Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 31 gennaio 2017, n. 2499

Licenziamento disciplinare - Danno immagine azienda - Diritto di critica e di satira - Mancanza di proporzionalità

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso al Tribunale di Firenze del 13.3.2013, ai sensi dell'articolo 1 co. 47 L. 92/2012, S.C. impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli in data 19.12.2012 dalla società L.G.O. srl (in prosieguo, per brevità: L. srl) - facente parte della divisione G.G. spa - per avere gravemente offeso l'immagine dell'azienda pubblicando su una chat privata del social network Fecebook, nella quale i lavoratori si scambiavano informazioni sull'incontro sindacale per il rinnovo del contratto integrativo, una immagine raffigurante un coperchio di vasellina cui era sovrapposto un disegno ed il marchio "G."; deduceva la mancanza di proporzionalità del licenziamento e la sua natura ritorsiva. Con ordinanza del 7.8.2013 il giudice del lavoro annullava il licenziamento sotto il profilo della mancanza di proporzionalità.

Con sentenza del 7.1.2014 (nr. 2/2014) il Tribunale rigettava la opposizione proposta dalla società L. srl, ritenendo la fattispecie riconducibile all'ipotesi di insussistenza del fatto disciplinare, ex articolo 18 co. 4 L. 300/1970, per essere stato esercitato il diritto di critica e di satira.

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza dell'11.4.2014 (nr. 401/2014), rigettava il reclamo della società e dichiarava la nullità del licenziamento in quanto ritorsivo applicando il comma 1 dell'articolo 18.

La Corte territoriale rilevava che il S. aveva dedotto il carattere ritorsivo del licenziamento, rappresentando di essere stato originariamente assunto a tempo determinato ed inserito nell'organico aziendale solo a seguito della impugnazione in via giudiziaria della apposizione del termine.

L'addebito disciplinare rappresentava un pretesto per allontanare un lavoratore rientrato da appena un anno in esito al precedente contenzioso, che si era dimostrato, con la partecipazione attiva alla chat, per nulla remissivo alle iniziative datoriali sulla organizzazione del lavoro, cercando di coinvolgere altri colleghi nella contestazione nella fase di rinnovo degli accordi sindacali aziendali.

Era assente un motivo legittimo di licenziamento, come evidente per la banalità del fatto contestato: la immagine pubblicata recava una vignetta satirica non dissimile alle rappresentazioni quotidianamente diffuse dai mass media; il disegno aveva ricevuto una diffusione limitata ai dieci colleghi del S. partecipanti alla chat.

L'accesso dall'esterno restava del tutto eventuale e legato ai contatti dei singoli aderenti alla chat; non risultava che la vignetta avesse avuto diffusione ulteriore sul web e che potesse avere qualche interesse per il pubblico degli acquirenti del marchio G..

L'unico motivo determinante era dunque quello ritorsivo.

Da ultimo l'aliunde perceputm, pur non essendo oggetto di una eccezione in senso stretto ma fatto rilevabile d'ufficio, non poteva trovare ingresso nel giudizio per mancanza di specificità delle allegazioni e delle richieste di prova del datore di lavoro.

Per la Cassazione della sentenza ricorre L. srl, articolando due motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso S.C..

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo la società ricorrente ha dedotto:

- ai sensi dell'articolo 360 co. 1 nr 3 cpc: violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116, cpc; 1175, 1324, 1345, 1375, 1418 co.2, 1455, 2104, 2105, 2106, 2607, 2727, 2729 c.c.

- ai sensi dell'articolo 360 nr. 5 cpc: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti.

Ha esposto che il fatto disciplinare contestato consisteva nell'avere pubblicato nella chat del social network "Facebook" denominata "Vaselina day" una immagine lesiva del marchio G. - della cui divisione faceva parte l'azienda - che raffigurava un tappo di vasellina con il segno distintivo del gruppo G. (la doppia G), una caricatura di spalle con il dito medio puntato sul fondoschiena e la scritta "G. Vaselina la trovi nei migliori outlet".

Ha dedotto la violazione dei consolidati principi in tema di oneri probatori del licenziamento ritorsivo, lamentando che nella sentenza impugnata non vi era il richiamo ad elementi fattuali da cui trarre la prova della natura ritorsiva del licenziamento, in quanto, come da essa dedotto sin dalla prima fase, la precedente controversia tra le parti era stata conciliata e con il S. era stato licenziato anche un altro dipendente.

Vi era altresì vizio della motivazione circa un fatto decisivo del giudizio ovvero la efficienza causale esclusiva dell'intento ritorsivo, in ragione della presenza di un addebito disciplinare idoneo a giustificare il licenziamento. La Corte di merito confondeva la inosservanza degli obblighi di correttezza, buona fede e civiltà sottesi al rapporto di lavoro con la satira televisiva o a mezzo stampa, nella quale mancava un vincolo obbligatorio tra autore e destinatario della satira. Né poteva invocarsi il diritto di critica, che doveva essere rivolto nei confronti di scelte organizzative del datore di lavoro laddove l'immagine pubblicata era gratuitamente lesiva del decoro del datore di lavoro.

