Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 04 luglio 2017, n. 16388

Licenziamento - Mansioni di operatore basico all'interno dell'aeroporto - Ritiro del tesserino da parte della polizia giudiziaria - Sospensione della prestazione lavorativa - Obbligo di repechage

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d'Appello di Roma, con la sentenza n. 6914/14, rigettava l'appello principale proposto da S. P. nei confronti della società A.O. spa e accoglieva l'appello incidentale di quest'ultima, entrambi proposti avverso la sentenza n. 15517/12 del Tribunale di Roma, e per l'effetto rigettava le originarie domande del lavoratore.

2. Il Tribunale aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato al P. il 23 ottobre 2009 e per l'effetto aveva condannato la società datrice di lavoro a corrispondere al P. medesimo la somma di euro 14.850,00, pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto, ed al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento alla data di proposizione della domanda, nonché alla rifusione delle spese di lite.

3. Il lavoratore era stato assunto il 12 dicembre 2005, e operava dal 10 dicembre 2006 all'interno dell'aeroporto di Fiumicino con mansioni di operatore basico.

A seguito del ritiro del tesserino aeroportuale da parte della polizia giudiziaria, con lettera dell'8 gennaio 2008 (data riportata sia nella sentenza di appello a pag. 2, sia nel ricorso per cassazione a pag. 5), la società preso atto del ritiro gli aveva comunicato la sospensione con effetto immediato dalla prestazione lavorativa.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo era stato intimato con racc. in data 23 ottobre 2009, in ragione della sopravvenuta impossibilità della prestazione e non potendo ricollocare il lavoratore in mansioni equivalenti.

4. Il Tribunale riteneva non assolto l'obbligo del repechage, respingeva la richiesta relativa al pagamento delle retribuzioni nel periodo di sospensione e accoglieva la domanda di condanna dell'indennità sostitutiva dalla reintegra.

5. La Corte d'Appello richiamava l'art. 1460 cod. civ. e affermava che non si verteva in ipotesi di impossibilità temporanea della prestazione tutelata dalla legge ex art. 2110 cod. civ.; che dopo un anno dal ritiro del tesserino il mancato interesse alla prosecuzione del rapporto di lavoro era conforme ai parametri di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966.

Riteneva, quindi, assolto l'onere probatorio in relazione al repechage.

6. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando due motivi di ricorso.

7. Resiste la società A.O. spa con controricorso e memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 e dell'art. 38 del Contratto collettivo di lavoro del personale di terra A.O. spa , in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. Il ricorrente censura la statuizione con la quale il giudice di secondo grado ha ritenuto non fondate le doglianze relative al mancato pagamento delle retribuzioni durante il periodo di sospensione dal servizio. Assume il lavoratore che il provvedimento cautelare può legittimare oltre alla sospensione dall'attività lavorativa anche quella dalla controprestazione retributiva solo se quest'ultima è convenzionalmente prevista. Diversamente va corrisposta la retribuzione in relazione al perdurare del rapporto di lavoro.

Richiama, quindi l'art. 38 del contratto collettivo, ricordando che lo stesso prevede che alla violazione degli obblighi e dei doveri inerenti alla posizione del dipendente possono essere applicate, secondo la gravità dell'infrazione, le sanzioni previste dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970, mentre nulla è disposto sulla sospensione cautelativa e sull'assenza di retribuzione in tal periodo.

2. Il motivo non è fondato. Il recesso di cui è causa risulta intimato per impossibilità sopravvenuta della prestazione, dopo una sospensione del rapporto di lavoro di circa un anno in conseguenza del provvedimento di ritiro delle tessera di accesso all'area aeroportuale in possesso del lavoratore, documento essenziale per lo svolgimento.

Non si tratta, pertanto, di un licenziamento disciplinare ma di un recesso intimato in conseguenza dell'accertata impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione convenuta contrattualmente, in virtù di un provvedimento non emesso dal datore di lavoro ed estraneo alla sua sfera di influenza, come il rilascio del tesserino di accesso nell'area aeroportuale (cfr. Cass., n. 19613 del 2014).

In relazione alla mancata corresponsione delle retribuzioni nel periodo di sospensione, occorre ricordare che questa Corte (Cass. n. 17353 del 2012) ha affermato che nel contratto di lavoro - ove le prestazioni sono corrispettive, in quanto all'obbligo di lavorare dell'una corrisponde l'obbligo di remunerazione dell'altra - ciascuna parte può valersi dell'eccezione di inadempimento prevista dall'art 1460 cod. civ., dovendosi escludere che alla inadempienza del lavoratore il datore di lavoro possa reagire solo con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento, oppure col rifiuto di ricevere la prestazione parziale a norma dell'art 1181 cod. civ. e con la richiesta di risarcimento. Ne consegue che, nel caso di inadempimento della prestazione lavorativa il datore di lavoro non è tenuto al pagamento delle retribuzioni ove ricorrano le condizioni dell'art. 1460 cod. civ.

Pertanto, correttamente, la Corte d'Appello ha escluso la natura disciplinare della sospensione con la conseguente inapplicabilità della relativa disciplina legale e convenzionale, e ha fatto applicazione dell'art. 1460 cod. civ. e dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, ritenendo non dovuta la retribuzione durante il periodo di sospensione del rapporto, escludendo che si vertesse in ipotesi in cui la sospensione è tutelata dalla legge, quale la malattia, e ritenendo legittimo il recesso.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ.

È censurata la statuizione sull'avvenuto adempimento dell'onere della prova dell'impossibilità di ricollocare il lavoratore nell'ambito della organizzazione aziendale.

4. Il motivo è inammissibile in ragione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 2014.

Occorre rilevare che nel caso in esame, la sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l'11 settembre 2012. Trova dunque applicazione il nuovo testo dell'art. 360 cpc, comma 1, n. 5, come sostituito dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lettera b), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito che la riformulazione dell'art. 360 cpc, comma 1, n. 5, disposta dal d.l. n. 83 del 2012, art. 54 convertito dalla legge n. 134 del 2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sè, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.

Il vizio non ricorre nel caso in esame, atteso che il giudice d'appello ha ritenuto assolto l'onere probatorio circa l'impossibilità di concreta ricollocazione del lavoratore presso le altre sue sedi operative per dismissione delle stesse o per assenza di posti in organico corrispondenti alla qualifica del lavoratore - repechage- dando atto e rilevando che dall'istruttoria testimoniale si era evidenziato come presso le sedi esterne dell'aeroporto operassero soltanto dirigenti e impiegati direttivi, e che comunque le stesse erano in via di dismissione per l'incorporazione in A..

Rilevava la Corte d'Appello, che la mera allegazioni di altre sedi risultanti da visura camerale, senza alcuna emergenza probatori in ordine alla effettiva operatività di tali sedi, ovvero al fatto che presso le stesse fosse o meno adibito personale, e con quale professionalità e qualifica, a fronte di una precisa emergenza probatoria in segno contrario, nel senso che tutto il personale (compreso l'originario ricorrente prima della sospensione) era di fatto confluito all'interno dell'aeroporto di Fiumicino, salvo limitate figure apicali, si risolveva in un astratta ed inammissibile violazione di un onere della prova negativo.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

7. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.