Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 20 settembre 2016, n. 18422

Attività lavorativa subordinata - Servizio assistenza minori - Pagamento differenze retributive

 

Fatto

 

Con sentenza 11 luglio 2011, la Corte d'appello di Torino rigettava le domande, introdotte con distinti ricorsi riuniti in primo grado, di E.P. ed E.V., che invece il Tribunale di Novara aveva accolto, di condanna solidale della datrice E.A. s.c.ar.l. e del Comune di Grignasco al pagamento delle rispettive somme di € 7.505,56 per differenze retributive e di € 1.065,76 per T.f.r. (in favore della prima) e di € 13.334,83 per differenze retributive e di € 1.592,58 per T.f.r. (in favore della seconda); entrambe oltre accessori e spese. A loro fondamento, le predette avevano dedotto la prestazione di attività lavorativa subordinata (da ottobre 2001 a giugno 2004 la prima, da gennaio 1999 a settembre 2005 la seconda) in favore di E.A. s.c.ar.l. nell'ambito dell'appalto del "servizio assistenza minori presso l'asilo nido comunale" ad essa affidato dal Comune di Grignasco, ai sensi degli artt. 1676 c.c. e 3 I. 1369/1960.

A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva, contrariamente al Tribunale, la spettanza alle due socie lavoratrici della differenza tra quanto effettivamente percepito, corrispondente alle ore lavorate, ed invece riconoscibile sulla base delle 165 ore mensili (pari all'orario pieno fissato dalla contrattazione collettiva di settore), essendo chiara la pattuizione individuale intercorsa tra le parti di esplicita determinazione dell' "orario di lavoro ... in base alle esigenze dei Clienti, o come richiesto dalle Gare d'Appalto" e modificabile "per esigenze aziendali"-, mai contestata dalle due lavoratrici e la cui esecuzione era stata comprovata dalle risultanze istruttorie.

Essa negava, infine, una sufficiente allegazione e la prova della loro disponibilità in favore della Cooperativa datrice nelle ore non lavorate, essendo anzi risultato il contrario dalla prova orale.

Con atto notificato il 16 novembre 2011, E.P. ed E.V. ricorrono per cassazione con sei motivi, cui resiste E.A. s.c.ar.l. con controricorso e memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, le ricorrenti deducono violazione dell'art. 342 c.p.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., per difetto di specificità dei motivi dell'appello della Cooperativa datrice (con la conseguente inammissibilità dello stesso), specificamente eccepita in memoria di costituzione in appello, disattesa con laconica motivazione dalla Corte territoriale (per la loro ravvisata formulazione "in termini rispettosi del requisito di specificità di cui all'art. 342 c.p.c.", salvo poi riferirne nel senso della sostanziale riproposizione de "gli argomenti già esposti con il ricorso introduttivo"). Con il secondo, le ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 3, primo comma e 6, secondo comma I. 142/2001, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per il mancato rispetto della previsione di applicazione anche al socio lavoratore del trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi stabiliti dall'art. 74 CCNL Cooperative sociali, inderogabile in pejus da clausole del regolamento interno della cooperativa (in tal caso nulle).

Con il terzo, le ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell'art. 74 CCNL delle Cooperative Sociali dell’8 giugno 2000 (valido dall' 1 gennaio 1998 al 31 dicembre 2001 e prorogato fino al rinnovo) e del 26 maggio 2004 (di rinnovo), in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per inderogabilità in senso peggiorativo della previsione contrattuale collettiva, di cui indiscussa l'applicabilità al caso di specie, individuata come parametro di sufficienza del trattamento economico complessivo, proporzionato alla qualità e quantità del lavoro prestato.

Con il quarto, le ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 6 legge regionale Piemonte 9 giugno 1994, n. 18, attuativa della legge 8 novembre 1991, n. 381 e della deliberazione della Giunta regionale Piemonte 14 marzo 1995, n. 178-43880, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per la previsione, applicabile al caso di specie per la prestazione di attività dalle socie lavoratrici in appalto conferito alla cooperativa dal Comune di Grignano, di un trattamento retributivo non inferiore a quello stabilito dal CCNL Cooperative Sociali.

Con il quinto, le ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 1463, 1464 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per illegittimità della previsione contrattuale di modificabilità dell'orario lavorativo (anche) per esigenze aziendali, essendo possibile una sospensione unilaterale datoriale solo per impossibilità sopravvenuta totale o parziale della prestazione: costituendo invece in mora credendi l'imprenditore una modificazione dipendente da eventi riconducibili alla sua gestione, senza pertanto alcun onere probatorio del lavoratore in ordine al proprio mantenimento in disponibilità, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale.

Con il sesto, le ricorrenti deducono vizio di motivazione, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., sul fatto decisivo e controverso dell’omesso esame delle buste paga, redatte in osservanza dei criteri e parametri stabiliti dall’art. 74 CCNL Cooperative Sociali, di cui espressione contabile.

Il primo motivo, relativo a violazione dell'art. 342 c.p.c., sotto il profilo di error in procedendo, per difetto di specificità dei motivi dell'appello della Cooperativa datrice, è inammissibile.