La sentenza non offriva alcuna giustificazione della assunta banalità del fatto senza valutare la grave lesione dell'immagine del gruppo G. realizzata con la denigrazione del marchio, gravemente pregiudizievole degli interessi del datore di lavoro.

La natura ritorsiva del licenziamento era esclusa dalla fondatezza dell' addebito disciplinare contestato, rispetto al quale il licenziamento era sanzione proporzionata.

Il motivo è inammissibile.

Il licenziamento ritorsivo ricade nella disciplina dell'articolo 1345 c.c. sicché il relativo giudizio - consta di due accertamenti: il motivo di ritorsione (motivo illecito); la assenza di altre ragioni lecite determinanti (esclusività del motivo).

Ambedue gli accertamenti involgono un giudizio di fatto, in quanto teso a ricostruire la volontà del datore di lavoro: ne consegue che in sede di legittimità tale giudizio è censurabile nei limiti di cui all'articolo 360 nr. 5 cpc.

Nella fattispecie si applica ratione temporis il vigente testo del suddetto articolo 360 nr. 5 cpc sicché il vizio della motivazione è deducibile soltanto in termini di omesso esame di un fatto decisivo del giudizio ed oggetto di discussione tra le parti.

La denunzia non coglie alcun fatto non esaminato in sentenza giacché il giudice del merito ha considerato la potenziale lesione dell'immagine aziendale derivata dalla condotta contestata, che ha escluso argomentando sulla limitata diffusione della vignetta (tra i dieci partecipanti alla chat) e sulla assenza di prova di una sua divulgazione all'esterno dell'ambiente di lavoro (si veda a pagina 3 della sentenza).

Al compito assegnato alla Corte di Cassazione dal nuovo testo dell'articolo 360 nr. 5 cpc resta invece estranea la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice.

Per le stesse ragioni anche la censura sul difetto di prova dell'intento ritorsivo non è sussumibile nella ipotesi dell'articolo 360 nr. 5 cpc, risolvendosi, piuttosto che nella allegazione di un fatto non esaminato, nella deduzione di una insufficienza della motivazione.

2. Con il secondo motivo la società ricorrente ha denunziato:

- ai sensi dell'articolo 360 nr. 3 cpc: violazione e falsa applicazione degli articoli 18 co. 2 L. 300/1970 e 115 cpc

- ai sensi dell'articolo 360 co. 1 nr. 5 cpc: omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio ed oggetto di discussione tra le parti.

Il motivo afferisce al rigetto della eccezione di aliunde perceptum.

La società ricorrente ha esposto di avere ritualmente richiesto sin dalla prima fase del procedimento l'interrogatorio formale del S. e la assunzione di informazioni presso I' INPS e la Agenzia delle Entrate in ordine ai compensi da questi percepiti in epoca successiva al licenziamento, come dal capitolo di prova trascritto nel presente ricorso.

Ha dedotto che le richieste istruttorie articolate costituivano l'unico mezzo di prova dell' aliunde perceptum e che immotivatamente non erano state accolte (l'interrogatorio formale) o erano state disattese.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha già affermato con riguardo all' aliunde perceptum o percipiendum, che la deduzione - pur non integrando una eccezione in senso stretto ed essendo, pertanto rilevabile dal giudice anche in assenza di un'eccezione di parte - presuppone comunque l'allegazione da parte del datore di lavoro di circostanze di fatto specifiche; Cfr. Cass. sez. lav. 04/12/2014, n. 25679.

Il Giudice del merito ha correttamente applicato le norme di legge evocate nella rubrica del motivo, attribuendo valenza preclusiva all'ingresso dei mezzi istruttori alla mancanza di una puntuale allegazione del datore di lavoro circa il reperimento da parte del lavoratore di altra occupazione, non essendo consentita la acquisizione della prova su fatti genericamente allegati.

Peraltro, sempre per consolidata giurisprudenza di legittimità il datore di lavoro, onerato a provare l'aliunde perceptum da detrarre dall'ammontare del risarcimento del danno dovuto in base all'art. 18 legge n. 300/1970, non può esonerarsi chiedendo al giudice di voler disporre generiche informative o di attivare poteri istruttori con finalità meramente esplorative: Cassazione civile sez. lav. 11 marzo 2015 n. 4884, 29 dicembre 2014 n. 27424, 04 dicembre 2014, n. 25679.

La denunzia proposta sotto il profilo del vizio di motivazione parimenti difetta della allegazione del fatto decisivo del giudizio non esaminato dal giudice del merito in quanto dedotto nel capitolato delle prove non ammesse.

Il ricorso deve essere conclusivamente respinto.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art. 1 co 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all'art. 13 DPR 115/2002) - della sussistenza dell'obbligo di versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 100 per spese ed € 4.000 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, con attribuzione.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.