore fosse gratuita, il ricorrente non ha riprodotto il ricorso in appello o comunque le parti di tale atto recanti i passi significativi necessari al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo del relativo contenuto e, in particolare, del rapporto di specificità delle doglianze formulate rispetto alla decisione di prime cure. Come, a fronte dell'ampio e articolato accertamento, compiuto dalla Corte di merito, sia sulla portata dell'art. 20 dello Statuto della società (nel senso della previsione di gratuità dell'incarico anche per il caso di amministratore unico), sia sulla irrilevanza di comportamenti successivi, ai fini della configurabilità di una comune volontà delle parti di segno univocamente contrario al tenore letterale della clausola, il ricorrente non ha trascritto o riprodotto il testo della disposizione statutaria, né dei documenti (verbale di assemblea e lettere del legale della società) da cui eventualmente trarre conclusioni diverse da quelle fatte proprie dalla Corte di merito, dovendosi ribadire il principio, per il quale il ricorso per cassazione, in virtù del principio di c.d. "autosufficienza", deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede l'annullamento della sentenza di merito ed altresì a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza necessità di fare rinvio e di accedere a fonti estranee allo stesso ricorso e, quindi, a elementi od atti pertinenti al pregresso giudizio di merito (cfr. fra le molte Cass. n. 14728/2001).

Il ricorso deve conclusivamente essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.