Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 giugno 2017, n. 14321

Rapporto di lavoro - Dimissioni - Minaccia di licenziamento per giusta causa - Insussistenza dell’inadempienza addebitabile al lavoratore

 

Fatti di causa

 

1. Con la sentenza n. 225/2013 la Corte di appello di Ancona ha confermato la pronuncia emessa in data 24.5.2012 dal Tribunale di Ancona con la quale erano state respinte le domande di annullamento per violenza o dolo delle dimissioni con incentivo, sottoscritte il 2.10.2009 da A.F., responsabile del reparto uomo della Z.I. srl presso il punto vendita di Ancona, sul presupposto che il consenso fosse stato estorto.

2. La originaria pretesa era fondata sull'assunto che, dopo l'applicazione di due sanzioni conservative, convocato d'urgenza presso la sede centrale di Milano, alla presenza di quattro dirigenti, il F. sarebbe stato minacciato di licenziamento qualora non si fosse dimesso immediatamente, accettando lo scioglimento del rapporto a fronte di un incentivo di euro 10.000,00.

3. A sostegno della decisione i giudici di seconde cure hanno evidenziato che: 1) il F. non aveva contestato né gli inadempimenti, sanzionati in precedenza, né quelli più recenti, oggetto di lettere predisposte e mostrate durante la riunione, sebbene ritenesse che non integrassero alcuna delle previsioni contrattuali collettive relative alle infrazioni sanzionabili con il licenziamento; 2) tali condotte, stante la non trascurabile rilevanza del ruolo svolto dal dipendente e anche in considerazione della loro reiterazione e della protrazione di un atteggiamento negligente ed indifferente, erano tali da giustificare il licenziamento per giusta causa di talché non era ravvisabile alcuna violenza morale né rivestiva importanza la versione diversa fornita dal datore di lavoro circa lo svolgimento della riunione ovvero in ordine ad altre circostanze che riguardavano il dipendente ed il di lui padre; 3) esclusa la falsa rappresentazione della realtà in ordine alla sussistenza dei presupposti per il licenziamento, non poteva darsi rilevanza neanche alla pretesa violazione degli obblighi di buona fede e correttezza; 4) non era condivisibile la tesi dell'appellante secondo cui le dimissioni si inserivano in un più ampio contesto negoziale implicante rinunzia a diritti indisponibili del lavoratore, come per esempio al posto di lavoro, al preavviso, alla difesa nel procedimento disciplinare, a far valere ogni suo credito e, in ogni caso, prima di porsi la questione della indisponibilità di tali diritti, andava considerato che il rapporto di lavoro non è oggetto di rinuncia ma di risoluzione consensuale; 5) non rilevavano i richiami giurisprudenziali dell'appellante alle pronunce di legittimità in materia di incapacità naturale posto che tale situazione non era stata dedotta così come la domanda di annullamento ex art. 428 cc.

4. Per la cassazione propone ricorso A.F. affidato a nove motivi.

5. Resiste con controricorso Z.I. srl.

6. Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 cpc.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 cpc e conseguente violazione e/o falsa applicazione dell'art. 225 CCNL, sottoscritto da Confcommercio, Filcams CGIL, Fisascat Cisl, e Uiltucs Uil, nonché la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 7 della legge n. 300/1970. Sostiene che la Corte territoriale non si era pronunciata sulla riconducibilità o meno delle condotte contestate al lavoratore all'interno delle previsioni contrattuali, in cui l'art. 225 del CCNL citato prevedeva la sanzione del licenziamento disciplinare unicamente per mancanze tassativamente indicate: tipizzazione vincolante alla luce della legge n. 183/2010 e della legge n. 92/2012 cosicché era erronea l'argomentazione secondo cui a nulla avrebbero rilevato le previsioni del CCNL ai fini della legittimità o meno del licenziamento.

2. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 1434, 1435 e 1439 cc, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto che il licenziamento minacciato, in quanto astrattamente irrogabile, non potesse essere qualificato come "male ingiusto" e per avere escluso la configurabilità del dolo sul presupposto che il richiamo alle previsioni contrattuali non avrebbe eliminato l'incidenza di condotte sul rapporto di fiducia tra le parti che si sarebbe incrinato tanto da non consentire la protrazione dello svolgimento del rapporto e, quindi, giustificare il licenziamento per giusta causa.

