Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 04 luglio 2017, n. 16390

Licenziamento - Mancato superamento della prova - Invalido civile - Inidoneità a svolgere le mansioni assegnategli - Dimostrazione del possesso delle qualità professionali

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d'Appello di Roma, con la sentenza n. 8559/14 del 10 novembre 2014, rigettava l'appello proposto da S.G. nel confronti della società M. srl, in concordato preventivo, già V. spa, avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Viterbo n. 1502 del 2010, tra le parti.

2. Il Tribunale aveva respinto la domanda proposta dal S., assunto in data 1° luglio 2008 tramite avviamento obbligatorio, volta ad accertare l'illegittimità del licenziamento intimato dalla ceramica V. spa, con lettera del 15 settembre 2008, per mancato superamento della prova, con condanna della società al pagamento della cd. indennità sostitutiva della reintegra pari a 15 mensilità.

Il giudice di primo grado accertava che il contratto di lavoro stipulato tra le parti subordinava specificamente la costituzione del rapporto all'esito favorevole di un periodo di prova della durata di 2,5 mesi, avente scadenza il 16 settembre 2008, e che dalla prova per testi era emerso che il ricorrente - addetto al magazzino per l'inserimento al pc dei pezzi prodotti o venduti e degli ordini e delle bolle di consegna - doveva essere costantemente coadiuvato ad altro addetto in quanto non in grado di svolgere in maniera idonea le mansioni assegnategli.

3. La Corte d'Appello affermava l'ammissibilità del patto di prova in ipotesi di assunzione obbligatoria di invalidi civili, alle condizioni stabilite dalla giurisprudenza di legittimità (richiama Cass., n. 15942 del 2004) e rilevava che il lavoratore nulla aveva dedotto circa l'esistenza di motivi illeciti o comunque estranei al patto di prova, tenuto conto del carattere discrezionale del licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, e della circostanza che il lavoratore licenziato che deduca la nullità del recesso ha l'onere di provare che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi estraneo alla funzione del patto di prova (è richiamata Cass. n. 21784 del 2004).

4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il lavoratore prospettando due motivi di ricorso.

5. Resiste con controricorso la società M. srl in concordato preventivo, già V. spa.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti e art. 360, n. 5, cod. proc. civ.

Le prove richieste dal lavoratore erano state dichiarate inammissibili, mentre erano state ammesse le prove della controparte.

La prova per testi dedotta da esso ricorrente avrebbero dovuto essere ammessa in quanto se anche nella prima parte poteva apparire generica e valutativa, nella seconda parte conteneva un fatto oggettivo determinato, ovvero se il lavoratore aveva ricevuto durante il periodo di prova apprezzamenti da superiori e colleghi.

Il capitolo di prova, quindi, emendato degli apprezzamenti, avrebbe assunto il carattere dell'ammissibilità. Non era poi necessario indicare i testi rispetto ai diversi capitoli di prova, né che i capitoli fossero separati dalla narrativa enumerati, se le circostanze della narrativa erano articolate schematicamente in capitoli.

Inoltre, il giudice ex art. 421 cod. proc. civ. può esercitare, ex officio, poteri istruttori.

Dall'interrogatorio formale emergeva che il lavoratore aveva predisposto un programma informatico specifico su Excel per la gestione degli indirizzi dei clienti e fornitori, dimostrando l'impegno a svolgere le mansioni a lui assegnate, e che lo stesso la mattina prestava servizio in un ambiente ove era in corso la produzione, nonostante non potesse operare in ambienti polverosi (avendo subito trapianto di organo vitale), dovendo quindi indossare la mascherina.

Lo stesso si era trovato poi a svolgere anche altre mansioni (fotocopie e quanto di volta in volta gli veniva chiesto), rispetto a quelle per cui era stato assunto.

Le risultanze di causa offrivano, quindi, significativi dati di indagine, per cui il giudice non poteva limitarsi a fare meccanica applicazione del principio dell'onere della prova, ma doveva provvedere d'ufficio agli ulteriori atti istruttori idonei a superare l'incertezza in ordine ai fatti costitutivi dei diritti in contestazione.

Né le testimonianze dei testi di controparte (secondo cui doveva essere coadiuvato da altri perché faceva sempre errori) erano in grado di valutare le qualità attitudinali del lavoratore ai fini della prova.

