Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 23 maggio 2019, n. 14064

Licenziamento - Lavoratore sorpreso a dormire durante il turno di lavoro notturno - CCNL - Sanzione conservativa - Valutazione della gravità della condotta

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Trieste, confermando la pronuncia del Tribunale di Gorizia in sede di opposizione ex art. 1, comma 57, della legge n. 92 del 2012, ha - con sentenza n. 418 del 6.10.2017 - accolto la domanda di annullamento del licenziamento intimato con lettera del 5.10.2016 dalla F. s.p.a. a M.Z., operaio carpentiere, per essere stato sorpreso dal proprio superiore gerarchico, durante il turno di lavoro notturno, addormentato presso altra zona dello stabilimento, a distanza di circa un'ora dalla pausa prestabilita.

2. La Corte ha respinto il reclamo proposto dalla società rilevando che la disamina del C.C.N.L. applicato in azienda (C.C.N.L. addetti Industria Metalmeccanica ed installazione di impianti 5.12.2012) dimostrava che la sanzione espulsiva è riservata a condotte che causano all'azienda grave nocumento morale o materiale o a condotte violative di maggior rilievo rispetto a quella posta in essere dal Z., che poteva, invece, ricondursi nell'alveo delle fattispecie punite con sanzione conservativa, in specie in quella dell'infrazione costituita dal c.d. abbandono del posto di lavoro, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970.

3. Per la cassazione di tale sentenza la società F. ha proposto ricorso affidato a tre motivi. Il lavoratore resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod.proc.civ.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 9, Sez. IV, titolo VII, del C.C.N.L. addetti Industria Metalmeccanica ed installazione di impianti 5.12.2012 e 2119 cod. civ. (in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, omesso di considerare la complessiva condotta posta in essere dal dipendente, che si compendiava non solamente nell'abbandono del posto di lavoro durante l'orario notturno ma altresì nell'essersi recato in altro luogo dello stabilimento, nell'essersi messo a dormire, nell'essersi risvegliato ed aver ripreso l'attività lavorativa solamente a seguito di improvviso sopralluogo, alle ore 03,30, del superiore gerarchico (che si era precedentemente allontanato, verso la mezzanotte, per incombenze lavorative di durata imprecisata). La Corte non ha tenuto conto delle modalità maliziose con cui si è estrinsecata la condotta del Z., modalità che distinguono nettamente detta condotta da quelle punite dall'art. 9 del C.C.N.L. di settore con sanzione conservativa (abbandono del posto di lavoro, ritardato inizio, ecc.), caratterizzate dalla possibilità di agevole constatazione immediata ictu oculi (e quindi dall'assenza di volontà elusiva).

2. Con il secondo motivo si denunzia violazione degli artt. 18, commi 4 e 5, della legge n. 300 del 1970, degli artt. 2104, 2105, 2106, 2119 e 1362 cod. civ., nonché degli artt. 9 e 10, Sez. IV, Titolo VII del C.C.N.L. Industria Metalmeccanica (in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, ricondotto - mediante un'interpretazione estensiva ed analogica (possibile, ai sensi dell'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, solamente per le disposizioni normative) - la condotta tenuta dal Z. in una fattispecie, punita con sanzione conservativa, delineata dal C.C.N.L. nonostante il tenore testuale dell'art. 18, commi 4 e 5, della legge n. 300 renda evidente la natura residuale della tutela reintegratoria, suscettibile di applicazione solamente nel caso in cui il comportamento contestato sia stato previsto specificamente dalle parti sociali. L'art. 9 del C.C.N.L. non consente, inoltre, di sussumere nel concetto di "abbandono del posto di lavoro" comportamenti che non siano di immediata percezione da parte del datore di lavoro bensì occulti e abusivamente adottati per eludere il controllo datoriale.

3. Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione (in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.), avendo, la Corte distrettuale, omesso di considerare l'intento fraudolento e/o elusivo posto in essere dal dipendente chiaramente emerso dall'istruttoria espletata.

4. I primi due motivi, che per evidenti ragioni di connessione devono essere esaminati congiuntamente in quanto investono la questione del rapporto tra previsioni della contrattazione collettiva e fatti posti a fondamento del licenziamento disciplinare impugnato, sono fondati.