3. Con il terzo motivo il ricorrente eccepisce la violazione e falsa applicazione dell'art. 5 legge n. 604/1966 e dell'art. 112 cpc per avere la Corte distrettuale erroneamente ritenuto che l'onere della prova sulla sussistenza della giusta causa non spettasse al datore di lavoro e per non avere considerato che la società aveva sempre contestato la circostanza della minaccia di immediato licenziamento.

4. Con il quarto motivo il F. si duole della violazione e/o falsa applicazione dell'art. 112 cpc con riferimento al vizio ex art. 1438 cc per non essersi la Corte territoriale pronunciata sulla configurabilità o meno, nel caso di specie, della minaccia di far valere un diritto per ottenere vantaggi ingiusti ex art. 1438 cc.

5. Con il quinto motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2113 cc per non avere ritenuto i giudici di seconde cure applicabile nel caso in esame tale norma nonostante il lavoratore avesse posto in essere la rinuncia al posto di lavoro e ad altri diritti posti da norme inderogabili, ed avesse, poi, impugnato l'atto di dimissioni (risoluzione consensuale entro il termine di sei mesi): ciò sull'erroneo presupposto che i <diritti oggetto di rinunzia o transazione debbano essere indisponibili nonostante l'art. 2113 cc parli invece di "diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi">.

6. Con il sesto motivo si contesta la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 cpc, con riferimento agli artt. 1175 e 1375 cc per non essersi la Corte territoriale pronunciata sulla violazione, da parte della società, dei principi di correttezza e buona fede al rispetto dei quali le parti sono obbligate all'osservanza anche nella fase di esecuzione del contratto.

7. Con il settimo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 cpc per omessa pronuncia, da parte dei giudici di appello sulla inattendibilità dei testi e sulla utilizzabilità della prova presuntiva.

8. Con l'ottavo motivo si censura l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dall'estorsione delle dimissioni e dalla risoluzione consensuale per violenza mediante minaccia di far valere un diritto.

9. Con il nono motivo, sotto altro profilo rispetto al settimo, il ricorrente si duole dell'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione, rappresentato sempre dalla non attendibilità dei testimoni e dalla inutilizzabilità della prova presuntiva.

10. Il primo motivo è infondato.

11. Si intende dare continuità al principio, affermato da questa Corte (Cass. 12.2.2016 n. 2830; Cass. 7.5.2015 n. 9223), secondo cui l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

12. In tema di licenziamento, infatti, la nozione di giusta causa è nozione legale ed il giudice non è vincolato alle previsioni integranti giusta causa contenente nei contratti collettivi; tuttavia ciò non esclude che ben possa il giudice fare riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità (Cass. 14.2.2005 n. 2906).

13. L'unico limite è costituito dal fatto che il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (Cass. 29.9.2005 n. 19053): ipotesi che, però, non è stata dedotta dal ricorrente.

14. Orbene, nella fattispecie in esame, la Corte distrettuale si è attenuta ai principi sopra esposti e, con apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità perché congruamente motivato, ha ritenuto che gli inadempimenti non contestati, sia oggetto dei richiami verbali, che oggetto delle lettere predisposte e mostrate durante la riunione, fossero tali da non consentire la protrazione del rapporto di lavoro, anche in considerazione della non trascurabile rilevanza del ruolo di responsabile di reparto rivestito dal F. e, ciò, a prescindere dalle previsioni di cui all'art. 225 CCNL.

15. Il secondo, terzo, quarto e sesto motivo, che per la loro sovrapponibilità e connessione logico-giuridica, possono essere esaminati congiuntamente, sono anche essi infondati.