2. Il motivo è inammissibile.

Occorre rilevare che nel caso in esame, la sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012. Trova dunque applicazione il nuovo testo dell'art. 360 cpc, comma 1, n. 5, come sostituito dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lettera b), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

Nel sistema l'intervento di modifica dell'art. 360 cpc, comma 1, n. 5 come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un'ulteriore sensibile restrizione dell'ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto.

Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito che la riformulazione dell'art. 360 cpc, comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.

Ciò non ricorre nel caso in esame atteso che va rilevato, da un lato la genericità della formulazione del motivo che non riporta, trascrivendoli, i capi di prova della cui mancata ammissione si duole (e che avrebbero dovuto offrire elementi per l'esercizio dei poteri officiosi del giudice), né la relativa deduzione in appello (facendo riferimento alla prova di cui al capitolo 3 del ricorso introduttivo del giudizio), e contiene stralci dell'esito dell'interrogatorio formale che, in quanto frammentari, non consentono di apprezzare la rilevanza del complessivo esito dell'interrogatorio; dall'altro che la Corte d'Appello con motivato accertamento di merito ha valutato motivatamente le risultanze istruttorie, secondo le regole del riparto dell'onere della prova.

Né il ricorso per cassazione introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale chiedere un riesame nel merito e far valere la prospettata mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti (S.U. n. 7931 del 2013 e Cass. n. 4293 del 2016).

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ.

Espone il ricorrente di essere stato assunto tramite avviamento obbligatorio, in quanto aveva subito un trapianto di fegato. Tale circostanza avrebbe dovuto indurre il giudice ad interpretare correttamente il concetto di prova, anche in ragione del breve periodo della prova. Il giudice avrebbe dovuto con l'audizione dei testi di parte ricorrente verificare se effettivamente il recesso abbia avuto caratteri discriminatori, in ordine allo status di invalido del lavoratore.

3.1. Il motivo è inammissibile.

3.2. Occorre precisare che la Corte d'Appello ha rilevato che, non essendo stato dedotto nulla in merito, il thema decidendum era stato circoscritto con il ricorso alla mancanza di forma scritta del patto di prova e all'avere dimostrato il possesso delle qualità professionali afferenti l'attività alle quali era stato addetto.

Esulavano dal thema decidendum come delimitato dal ricorso l'esistenza di motivi illeciti o estraniai patto di prova e l'inadeguatezza delle mansioni svolte durante il periodo di prova con il suo stato di invalidità, nonché l'inadeguatezza del periodo di prova in relazione alle condizioni di invalidità.

Il giudice di appello, in relazione alle deduzioni effettuate con il ricorso, ha accertato che dalla prova per testi esperita in primo grado era emerso che il ricorrente doveva essere costantemente coadiuvato da altro addetto in quanto non in grado di svolgere in maniera idonea le mansioni assegnategli ("trovavo sempre errori" ha riferito il teste D.S.V.).

3.3. Tale accertamento non è adeguatamente censurato.

3.4. Nello svolgimento del motivo il ricorrente sostiene le proprie argomentazioni, in particolare, attraverso un vaglio critico di Corte cost. sentenza n. 255 del 1989, Cass. S.U., sentenza n. 1104 del 1989, Cass., sentenza n. 13525 del 2001, senza tener conto e confrontarsi con il più recente quadro giurisprudenziale, al quale correttamente si riporta la Corte d'Appello.

3.5. Questa Corte ha ribadito che il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso, aggiungendo tuttavia che incombe sul lavoratore licenziato, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, l'onere di provare, secondo la regola generale di cui all'art. 2697 cod. civ., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da un motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova (Cass. n. 21784 del 2009, n. 16224 del 2013). Risultandone quindi circoscritta la libertà di recesso nell'ambito della funzione cui il patto di prova è finalizzato. Ne consegue che la valutazione datoriale in ordine all'esito della prova è ampiamente discrezionale, sicché la prova da parte del lavoratore dell'esito positivo dell'esperimento non è di per sé sufficiente ad invalidare il recesso, assumendo rilievo tale circostanza se ed in quanto manifesti che esso è stato determinato da motivi diversi (Cass., n. 1180 del 2017, n. 21784 del 2009).