5. A seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012 al regime sanzionatorio dettato dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, il giudice deve procedere ad una valutazione più articolata circa la legittimità dei licenziamenti disciplinari rispetto al periodo precedente (cfr. Cass. n. 13178 del 2017; successive conformi: Cass. n. 5339 del 2018; Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 18823 del 2018; Cass. n. 32500 del 2018).

In primo luogo deve accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 "modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla legge n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 cod. civ. o per giustificato motivo" (così Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017).

Nel caso in cui il giudice escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, deve svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dal comma 4 dell'art. 18 per accedere alla tutela reintegratoria ("insussistenza del fatto contestato" ovvero fatto rientrante "tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili"), dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5, "da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale" (ancora Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017).

6. Avuto riguardo alle previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, questa Corte, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, ha più volte espresso il generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di merito (ex plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011). Anche se "la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c." (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 del 2018), considerato altresì che l'art. 30, comma 3, I. n. 183 del 2010, ha previsto che "nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro" (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nell'art. 30 della I. n. 183 del 2010 v. anche Cass. n. 25201 del 2016).

Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (art. 12 legge n. 604 del 1966). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse "non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva", dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).

7. La nuova disciplina fissata dall'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970 in tema di tutele applicabili in caso di licenziamento illegittimo appare pienamente coerente rispetto a tali indirizzi consolidati, laddove prevede che, ove il fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, non solo il licenziamento sarà ingiustificato senza possibilità di diversa valutazione da parte del giudice ma il giudice dovrà annullare il licenziamento, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.

8. In ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dagli artt. 1362 e ss. cod. civ. Coerentemente è stato da gran tempo escluso il ricorso all'applicazione analogica (Cass. n. 7519 del 1983; Cass. n. 5726 del 1985; Cass. n. 6524 del 1988), "atteso che anche nel contratto collettivo le disposizioni in esso contenute conservano pur sempre la loro originaria natura contrattuale e non consentono conseguentemente il ricorso all'analogia, che è un procedimento di integrazione ermeneutica consentito, ex art. 12 delle preleggi, con esclusivo riferimento agli atti aventi forza o valore di legge" (in termini, Cass. n. 30420 del 2017).

Con riferimento all'interpretazione estensiva, essa è, in linea generale, consentita ai sensi dell'art. 1365 c.c. per estendere un patto relativo ad un caso ad un altro caso non espressamente contemplato dalle parti. In proposito è stato di recente precisato (Cass. n. 9560 del 2017) che la norma da ultimo citata consente l'interpretazione estensiva di clausole contrattuali solo ove risulti l'inadeguatezza per difetto" dell'espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione. In tale ipotesi, l'interprete deve tener presenti le conseguenze normali volute dalle parti stesse con l'elencazione esemplificativa dei casi menzionati e verificare se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell'esemplificazione, attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutica, al criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima norma. È evidente che la suddetta verifica deve essere eseguita dall'interprete con particolare severità in un contesto, come quello in esame, nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione rispetto alla regola generale deve essere interpretata restrittivamente. Ne consegue che in siffatta ipotesi l'interpretazione non può estendersi oltre i casi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portata della norma costituente la regola con l'introduzione di nuove eccezioni (cfr., in materia di rapporto regola-eccezione e della necessità di stretta interpretazione di queste ultime e dell'esclusione di qualunque integrazione di tipo analogico o estensivo, Cass. S. U. n. 24772 del 2008 in materia di mandato senza rappresentanza; Cass. n. 13875 del 2010 in tema di patrocinio a spese dello Stato; Cass. n. 8379 del 2018 in materia di forma dei contratti collettivi; Cass. n. 20188 del 2017, che rinvia altresì a Cass. n. 9205 del 1999, in materia di successione e di diritto d'autore).

Pertanto solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il  licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell'art. 18 novellato.

Coerentemente non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare. Una tale possibilità è negata, del resto, dalla lettera del comma 4 dell'art. 18 I. n. 300 del 1970, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano l'eccezione della tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria nonché, dal punto di vista sistematico, in quanto violerebbe la chiara ratio nel nuovo regime in cui la tutela reintegratoria presuppone l'abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoratore, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell'ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore.

