Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 10 maggio 2017, n. 11425

Contratto a termine - Dipendenti postali - Nullità - Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato

 

Rilevato

 

che con sentenza in data 21 aprile 2010 la Corte di Appello di Potenza ha riformato la sentenza del Tribunale di Lagonegro, dichiarando la nullità della clausola appositiva del termine "per ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale inquadrato nell'Area Operativa e addetto al servizio di recapito, assente nel periodo del 1/7/04 al 30/10/04", di cui al contratto di lavoro stipulato tra S. B. e Poste Italiane Spa e la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con condanna della società al pagamento delle retribuzioni maturate dal 2 maggio 2005, detratto l’aliunde perceptum);

che avverso tale sentenza Poste Italiane Spa ha proposto ricorso affidato a plurimi motivi, cui ha opposto difese l'intimato con controricorso; che sono state depositate memorie da entrambe le parti, replicate dalla società in vista dell'adunanza camerale;

 

Considerato

 

che con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1 del d. Igs. n. 368 del 2001 e nullità del procedimento per avere la sentenza impugnata ritenuto la nullità del termine apposto al contratto de quo per genericità della clausola; con il secondo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto che la società non avesse fornito la prova della sussistenza delle ragioni poste a fondamento dell'apposizione del termine;

che il decisum della Corte territoriale si fonda su di una duplice ratio decidendi, ciascuna idonea a sorreggere la decisione: l'una attinente alla genericità della clausola appositiva del termine, statuizione censurata con il primo motivo di ricorso; l'altra attinente la carenza di prova in ordine al fatto che si fossero effettivamente verificate le indicate esigenze sostitutive, statuizione censurata con il secondo mezzo di gravame; che questo secondo motivo è palesemente inammissibile in quanto il giudizio in ordine all'ammissibilità ed alla rilevanza della prova sfugge al sindacato di questa Corte, tanto più che i giudici del merito hanno specificato in motivazione che "è rimasta del tutto carente la prova (affidata a capitoli del tutto generici, come tale ritenuta non ammissibile dal primo giudice con provvedimento reso in data 18/10/2006 che non ha formato oggetto di specifica censura da parte della società in questa fase di appello)", aspetto della motivazione in alcun modo censurato con il ricorso per cassazione; né, al riguardo, appare pertinente il richiamo alla facoltà del giudice di richiedere chiarimenti al teste o di esercitare i propri poteri istruttori officiosi, posto che la prima facoltà presuppone l'ammissibilità dei capitoli di prova così come formulati ed entrambe restano comunque circoscritte dall'ambito delle allegazioni ritualmente dedotte dalle parti; che secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte: "in tema di ricorso per cassazione, qualora la motivazione della pronuncia impugnata sia basata su una pluralità di ragioni, convergenti o alternative, autonome l'una dall'altra, e ciascuna da sola idonea a supportare il relativo dictum, la resistenza di una di esse all'impugnazione rende del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura, perché l'eventuale accoglimento di tutte o di una di esse mai condurrebbe alla cassazione della pronuncia suddetta" (Cass. n. 3633 del 2017, in contenzioso analogo; in precedenza, ex multis, Cass. n. 4349 del 2001, Cass. n. 4424 del 2001; Cass. n. 24540 del 2009); che pertanto nella specie, poiché l'indicata ragione della decisione "resiste" all'impugnazione proposta dal ricorrente con il secondo motivo è del tutto ultronea la verifica della censura di cui al primo motivo, perché l'eventuale accoglimento di esso non potrebbe comunque determinare la cassazione della sentenza gravata;

che il terzo motivo, con cui ci si duole che l'impugnata sentenza non avrebbe condiviso la prospettazione dell'esponente società secondo la quale, anche in caso di termine nullo, non avrebbe luogo la trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, non merita accoglimento per le ragioni già espresse da questa Corte in numerose pronunce dalle quali non v'è ragione di discostarsi (Cass. n. 12985 del 2008; conf. Cass. n. 7244 del 2014);

che con il quarto motivo si denuncia ancora violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alle richieste economiche del lavoratore prive di adeguato supporto probatorio; infine, nell'ipotesi di conferma della sentenza, la società invoca l'applicazione dell'art. 32 della I. n. 183 del 2010;

che tali censure, esaminabili congiuntamente, vanno accolte per quanto di ragione, essendo applicabile lo ius superveniens rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 commi 5, 6 e 7, secondo l'orientamento consolidato di questa Corte (v. fra le altre Cass. n. 16763 del 2015 ed ai precedenti ivi richiamati); ne rileva l'avvenuta abrogazione dell'art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183/2010 ad opera dell'art. 55, lett. f, del d.lgs 15 giugno 2015 n. 81 (cfr. Cass. n. 7132 del 2016);

che le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 21691 del 2016, hanno statuito che "in tema di ricorso per cassazione, la censura ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. può concernere anche la violazione di disposizioni,emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattive e, quindi, applicabili al rapporto dedotto, atteso che non richiede necessariamente un errore, avendo ad oggetto il giudizio di legittimità non l'operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata all'ordinamento giuridico"; hanno altresì chiarito che "il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta retroattiva incontra il limite del giudicato, che, tuttavia, ove sia stato proposto appello, sebbene limitatamente al capo della sentenza concernente l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, non è configurabile in ordine al capo concernente le conseguenze risarcitorie, legato al primo da un nesso di causalità imprescindibile, atteso che, in base al combinato disposto degli artt. 329, comma 2, e 336, comma 1, c.p.c., l'impugnazione nei confronti della parte principale della decisione impedisce la formazione del giudicato interno sulla parte da essa dipendente";

che pertanto non vi è giudicato sulle conseguenze risarcitorie sino a quando resta impugnato Vati sulla illegittimità del termine ed ove questa statuizione venga confermata occorre tenere conto dell'art. 32 della I. n. 183 del 2010, affinché la decisione adottata sia conforme all'ordinamento giuridico;

che, conclusivamente, respinti i primi tre motivi di ricorso, va accolto l'ultimo nei sensi e nei limiti del detto ius superveniens, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione ad esso e con rinvio per il riesame, sul punto, alla Corte di Appello indicata in dispositivo, che dovrà limitarsi a quantificare l'indennità spettante ex art. 32 cit. per il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (cfr., per tutte, Cass. n. 14461 del 2015), con interessi e rivalutazione su detta indennità da calcolarsi a decorrere dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine (cfr. per tutte Cass. n. 3062 del 2016), provvedendo altresì alle spese del giudizio;

 

P.Q.M.

 

Rigetta i primi tre motivi di ricorso, accoglie l'ultimo nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione ad esso e rinvia alla Corte di Appello di Potenza, in diversa composizione, anche per le spese.