Le S.U. di questa Corte hanno affermato (Cass., S.U., n. 11633 del 2002, cui adde Cass. n. 15942 del 2004, n. 21784 del 2009, n. 469 del 2015) che nell'ipotesi di patto di prova stipulato con invalido assunto in base alla legge 2 aprile 1968, n. 482, il recesso dell'imprenditore è sottratto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale contenuta nella legge 15 luglio 1966, n. 604, onde non richiede una formale comunicazione del motivo del recesso; questo può essere direttamente contestato dal lavoratore in sede giudiziale, allegando fatti (fra i quali l'elusione della legge protettiva degli invalidi) dimostranti l'illiceità del motivo e perciò l'invalidità dell'atto negoziale unilaterale.

Nell'ipotesi di avviamento di invalido per l'assunzione obbligatoria ai sensi della legge n. 482 del 1968, il contratto di lavoro può essere stipulato con patto di prova, a condizione che le mansioni affidate siano compatibili con la minorazione dell'invalido; nel caso di esito negativo dell'esperimento, è valido il recesso del datore di lavoro dal rapporto, purché motivato con l'indicazione delle ragioni (serie ed obiettive) che non hanno consentito il superamento del periodo di prova, indipendentemente da qualsiasi valutazione della minorazione dell'invalido; con la conseguenza che, ove tali ragioni siano indicate, il recesso non è subordinato ad altri adempimenti od obblighi, incombendo al lavoratore che alleghi l'illegittimità del licenziamento di dedurre e provare rigorosamente eventuali motivi illeciti o discriminatori, ovvero elementi contrari a quelli dedotti dal datore di lavoro circa l'impossibilità di reperire all'interno dell'azienda, tenuto conto della sua struttura organica ed organizzativa, altro posto di lavoro più confacente alle attitudini del soggetto, nell'ambito della categoria e del livello di appartenenza (Cass., n. 5639 del 1998, n. 21965 del 2010).

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 255 del 1989 ha affermato che «Non sussiste alcun impedimento che vieta la previsione o per contratto collettivo o per patto intervenuto tra le parti, da includersi nel contratto, del patto di prova, da stipularsi per atto scritto, ex art. 2096 del codice civile. Il lavoratore può rifiutarsi di sottoporsi alla prova adducendo un giusto o giustificato motivo. Il rifiuto é soggetto al sindacato del giudice. Se esso risulta ingiustificato, il datore di lavoro è liberato dall'obbligo della stipulazione; in caso contrario (sussistenza del giusto o giustificato motivo) il datore di lavoro deve egualmente stipulare il contratto di lavoro. Inoltre, l'esperimento deve riguardare mansioni compatibili con lo stato di invalidità o di minorazione fisica del lavoratore e l'esito della prova non deve essere assolutamente influenzato da considerazioni di minor rendimento dovute all'infermità o alle minorazioni. Infine, il recesso del datore di lavoro deve avere un'adeguata motivazione».

Successivamente, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e dell'art. 2096 cod. civ., ha statuito che l'infondatezza della questione sotto il profilo della presunta lesione del principio di eguaglianza rende evidente anche l'inconsistenza del richiamo agli artt. 2 e 35 della Carta fondamentale, poiché i principi generali di tutela della persona e del lavoro (ordinanza n. 254 del 1997) non si traducono nel diritto al conseguimento ed al mantenimento del posto (sentenza n. 390 del 1999), dovendosi piuttosto riconoscere garanzia costituzionale al solo diritto di non subire un licenziamento arbitrario.

3.5. Quindi la censura circa la mancata ammissione di prova relativa all'illiceità del motivo e alla compatibilità delle mansioni che il lavoratore era chiamato a svolgere, oltre ad essere generica, è priva di rilevanza in ragione della mancata prospettazione della avvenuta deduzione della doglianza nel ricorso introduttivo del giudizio, e della avvenuta censura in appello della sentenza di primo grado sotto detto profilo.

La statuizione della Corte d'Appello relativa alla qualificazione della domanda introduttiva del giudizio, peraltro, non è stata censurata dalla ricorrente.

Qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata né indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass., n. 8206 del 2016).

La doglianza circa la mancata ammissione della prova in relazione allo svolgimento positivo della prova è inammissibile, atteso che la Corte d'Appello ha fatto corretta applicazione dei sopra richiamati principi di diritto e la mancata riproduzione dei capitoli di prova non consente alla Corte di apprezzarne la rilevanza.

4. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

6. Poiché il ricorrente in cassazione è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, lo stesso non è tenuto al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Cass. n. 18523 del 2014):

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 3000,00 per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15 % e accessori di legge.