Il vizio denunciato integra un difetto di attività tanto del giudice (di non corretto rilievo) tanto della parte (che non ha assolto all'esatta integrazione del modello legale di impugnazione) e pertanto un fatto processuale, sul quale il giudizio verte e del quale la Corte di cassazione deve necessariamente poter prendere cognizione. Esso si colloca, infatti, all'interno di una vicenda tuttora in corso di sviluppo, sia quando ancora si stia svolgendo nella fase del giudizio di merito sia quando sia transitata nel giudizio di legittimità, che si inserisce pur sempre nel medesimo rapporto processuale: e ciò per la fondamentale unitarietà del procedimento, pur nei suoi diversi gradi e fasi, che ne rende il vizio sempre attuale, ove sia tale da incidere sulla decisione della causa e da compromettere la realizzazione del "giusto processo". Proprio questa natura del vizio giustifica che anche il giudice di legittimità debba conoscere dell’error in procedendo in ogni suo aspetto, perché la rottura della corretta sequenza procedimentale investe il medesimo giudizio di cassazione, sicché chi vi è preposto deve direttamente accertarsene (Cass. s.u. 22 maggio 2012, n. 8077).

Si comprende allora da dove discenda il potere del giudice di legittimità di diretto esame della specificità dei motivi di appello, senza poter limitare la sua cognizione all’esame di sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito abbia vagliato la questione (Cass. 28 novembre 2014, n. 25308; Cass. 10 settembre 2012, n. 15071; Cass. s.u. 22 maggio 2012, n. 8077; Cass. 15 gennaio 2009, n. 806; da ultimo, in linea generale: Cass. 21 aprile 2016, n. 8069).

Ma un tale esame di questa Corte non esime certamente parti ricorrenti dal formulare la censura in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito e quindi, nel caso di specie, in conformità in particolare alle prescrizioni dettate dagli artt. 366, primo comma, n. 6 c.p.c. (Cass. s.u. 22 maggio 2012, n. 8077).

Ad esse non hanno assolto le due socie lavoratrici, che hanno omesso la trascrizione dell'atto di appello denunciato di genericità, così violando il principio di autosufficienza del ricorso; né potendo tale lacuna essere rimediata con l'ausilio di altri atti del giudizio diversi dal ricorso (Cass. 21 settembre 2015, n. 18483; Cass. s.u. 18 maggio 2006, n. 11653), in particolare del controricorso (recante la trascrizione dell'atto di appello a pgg. da 8 a 11).

Il secondo ed il terzo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 3, primo comma e 6, secondo comma I. 142/2001, nonché dell'art. 74 CCNL delle Cooperative Sociali dell'8 giugno 2000 e del 26 maggio 2004, per mancata applicazione anche al socio lavoratore del trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi stabiliti dall'art. 74 CCNL, inderogabile in pejus, individuato quale parametro di sufficienza del trattamento economico complessivo), possono essere congiuntamente esaminati per ragioni di stretta connessione.

Essi sono fondati.

Dalla normativa di legge denunciata è stabilita l’inderogabilità in pejus (art. 6, secondo comma I. 142/2001, secondo cui, salve le competenze assembleari, attribuite dal primo comma, lett. d, e, f, di deliberazione di un piano di crisi aziendale o di un piano d’avviamento di nuova imprenditorialità: "il regolamento non può", a pena di nullità, "contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto ai trattamenti retributivi ed alle condizioni di lavoro previsti dai contratti collettivi nazionali di cui all'articolo 3") dei minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale (art. 3, primo comma I. cit.: "Fermo restando quanto previsto dall'articolo 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300, le società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine ... ").

E questa nel caso di specie è rappresentata dall'art. 74 CCNL 8 giugno 2000 e 26 maggio 2004, pure denunciato di violazione, secondo cui: "Gli elementi che concorrono a formare la retribuzione globale della lavoratrice e del lavoratore sono i seguenti: minimo contrattuale conglobato; scatti d'anzianità; elemento retributivo territoriale di cui all'art. 10 punto 2; ogni altro elemento retributivo corrisposto alla lavoratrice o al lavoratore. Per determinare la paga oraria dei singoli elementi del trattamento economico globale assunti a base di calcolo per i vari istituti contrattuali, si divide l'importo mensile degli elementi stessi per 165 per un orario contrattuale di lavoro di 38 ore settimanali". Sicché al socio lavoratore subordinato spetta la corresponsione di un trattamento economico complessivo (ossia concernente la retribuzione base e le altre voci retributive) comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine (Cass. 28 agosto 2013, n. 19832; Cass. 4 agosto 2014, n. 17583).

Ed allora, la clausola del contratto di lavoro stipulato tra la parti (per la quale "l'orario di lavoro sarà in base alle esigenze dei Clienti, o come richiesto dalle Gare d'Appalto, e potrà essere modificato per esigenze aziendali") non può essere intesa, in contrasto con la normativa illustrata, nel senso peggiorativo della previsione contrattuale collettiva, come invece erroneamente dalla Corte territoriale (per le ragioni illustrate a pgg. 10 e 11 della sentenza): con la conseguenza dell'obbligo di riconoscimento da E.A. s.c.a.r.l., di un trattamento economico complessivo (concernente la retribuzione base e le altre voci retributive) a E.P. ed E.V. non inferiore ai minimi suindicati.

Le superiori argomentazioni assorbono ogni altro motivo di doglianza, compreso il quinto (violazione e falsa applicazione degli artt. 1463, 1464 c.c., per illegittimità della previsione contrattuale di modificabilità dell'orario lavorativo per esigenze aziendali), in riferimento alla costituzione in mora credendi dell'imprenditore per una modificazione (sospensiva) unilaterale della prestazione lavorativa per eventi riconducibili alla sua gestione, comportante la conservazione al lavoratore del diritto alla retribuzione (Cass. 16 aprile 2004, n. 7300).

Da esse discende coerente l'inammissibilità del primo motivo di ricorso e l'accoglimento del secondo e del terzo congiuntamente esaminati (assorbiti gli altri), con la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Torino in diversa composizione.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo e il terzo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Torino in diversa composizione.