Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica, nozione di disabilità e obblighi del datore di lavoro

La nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere costruita quale "imitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori" (Corte di Cassazione, sentenza 21 maggio 2019, n. 13649)

Una Corte d'appello territoriale aveva respinto l'appello di un datore di lavoro, confermando la decisione di primo grado che, in accoglimento della domanda proposta da un lavoratore, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli. Nello specifico, rientrato al lavoro dopo un grave infortunio sul lavoro occorsogli, il lavoratore era stato dapprima giudicato dal medico competente inidoneo "allo stato attuale" alle mansioni di autista e adibito ai compiti di aiuto meccanico presso l'officina aziendale. Successivamente, era stato dichiarato permanentemente inidoneo alle mansioni di autista e la società, che gli aveva offerto il ruolo di addetto alle pulizie con riduzione dell'orario di lavoro, di fronte al rifiuto dello stesso, gli aveva intimato il licenziamento per sopravvenuta permanente inidoneità fisica alle mansioni di autista e per il rifiuto di impiego in attività compatibili con le residue capacità lavorative. La scelta del datore di lavoro, di fronte alla accertata inidoneità del lavoratore alle mansioni di autista, di creare una apposita postazione lavorativa di ausilio al personale dell'officina aziendale, costituiva adempimento dell'obbligo posto a carico della società (art. 1, co. 7, L. n. 68/1999). Di qui, era illegittimo il licenziamento intimato sulla base di un presupposto, la definitiva inidoneità alle mansioni di autista, già avendo la società assegnato il predetto a mansioni diverse, compatibili con la residua capacità lavorativa.
Ricorre così in Cassazione il datore di lavoro, lamentando che il lavoratore non fosse mai stato giudicato invalido o disabile e che nei confronti del predetto era stata solo accertata dal medico competente l'inidoneità alla mansione per cui era stato assunto.
Per la Suprema Corte il ricorso non è fondato. In primis, l'ordinamento italiano non contiene una nozione unitaria di disabilità, bensì definizioni aventi valenza medico-sanitaria, dettate da differenti testi normativi: le Leggi n. 18 /1980 e n. 118/1971 che regolamentano le provvidenze legate a inabilità o invalidità civile, quale perdita della capacità lavorativa generica; la Legge n. 104/1992 che detta disposizioni in materia di handicap, definito come "minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione"; la Legge n. 68/1999 che si occupa del diritto al lavoro dei disabili quali "persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche psichiche o sensoriali e i portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento". Di contro, la legislazione sovranazionale (Direttiva 78/2000/CE del 27 novembre 2000) sulla parità di trattamento in materia di occupazione, ha recato l'unificazione della nozione di disabilità, in un significato essenzialmente sociale, nel cui campo di applicazione deve farsi rientrare il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni. Qui viene specificato che "per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato (...)" (art. 5 Direttiva 78/2000/CE). Secondo poi la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza 4 luglio 2013, C-312/2011), sussiste un obbIligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioè provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, nei limiti di non vedersi imposto un onere finanziario sproporzionato. I citati provvedimenti possono anche consistere in una riduzione dell'orario di lavoro. In tale ottica, dunque, in recepimento di tale Direttiva, il Legislatore italiano (art. 3, co. 3-bis, D.Lgs. n. 216/2003, inserito dall’art. 9, co. 4-ter, L. n. 99/2013) ha previsto che, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.
Tanto premesso, in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di "handicap", sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso. A nulla rileva che la fattispecie si collochi in epoca anteriore alla normativa di recepimento della Direttiva, considerato l'obbligo del giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi di una direttiva anche prima del suo concreto recepimento e della sua attuazione (Corte di Cassazione, sentenza n. 6798/2018).
La nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere costruita in conformità al contenuto della direttiva, come interpretata dalla Corte di Giustizia, quale "imitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori". Nel caso di specie è irrilevante, dunque, il carattere (determinatosi, asseritamente, solo più tardi) duraturo delle menomazioni diagnosticate al lavoratore e tali da comportare un giudizio del medico competente di "permanente inidoneità alle mansioni di autista". Inoltre, la possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nel luogo di lavoro al fine di garantire al dipendente, divenuto disabile in conseguenza di un grave infortunio sul lavoro, la piena eguaglianza con gli altri lavoratori, è stata accertata in fatto dalla Corte di merito sulla base della stessa condotta datoriale che, al rientro del dipendente a lavoro, aveva individuato una mansione compatibile con le residue capacità del predetto e con la sua professionalità.