L'apertura all'analogia o a un'interpretazione che allargasse la portata della norma collettiva oltre i limiti sopra delineati, invece, produrrebbe effetti esattamente contrari a quelli chiaramente espressi dal legislatore in termini di esigenza di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto.

La scelta del legislatore non si palesa irragionevole, tenuto conto che al giudice non è certo inibito di trarre dal pari disvalore disciplinare della condotta addebitata rispetto a quelle punibili con sanzione conservativa secondo le previsioni collettive il convincimento che il comportamento del lavoratore non costituisca giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando appunto la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale; quindi il giudice, ai sensi del comma 5 dell'art. 18 cit., dichiarato illegittimo il recesso e risolto il rapporto di lavoro, condannerà il datore di lavoro al pagamento dell'indennità risarcitoria tra 12 e 24  mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; ciò che gli è precluso dalla previsione normativa è solo disporre la maggiore, eccezionale, tutela reintegratoria, ma, come ancora di recente ribadito dalla Corte costituzionale (sent. n. 194 del 2018, punto 9.2. del considerato in diritto), si tratta di terreno in cui si esercita la discrezionalità del legislatore, negandosi ancora espressamente che "il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost. ... imponga un determinato regime di tutela".

9. Ebbene, nel caso di specie, la Corte distrettuale ha ritenuto ingiustificato il licenziamento in quanto diretto a sanzionare una condotta alla quale le parti sociali avevano ricollegato una sanzione conservativa ed ha, poi, tratto le immediate conseguenze in ordine al regime di tutela da applicare (scegliendo, dunque, la sanzione reintegratoria dell'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970). In particolare, il giudice di merito ha ritenuto di sussumere il comportamento contestato nell'ambito della previsione di cui all'art. 9 C.C.N.L. applicato in azienda, nella specie "l'abbandono del posto di lavoro senza giustificato motivo", punito con sanzione conservativa dal C.C.N.L. di settore.

Così facendo, però, ha interpretato e poi applicato una clausola contrattuale prevedente una sanzione conservativa ad un caso concreto non contemplato dalla medesima. Invero la contrattazione collettiva applicabile annovera ulteriori fattispecie suscettibili di essere punite con sanzioni conservative (quali la mancata presentazione al lavoro, il ritardo all'inizio del lavoro senza giustificato motivo o la sospensione o l'anticipazione della cessazione) facendo riferimento a condotte tutte accomunate dalla caratteristica di essere immediatamente e agevolmente rilevabili dal datore di lavoro in quanto tenute in palese ed aperta violazione dell'obbligo di osservanza dell'orario di lavoro. Ma un'interpretazione rigorosa della clausola contrattuale non consente di sussumere il comportamento adottato dal Z. nella tipizzazione contrattuale in quanto comportamento più articolato e complesso, qualitativamente differente, e consistente non semplicemente nella mancata o nell'interrotta prestazione lavorativa immediatamente percepibile al datore di lavoro bensì nella sottrazione dal controllo datoriale al fine di realizzare un'apparente situazione di regolarità lavorativa. Non potendo ritenersi ricollegabile la condotta tenuta dal Z. con la tipizzazione contenuta nell'art. 9 del C.C.N.L. di settore, e, dunque, dovendo escludersi, per il fatto de quo l'assoggettabilità a sanzione conservativa, il giudice dovrà procedere nuovamente all'accertamento della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo (tenendo conto delle tipizzazioni espresse dalla contrattazione collettiva e utilizzando la discrezionalità che deriva dalla nozione legale di tali giustificazioni) e, nel caso ritenga sproporzionata la sanzione espulsiva adottata, dovrà - in sede di valutazione del regime sanzionatorio da applicare - applicare il regime generale della tutela risarcitoria dettato dal comma 5, dovendosi escludere, per le ragioni in precedenza enunciate, la ricorrenza dei presupposti di legge per l'applicazione della tutela reintegratoria.

10. Il terzo motivo è assorbito.

11. In conclusione, vanno accolti il primo ed il secondo motivo del ricorso, assorbito il terzo. La sentenza impugnata va cassata e rinviata alla Corte di appello di Trieste, in diversa composizione, che si uniformerà a quanto innanzi statuito e provvederà altresì alla regolazione delle spese anche del presente grado di giudizio.

 

P.Q.M.

 

accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Trieste in diversa composizione.