16. E' opportuno ricordare che: a) in tema di annullamento di dimissioni del lavoratore, la minaccia del licenziamento per giusta causa si configura come prospettazione di un male ingiusto di per sé, invece che come minaccia a far valere un diritto, ove si accerti l'inesistenza del diritto del datore di lavoro al licenziamento, per l'insussistenza della inadempienza addebitabile al dipendente (cfr. tra le altre Cass. 28.11.1998 n. 12127); b) non sono invalide le dimissioni rassegnate dal lavoratore per evitare un licenziamento giusto e soltanto se la minaccia del licenziamento è ingiusta le dimissioni possono essere annullate per vizio della volontà, ma in tal caso l'onere di fornire la prova dell'invalidità delle stesse è, in applicazione dei principi generali, a carico del lavoratore che propone l'azione di annullamento e non dell'azienda (cfr. Cass. 25.5.2012 n. 8298); c) le dimissioni, pur consistendo in un atto unilaterale, sono annullabili per vizio della volontà qualora siano eterodeterminate dal comportamento di parte datoriale che ingeneri nel prestatore una rappresentazione alterata della realtà (cfr. in termine, relativamente al rapporto di agenzia, Cass. 23.1.2012 n. 874; Cass. 18.8.2004 n. 16179).

17. La Corte territoriale, adeguandosi a tali orientamenti, accertata -come detto- la sussistenza di ragioni giustificative di un eventuale recesso per giusta causa, in ossequio alle regole sull'onere della prova in materia, ha escluso sia l'esistenza di vizi del consenso, tali da determinare una falsa rappresentazione della realtà, sia conseguentemente una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede da parte del datore di lavoro: il tutto con motivazione congrua e giuridicamente corretta, ove sono stati presi in considerazione e valutati gli aspetti denunciati nelle censure mosse alla gravata sentenza.

18. Il quinto motivo presenta, invece, profili di inammissibilità e di infondatezza.

19. E' inammissibile perché, non essendo stato riportato il testo della lettera di dimissioni, è precluso a questa Corte l'esame del contenuto alla luce delle peculiari e particolari censure denunciate.

20. E' infondato perché, come statuito più volte in sede di legittimità (Cass. 26.2.2007 n. 4391; Cass. 12.5.2004 n. 9046) le dimissioni del lavoratore costituiscono un atto unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto nel momento in cui pervengono a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo e, in quanto riferibili ad un diritto disponibile del lavoratore sono sottratte alla disciplina dell'art. 2113 cc (Cass. 21.8.2003 n. 12301; Cass. 8.1.2009 n. 171; Cass. 13.8.2008 n.18285) a meno che non siano contenute in un contesto negoziale complesso in cui la clausola delle dimissioni sia strettamente interdipendente ai diritti inderogabili transatti noti e specificati (in termini Cass. 21.8.2003 n. 12301).

21. Nel caso in esame, invece, la Corte distrettuale, con accertamento in fatto insindacabile in questa sede (anche perché, come sopra specificato, non 'è stato riportato il testo della lettera di dimissioni), ha escluso, in sostanza, la sussistenza di un più ampio contesto negoziale, avvalorando, quindi, la autonomia della clausola delle dimissioni e, conseguentemente, l'inapplicabilità dell'art. 2113 CC.

22. Il settimo, ottavo e nono motivo, da trattarsi congiuntamente per il legame che li avvolge, sono inammissibili in quanto la consistenza delle doglianze si sostanzia non già in un'omessa pronuncia su domande ed eccezioni (integrante violazione dell'art. 112 cpc da fare valere in relazione all'art. 360 n. 4 cpc) ovvero in una omissione di fatti storici decisivi, bensì in una contestazione della valutazione probatoria e dell'accertamento in fatto della Corte territoriale non più ammissibile soprattutto ai sensi del novellato art. 360 primo comma n. 5 cpc, applicabile ratione temporis in considerazione della data di pubblicazione dell'impugnata sentenza, che consente un sindacato sulla ricostruzione del fatto nei limiti in cui la motivazione manchi del tutto ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su espressioni ed argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. 9.6.2014 n. 12928).

23. I giudici di secondo grado hanno, invece, sul punto ritenuto assorbente la circostanza della non contestazione degli inadempimenti da parte dell'odierno ricorrente e la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, di talché i vizi denunciati (sulla inattendibilità dei testi e sulla utilizzabilità della prova presuntiva) non rilevano per mancanza di decisività.

24. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

25. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.